Dark Light

È mattina presto e la sveglia suona. Con gli occhi ancora pesanti di sonno, allunghiamo la mano verso lo smartphone per silenziarla. In quell’istante, quasi senza accorgercene, ci ritroviamo immersi nel vortice del digitale: diamo un’occhiata alle notifiche, controlliamo le e-mail, scorrendo distrattamente tra le nuove conversazioni. Subito dopo, ci fermiamo su un articolo di giornale, lasciamo un cuoricino sulla foto di un amico e, magari, cerchiamo su Google il significato del sogno che abbiamo appena fatto.

È un rituale quotidiano, quasi magico nella sua ripetitività: entriamo nella Rete e, passo dopo passo, lasciamo tracce del nostro passaggio. Navigando tra link, feed e post, iniziamo a disseminare segni digitali del nostro movimento, spesso in modo inconsapevole. Ogni click, ogni ricerca su Google, ogni immagine condivisa o commento lasciato si accumula in questo paesaggio virtuale. Questi segni non sono tangibili come le orme lasciate sulla sabbia, ma invisibili impronte digitali, tracciate dai nostri polpastrelli sulle superfici degli schermi.

Tutto ciò che facciamo online, dalle query ai like, dai commenti alle recensioni, contribuisce alla creazione di quello che viene definito small data. Si tratta di frammenti di informazioni minuscoli ma potenti, che raccontano chi siamo, cosa desideriamo e come ci muoviamo nel mondo digitale. Ognuno di questi piccoli dati può sembrare insignificante preso singolarmente, ma insieme costituiscono una mappa complessa e dettagliata della nostra vita digitale, una sorta di diario non scritto delle nostre azioni, abitudini e preferenze. Così, ogni mattina, mentre ci destreggiamo tra gli schermi, senza nemmeno rendercene conto, costruiamo un’identità digitale che ci segue ovunque, fatta di tracce indelebili che si intrecciano con il vasto flusso di dati che alimenta l’universo online.

Gli small data sono piccole tracce digitali, dunque, che, a differenza dei grandi numeri astratti, hanno una qualità unica: sono visibili a occhio nudo e raccontano storie umane. Si tratta di informazioni personali e contestuali che, pur nella loro dimensione ridotta, rivelano molto sulle persone, sulle loro abitudini e sui loro comportamenti online. Ma il loro ruolo non si esaurisce qui. Gli small data spesso si intrecciano con i big data — quell’enorme quantità di numeri e informazioni raccolte dalle macchine — diventandone una chiave interpretativa preziosa. Il loro superpotere risiede proprio nella capacità di arricchire e contestualizzare i freddi dati quantitativi, dando un senso alle statistiche e ai modelli che emergono dai grandi set di dati.

Questi piccoli frammenti digitali hanno il potere di svelare il significato dietro i comportamenti delle persone, le loro scelte quotidiane e i modi in cui comunicano e si relazionano nel mondo digitale. Per questo motivo, gli small data sono talvolta chiamati anche thick data, un termine che sottolinea la profondità e la rilevanza delle informazioni che contengono. Non si tratta solo di numeri, ma di indizi che raccontano qualcosa di più ampio e complesso: le storie, le emozioni e le motivazioni che si nascondono dietro ogni azione online. Osservare e interpretare queste tracce umane ci permette di vedere la Rete non solo come un semplice mezzo di comunicazione, ma anche come una finestra per comprendere meglio la condizione umana. Ogni click, ogni condivisione, ogni interazione digitale è una piccola tessera di un mosaico che, quando analizzato nel suo insieme, può offrire preziose intuizioni su come viviamo, pensiamo e ci relazioniamo con il mondo che ci circonda. Gli small data, quindi, non sono solo strumenti di analisi, ma una lente attraverso cui leggere e comprendere l’essenza dell’uomo nell’era digitale.

Ce lo ricorda il professor Richard Rogers, esperto di epistemologia del web e docente di new media all’Università di Amsterdam, nel suo libro Metodi digitali. Fare ricerca sociale con il web (ed. Il Mulino):

“Internet può essere utilizzato come luogo di ricerca per studiare molte altre cose oltre alla cultura online: il punto non è più quanta società e cultura si ritrovino sul web, quanto piuttosto come diagnosticare il cambiamento culturale e le condizioni sociali attraverso Internet”.

Facciamo subito un esempio pratico. Vi siete mai chiesti perché sugli scaffali dei supermercati c’è una così vasta scelta di spezie? E come mai stanno proliferando ecommerce dedicati esclusivamente a queste polveri aromatiche? Da dove arriva tutto questo interesse? Una prima risposta la possiamo trovare nell’aumento della passione per la cucina internazionale e nella crescente attenzione al benessere alimentare, che ha permesso alle spezie di acquisire una nuova immagine di “micro-lusso”. Preparare un piatto etnico a casa è diventato un modo accessibile per concedersi un’esperienza raffinata e diversificata. Ma c’è dell’altro.

Per catturare l’attenzione delle giovani generazioni, il più grande network culinario al mondo, Tasty, in collaborazione con il rinomato produttore di spezie McCormick & Co., ha lanciato tempo fa una linea di miscele aromatiche negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada. Le varietà Fiery, Zesty, Savory, Jazzy e Hearty sono state create sfruttando proprio gli small data raccolti da BuzzFeed, la media company dietro Tasty. L’obiettivo? Attrarre i Millennial, una generazione curiosa di esplorare nuovi sapori e pronta a mettersi alla prova in cucina.

Come sono stati utilizzati questi small data? Invece di concentrarsi su quali marchi fossero i più popolari, Tasty e McCormick hanno scavato più a fondo per comprendere il perché i giovani utilizzassero le spezie. Sono state analizzate le conversazioni sui social, le parole chiave delle ricerche online e le foto di piatti etnici condivise dagli utenti. Quello che è emerso è che il legame tra i Millennial e le nuove cucine deriva soprattutto dalla crescente accessibilità dei viaggi nell’ultimo decennio e dalle opportunità di contatto con altre culture, grazie a esperienze di studio o lavoro all’estero. Viaggiare ha permesso loro di scoprire nuovi sapori e di volerli replicare a casa. Non sorprende, quindi, che il mercato delle spezie sia in forte espansione. Le spezie offrono alle persone la possibilità di ricreare piatti internazionali, rivivendo i ricordi dei viaggi o semplicemente esplorando nuovi territori culinari senza dover lasciare la propria cucina. Questa nuova attenzione verso il cibo, influenzata da esperienze globali e alimentata dagli small data, ha trasformato il modo in cui i consumatori si approcciano alle spezie, portandole al centro di una vera e propria rivoluzione gastronomica.

Come spiega efficacemente l’esperto di branding e neuromarketing Martin Lindstrom nell’introduzione del suo libro Small Data. I piccoli indizi che svelano i grandi trend (ed. Hoepli), l’obiettivo è quello di individuare “regolarità, parallelismi, correlazioni e – non da ultimo – equilibri ed esagerazioni.”

Il processo di osservazione e analisi ci porta a scoprire dettagli apparentemente insignificanti, ma che rivelano tendenze profonde e significative. Lindstrom sottolinea come siano proprio i piccoli segnali, quelli spesso trascurati, a fornire le chiavi per comprendere i comportamenti umani e anticipare i grandi cambiamenti nel mercato e nella società. Il valore degli small data, quindi, non risiede solo nella loro capacità di raccontare storie immediate, ma anche nel loro potenziale di offrire spunti per cogliere le tendenze emergenti. Studiando le abitudini quotidiane, i rituali e le preferenze individuali, gli small data ci permettono di decifrare i bisogni più profondi dei consumatori e di delineare le traiettorie future, che possono trasformare interi settori economici e culturali.

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        Tratto, ispirato e ampliato da:
        #Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale (ed. Hoepli)