Dark Light

The Story Lab, la full creative advertainment agency di dentsu italia, ha presentato qualche giorno fa La guerra e la Rete, un’analisi delle conversazioni online a un mese dall’inizio del conflitto Russia-Ucraina. L’indagine ha preso in considerazione il modo in cui le persone online hanno reagito alla prima crisi sviluppatasi in Europa dalla nascita dei social media. Contestualmente, è stato analizzato l’impatto del conflitto sugli italiani anche in rapporto agli effetti delle ondate pandemiche. Per l’occasione, Samanta Giuliani, Executive Strategy Director di The Story Lab, ha sottolineato che:

“a un mese dall’inizio del conflitto, le discussioni in rete ci mostrano l’oscillazione dello stato d’animo (e dell’interesse) degli italiani. Per le persone, ricostruire una visione d’insieme chiara e univoca sembra impossibile. Tra le altre cose, i dati che abbiamo raccolto ci ricordano il pericolo di arrivare troppo velocemente a una saturazione di informazioni e stimoli su un argomento. L’essere umano non riesce a rimanere in uno stato di ansia o paura troppo a lungo: fisiologicamente, più un fenomeno si dilata nel tempo, più siamo programmati per perdere interesse”.

Non solo: sul tema Ucraina, The Story Lab rende disponibile online anche il paper Brand Activism in tempo di guerra dedicato alla posizione che i brand stanno tenendo in questo contesto di guerra. Come si può leggere dallo scenario preso in considerazione:

“dopo due anni dall’inizio della pandemia di Covid-19 che ha messo a dura prova la popolazione mondiale in termini di benessere emotivo e ha reso incerto lo scenario politico ed economico, lo scoppio del conflitto in Ucraina ha comportato un ulteriore fardello sulla coscienza delle persone. Si registra un minimo storico nella capacità, da parte dei consumatori, di farsi carico delle grandi responsabilità che tengono in sospeso il destino della società e del pianeta. Responsabilità che, in questo contesto, vengono derogate a istituzioni e – sempre di più – a brand e aziende”.

Partendo da queste riflessioni e analisi, qui a BUNS abbiamo cercato di mappare i cambiamenti in corso più rilevanti rispetto alle nostre percezioni legate a piattaforme digitali e tecnologia. Ne abbiamo individuati sette, e li trovate qui sotto. Ma una premessa – un po’ lunga – la facciamo anche noi. Perché la raffinatezza tecnica, la complessità e la distruttività della guerra ha continuato a crescere ed evolversi nel corso della storia umana. E al contempo, si è sviluppata anche la sofisticatezza dei media, dandoci la possibilità di catturare la tragedia umana della guerra con dettagli sempre più vividi.

Se datiamo al 1847 durante la guerra messicano-americana il primo scatto di guerra mai fatto, dobbiamo arrivare alla guerra civile americana (1861-1865) per avere il primo grande conflitto a essere documentato in modo significativo attraverso la fotografia, che ha rivelato la portata senza precedenti di morte e devastazione a un pubblico di massa. E ancora: il cinema era la nuova tecnologia quando scoppiò la prima guerra mondiale nel 1914; la televisione lo fu per la guerra del Vietnam e gli attacchi al napalm trasmessi quotidianamente in milioni di case americane sono citate da molti come un fattore cruciale nel trasformare l’opinione dei cittadini contro la guerra. Arrivando a tempi moderni, la prima guerra del Golfo del 1991 l’abbiamo seguita via cavo 24 ore su 24, per non parlare poi dell’Afghanistan nel 2001 e dell’Iraq nel 2003 che hanno preceduto di qualche anno la nascita di YouTube. Twitter è stato poi a fianco della Primavera Araba del 2011; TikTok dell’invasione russa in Ucraina adesso.

In questi giorni siamo in grado di guardare lo svolgersi del conflitto in tempo reale sui feed dei social dei nostri smartphone mentre giornalisti, volontari e persone comuni caricano video di ciò che stanno vivendo. E a onor del vero, per TikTok non è la prima volta alle prese con la guerra, se pensiamo ai contenuti su Yemen, Siria, Afghanistan e Myanmar. Ma ad ogni modo, proprio a causa della complessità, della distanza culturale e della mancanza di comprensione di questi conflitti tra il pubblico occidentale, non sono riusciti a diventare importanti eventi mediatici come quest’ultimo.

1. L’inedita consapevolezza sulla tecnologia

Qualche settimana prima dell’inizio del conflitto, nei gruppi di creativi su Facebook e su LinkedIn ci si interrogava quanto fosse centrato lo spot di Apple Watch che metteva al centro della narrazione la funzione ‘Sos’ capace di contattare il numero per le emergenze, nonché il suo relativo l’automatismo più importante, che scatta quando l’orologio rileva una caduta importante di chi lo indossa. Per alcuni, il messaggio subliminale – ovvero acquistare un orologio per non morire – era troppo spinto. Ha senso comunicare quanto la tecnologia possa farci sopravvivere? Non è meglio far vedere quanto è bello il suo design? Domande lecite.

Il cambio di passo sulla percezione lo sta portando la guerra in Europa. Le persone stanno toccando con mano quanto in realtà la tecnologia possa salvarci la vita. O almeno, salvaguardarla, renderla migliore. In realtà, l’ha sempre fatto, se pensiamo a quanto ha cercato di tamponare la solitudine negli anziani durante la pandemia.

In collaborazione con il governo ucraino, a metà dello scorso marzo Google ha lanciato un aggiornamento su tutti i suoi telefoni Android in Ucraina in grado di avvisare i cittadini di eventuali raid aerei. In precedenza, Google aveva attirato l’attenzione sull’app ucraina Alarm, creata dal governo ucraino e da sviluppatori locali. A differenza dell’app ucraino Alarm, la versione di Google è un adattamento del suo “meccanismo di avviso a bassa latenza” originariamente concepito per gli avvisi di terremoto. Sebbene questo richieda la posizione approssimativa degli utenti, verrà semplicemente utilizzato per individuare le persone in pericolo e non per tracciare attivamente la loro posizione.

2. L’hackeraggio benefico delle piattaforme di svago

Tra gli effetti della coda lunga pandemica e le atrocità della guerra visibili da ogni smartphone, si è fatto largo un senso di unità gigantesco, che sta permeando il mondo occidentale e tantissime comunità locali. Le persone non sono più in grado di disconnettersi facilmente dai propri strumenti digitali, ma vengono spinte a cooperare sul campo, unire le forze e agire in modo da creare cambiamenti significativi per i propri vicini. E lo stesso vale per molti protagonisti degli habitat in Rete. Airbnb, esempio lampante di un marchio che rappresenta le persone che lo seguono, è uno dei primi a fare un gesto concreto che senza dubbio si riverbererà in un’ulteriore fiducia nel portale, ispirando un vero senso di comunità.

Se da un lato Airbnb aveva offerto da subito alloggi gratuiti a breve termine per un massimo di 100.000 rifugiati ucraini, dall’altra parte gli stessi utenti del portale da tutto il mondo hanno iniziato a prenotare vacanze fittizie in Ucraina, così da far arrivare direttamente in tasca delle persone i soldi del non-soggiorno. Un’iniziativa incredibile, che ha convinto in poco tempo Airbnb a dare il suo benestare e a togliere le commissioni.

Anche su Etsy è iniziato ad accadere qualcosa di analogo, a sostegno di artigiane e artigiani dell’Ucraina: anziché oggetti, si ricevono illustrazioni in PDF o cuori virtuali di ringraziamento. Anche qui, una sorta di artigianale NTF, Non Fungible Token benefici. E infatti il portale ha dichiarato: “Sappiamo che molti venditori stanno affrontando enormi difficoltà finanziarie a causa dei disordini. Per alleviare parte dell’onere, stiamo cancellando le commissioni dovute a Etsy da tutti i venditori in Ucraina.” Ben 4 milioni di dollari, non poco.

3. L’attivismo pratico dei fogli di calcolo

Come riportano i nostri amici di Dataninja Magazine, questa guerra sta facendo emergere anche un altro tipo di attivismo, quasi più rudimentale, lo spreadsheet activism, o “attivismo dei fogli di calcolo”. La curiosità è che sfrutta uno strumento semplice ma potente come Excel per diffondere informazioni su violazioni dei diritti umani e abusi, creare velocemente pressione per fermarli, sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi affrontati, e dare supporto reale a intere comunità. Qui un’iniziativa di qualche anno fa.

Rispetto al conflitto in corso, sono online Support Ukraine Artists & Labels, un foglio di calcolo per sostenere artisti ed etichette discografiche ucraine indipendenti, e Labs supporting Ukrainian Scientists, un elenco di laboratori di ricerca in tutto il mondo che possono supportare scienziate e scienziati dall’Ucraina.

Ma i fogli di calcolo sono usati anche per massimizzare impatto del lavoro di debunking. Come scrive bene Donata Columbro, “un foglio di calcolo ben organizzato potrebbe essere molto più efficace di un sito, in questo contesto, perché permette di trovare immediatamente le informazioni di cui le persone hanno bisogno“.

4. La richiesta di un posizionamento non ambiguo

In passato abbiamo parlato spesso di come la Generazione Z (anche se non solo) chieda da tempo a gran voce alle aziende di prendere posizione sulle tensioni sociali e culturali. Questo conflitto ha portato alla luce in modo ancora più deciso questo fenomeno. E così, anche i brand più restii a uscire dal mercato russo hanno fatto alla fine marcia indietro dopo essersi impegnati a rimanere aperti nel Paese in un primo momento.

In queste settimane qualsiasi esitazione a schierarsi con l’Ucraina è percepita come un tentativo di trarre profitto di fronte a una crisi umanitaria. Un esempio positivo: Balenciaga, alla Paris Fashion Week di quest’anno, ha fatto una toccante dedica alla resistenza e al coraggio degli ucraini. Come raccontato bene su ioDonna, “la sfilata di Balenciaga Autunno-Inverno 2022/2023 è stata presentata in un infinito campo bianco, uno spazio circolare ricoperto di neve artificiale, protetto da un vetro trasparente da cui gli ospiti avevano una visione a 360° della passerella”. E ancora “gli invitati hanno trovato ad attenderli al loro posto delle bandiere dell’Ucraina elegantemente ripiegate, mentre la sfilata vera e propria si è aperta con la voce dello stilista georgiano Demna che parlava in ucraino”.

Insomma, soprattutto i più giovani non tollerano il silenzio e vogliono vedere i marchi farsi avanti tempestivamente per supportare la comunità offesa e sono sempre più critici nei confronti di mosse che sentono poco oneste e coerenti. Sui social anche la questione energetica e sostenibilie diventa comunque più urgente. Nicolas Lozito nella sua ultima newsletter Il colore verde ha riportato alcune risorse interessanti: Le dieci questioni sul clima che dovremo affrontare anche in mezzo a una guerra (Beppe Severgnini sul Corriere); I profitti del petrolio e del gas volano grazie alla guerra in Ucraina (Stella Levantesi su Internazionale); e Come la guerra ha stravolto la vita degli attivisti per il clima russi (NY Times). Ma è ancora un tema che interessa solo la GenZ? No, abbraccia anche quelle più anziane, che si interrogano però sulla possibilità o meno di tornare a carbone e stufette.

5. La convivenza con un conflitto dietro casa

Se siete frequentatori dei social, ve ne sarete accorti in prima persona. Fin dal principio del conflitto, è stato interessante vedere come siano stati pubblicati parallelamente ai reportage dolorosi dal fronte, immagini della settimana della moda milanese e i soliti contenuti personali tra cibo, gattini e panorami. Le prime due settimane, in particolare, hanno rappresentato un momento di “collasso del contesto”, dove foto terribili della guerra sono convissute con quelle più banali della pace, in un unico spazio lineare.

Il risultato: oggi le persone online, e soprattutto i più giovani, cercano il modo di elaborare sui propri spazi social le due esperienze separatamente, entrando però a volte in uno stato di confusione e ansia, seppure a distanza e da un luogo sicuro. L’invasione russa dell’Ucraina evidenzia un momento instabile nella geopolitica, con molteplici crisi che si verificano parallelamente per chi sta entrando nell’età adulta. E di fronte a questo smarrimento, subentra l’esigenza non solo di vedere, ma anche di dare una mano almeno via social.

A proposito di immagini, un libro fresco di stampa dal titolo L’ultima foto (le immagini ci stanno fottendo) di Michele Neri ed Enrico Ratto, edito da Seipersei, è molto consigliato. Dalla quarta di copertina: “Guardare, scrollare senza sosta fotografie, immagini, selfie, meme e fake non solo stanca e distrae: annebbia la percezione del tempo, compromette la memoria di un passato e l’attesa di un futuro soltanto nostro, allontana dall’altro fermandoci alla sua superficie riflettente, frantuma la fiducia nel ruolo affettivo e informativo della fotografia. Ci toglie il respiro.” I due autori tra queste 96 pagine dialogano sul legame tra il nostro destino più intimo e quello delle fotografie; abbandonando ogni nostalgia, fantasticano di una fotografia nuova, che torni a essere premessa di solidarietà e protezione contro l’insensatezza di vivere. Qualcosa per cui riaprire gli occhi.

6. Le via di uscita social dalle camere dell’eco

In tutto questo frenetico chiacchiericcio, ecco una buona notizia. Ciò a cui stiamo assistendo tra Generazione Z e fatti di cronaca bellica, fa ben sperare: sui social media, e in particolare TikTok (tanto che il NYT parla di #wartok), i più giovani si stanno ritagliando spazi di conversazioni e scambi più approfonditi, che spezzano le catene delle cosiddette echo chamber e che coinvolgono promuovendo una consapevolezza reale, necessaria perché il mondo possa davvero cambiare anche, ma non solo, con un click.

L’abbiamo già detto. Direttamente o indirettamente, i giovani online si sentono in uno stato di crisi costante e vogliono vedere con i propri occhi ciò che accade. E, in effetti, il 24 febbraio, i social media sono diventati uno spazio chiave per il mondo per assistere all’invasione della Russia in Ucraina. Immagini e video sono stati pubblicati accanto ai link per le donazioni e alle fonti che raccontano come aiutare. Il rovescio della medaglia? Lo slacktivism.

A lato, di gran valore le riflessioni e le domande che si pone Simonetta Sciandivasci su La Stampa: “la guerra non è che un tg, un racconto, un reportage, una bolletta che lievita, uno scaffale nuovo nelle vetrine delle librerie (Dostoevskij, Tolstoj, le riviste clandestine dell’Unione Sovietica, Samizdat, l’Archivio Mitrokhin), l’argomento unico o quasi unico dei giornali, la scritta #StandWithUcraine quando apri l’App di Glovo. Tutte cose che non mettono a repentaglio la nostra sopravvivenza, ma che condizionano la nostra vita e la restringono, intimoriscono, decolorano e, soprattutto, la posticipano.” E si chiede, e ci chiediamo anche noi:

“Non è anche questo la guerra? Quest’autunno perpetuo? Questo sapere che non puoi sapere, l’ennesimo bocciolo che non puoi goderti e che fiorirà indipendentemente da te e da tutto, e sarà l’ennesima primavera irripetibile e irrecuperabile a cui devi rinunciare? Eccome se lo è.”

7. Il logoramento della troppa informazione

E infine, non potevamo non citare il nuovo tzunami di infodemia. Il conflitto ucraino-russo ha sconvolto il mondo, anche perché porta tutti i segni di una guerra sul campo su vasta scala, oltre a essere pericolosamente vicino al nostro Paese. Ma è la disordinata battaglia sull’informazione che rende questo conflitto così contemporaneo – e per Putin la disinformazione è un’arma preferita: false affermazioni che la guerra sia una mera bufala da combattere con sanzioni, che le persone che appaiono insanguinati o morenti siano attori e persino che il presidente dell’Ucraina non sia altro che un deepfake.

Più in generale, la disinformazione è una caratteristica di questa crisi fin dall’inizio, i principali organi di informazione hanno risposto rapidamente. Ma come sappiamo dagli eventi passati – come la presidenza Trump e il Covid-19 – e le preoccupazioni per i prossimi eventi, la lotta alla disinformazione incoraggia le persone a essere più vigili. Social media e Big Tech, con il supporto dei governi virtuosi, hanno l’opportunità di dimostrare un’audace cittadinanza digitale affrontando la disinformazione alla fonte.

Rimanendo in tema media, Tlon.it ha parlato qualche giorno fa di come esista la dipendenza dalle cattive notizie: “come ha spiegato Nilufar Ahmed, docente dell’Università di Bristol, le aree del cervello che si attivano durante l’utilizzo compulsivo di uno smartphone sono le stesse coinvolte nelle tossicodipendenze. A peggiorare lo scenario c’è il “doomscrolling”, letteralmente lo “scorrimento delle sventure”. È un neologismo che descrive la dipendenza dalla visione compulsiva di cattive notizie sullo smartphone. Sempre più persone trascorrono quantità spropositate di tempo su dispositivi che forniscono notizie negative.”

Vedere di più, non significa capire di più. Servono nuove fonti, e nuovi punti di vista. E se invece il problema fosse che ci stiamo abituando? Se lo chiede il giornalista Giovanni Fasanella:

“Chiunque abbia orecchie e occhi ben aperti non può non accorgersi che a più di un mese dall’inizio della guerra in Ucraina sta crescendo un atteggiamento di disaffezione. C’è una netta inversione di tendenza di cui andrebbero individuate e discusse le cause. Dilaga la propaganda filo-Putin? Non credo. Non interessa più a nessuno il destino dell’Ucraina? Non mi pare. E allora? (…)

Una ragione è che l’opinione pubblica comincia a interrogarsi. Sì, avete capito bene: si pone delle domande. La più ricorrente: ma possibile che non ci fosse un modo per impedire che si arrivasse fino a questo punto? Un’altra: a quali conseguenze rischiamo di andare incontro? Una terza: il gioco vale la candela? E potrei continuare. Può piacere o no, ma sono domande che ormai prescindono dai torti e dalle ragioni. Nascono da stati d’animo molto profondi, che per loro natura sono irrazionali: l’incertezza per il presente, la paura per il futuro.

Ma attenzione, non sottovalutarli. (…)