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Che materia è? Su cosa si ragiona? Quali sono gli sbocchi? Abbiamo fatto queste domande a chi ha le mani in pasta nella disciplina: la docente universitaria Marzia Antenore dal 2015 insegna Data Journalism a La Sapienza di Roma. Nata a Roma nel 1972, ha passato parte della adolescenza giocando a Galaxy e Pong sul Commodor Vic 20 regalato da suo padre. Poi ha messo la testa a posto e si è iscritta al liceo classico per approdare alla Sapienza dove ha studiato Comunicazione. Fa ricerca sui media digitali dal Corso di dottorato, a conclusione del quale ha discusso una tesi sul ruolo della Rete durante le rivolte di Seattle. È incuriosita dalle innovazioni tecnologiche e le piace esplorarne le contaminazioni con diversi campi di ricerca come il giornalismo, la politica e recentemente la letteratura. Ha iniziato a collaborare con la rivista letteraria “L’Indice dei libri del mese” per la quale ha scritto un articolo su Michel Houellebecq come personaggio transmediale.

Che cosa si studia nel corso di Data Journalism e perché ha senso intraprendere questo percorso oggi?

Apparentemente il mio è un corso molto pratico: guido gli studenti nell’esplorazione degli strumenti che consentono di raccogliere dati digitali, elaborarli, ideare tabelle e visualizzazioni. Se si fa eccezione per Excel, uno software proprietario irrinunciabile, mi affido ai tools disponibili gratuitamente in rete, alcuni dei quali messi a disposizione da Google. Alcuni di questi strumenti sono sfruttati anche dalle redazioni dei grandi quotidiani. Li esorto a prestare attenzione a tutte le fonti di dati digitali – non solo a quelle istituzionali come Istat o Ocse – e dove non arrivo io invito degli specialisti. Ricordo una lezione avvincente di Riccardo Saporiti sul mapping digitale con Tableau, una applicazione potente e gratuita (!), almeno nelle funzioni di base. Infine, li incarico di realizzare un progetto giornalistico data-driven su un argomento scelto da loro sulla base di quanto hanno appreso in classe.

Lo studente alle prime armi si stringe attorno a pochi argomenti noti come un incerto a un corrimano. Mi vengono così proposti moltissimi progetti sui grandi temi che oggi colonizzano il dibattito pubblico – l’identità sessuale, le questioni di genere, le forme striscianti di razzismo di alcune Big Tech – e che spesso finiscono per sembrare un surrogato, più ingenuo e radicale, di quanto già si dibatte sui media. Gli studenti resistono  all’idea di occuparsi di altro, anche quando quell’altro è proprio sotto il loro naso, nella vita di tutti i giorni,  sotto forma di frammenti che chiedono di essere visti e composti. Non mi riesce quasi mai di distogliere l’attenzione dalle strade già battute e devo confessare che talvolta è frustrante. Mi ritengo soddisfatta quando riesco a spingerli a indicare aree di interesse, a proporre una personale cartografia tematica, anziché seguire mappe già tracciate dai media mainstream. 

Quali sono i mestieri che beneficiano dello studio della comunicazione e dei media digitali? 

Non so se per ogni professione ci sia un pubblico digitale pronto ad accoglierla, ma ammetto di non riuscire a immaginare alcun mestiere che non possa beneficiare dello studio dei media. Per esempio, alcuni miei colleghi si servono dei social – persino del giovanilissimo  TikTok – per discutere di poesia, scienza, letteratura, diritto mossi dall’idea di raggiungere un pubblico spontaneo di appassionati e curiosi. Però si tratta di un pubblico difficile, volatile ed esigente e tutto sommato persino un po’ ingrato.

Se la casa della comunicazione digitale ha molte porte, esistono solo due o tre chiavi che aprono veramente. Rimanendo all’esempio della divulgazione scientifica, quello che veniva definito da Joyce un “autentico fetore scolastico” potrebbe funzionare in un’aula ma sarà fallimentare in un ambiente digitale che risponde a altre regole di ingaggio. Se non si ha talento personale o si vuole sviluppare quello che già si possiede bisogna apprenderle.

Da quando hai iniziato a insegnare, come si è evoluto il rapporto tra giovani e Rete?

I giovani che incontro oggi hanno circa 20 anni, sono i nativi digitali: più che di un rapporto evoluto parlerei di una virata epocale. Noi che in  quegli ambienti ci siamo trasferiti solo da adulti non possiamo percepire fino in fondo cosa significhi essere nati già su un palcoscenico.  Non mi stupirei se oggi nella mia aula ci fosse uno studente la cui prima immagine circolata su Facebook fosse l’ecografia scattata nella pancia della mamma. Il fatto che quegli stessi genitori ora gli chiedano di interrompere lo spettacolo e di smontare la scenografia, come se dicessero “dai, abbiamo scherzato”, lo trovo  comprensibile ma grottesco e irrimediabilmente ingenuo. Perché? Non sono più gli adulti a tracciare la rotta.

Un fatto accaduto qualche anno fa si è poi ricomposto nella mia mente con tutta la chiarezza del caso. Stavo facendo ricevimento nel mio studio universitario e un tesista mi chiede di suggerirgli un libro sull’argomento che avevamo concordato. Quando stavo per allungargli il libro in modo che potesse appuntare titolo e autore, lui invece di estrarre dallo zaino una penna prese il cellulare e gli scattò una foto. Francamente allora non riuscivo a immaginare un gesto più pigro e insolente, e allo stesso tempo spontaneo come soffiarsi il naso o salutare sventolando la mano. Avevo appena  visto – ma non ancora intuito –  le prime manovre della virata, quando il timoniere  chiede all’equipaggio se è pronto e il randista  sposta la vela  a favore di vento. 

In che modo, dal tuo punto di vista, i social media hanno impatto sulle nostre vite, con quali pro e contro? 

Non credo di poter dare una risposta valida per tutti ma, parlando molto in generale, credo che ci abbiano resi più nevrotici e assai poco indulgenti nei confronti  della lentezza, propria e altrui.  Abbiamo una continua necessità di esserci, di scambiare messaggi, di farci catturare  dalla notifica, siamo ossessionati dalla reperibilità totale, dal cercare ed essere cercati, dalla gratificazione immediata. In questo senso i social si presentano come l’espressione più tangibile e concreta della nostra aspirazione a controllare il mondo sebbene gli studi e i regolamenti approvati dai governi offrano evidenze del fatto che siano le persone a essere controllate.

A livello più profondo invece mi sembra che abbiano radicalizzato la tendenza a osservare se stessi attraverso la lente di ingrandimento offerta dall’altro. L’altro in questo caso non è necessariamente l’amico o il genitore ma la comunità più vasta e immaginata dei followers ai quali ci si riferisce  per avere approvazione, sostegno, ammirazione. Poichè tutta l’attenzione è rivolta all’esterno c’è sempre meno spazio per il Sé. Christopher Bollas ne L’età dello Smarrimento (Raffello Cortina Editore) parlando della pratica del selfie sostiene che quando “i Sé contemporanei” postano sui social i propri autoritratti è come se chiedessero continuamente “Cosa vedi quando mi vedi?” demandando allo sguardo di un pubblico l’opportunità di definirli.  

Ma soprattutto, esisteranno ancora i social media da qui a un futuro non troppo lontano?

Da tempo si parla di crisi dei social media: il social di noi millennials, Facebook, continua a perdere utenti e non ha più alcuna presa sui ragazzi. Del resto, a 14 anni nessuno di noi guardava Rai 1 se non per fare compagnia alla nonna. In questi giorni il destino di Twitter sembra compromesso dalla recente acquisizione di Elon Musk che ne sta anche mettendo in discussione le regole di ingaggio: non più la brevità dei testi come concept ma lo sbrodolamento, l’incontinenza verbale. Molti hanno abbandonato la piattaforma come gesto di insubordinazione.  Altri social nascono ma hanno un ciclo di vita corto (penso a ClubHouse), altri per il momento sono usati soprattutto in alcuni Paesi, come la app statunitense Discord  o SnapChat.  Ho sentito dibattere della trasformazione degli utenti in lurkers (guardoni) più che in contributors come l’ultima avvisaglia prima del tracollo, eppure si tratta di un modello di consumo passivo che ha origini antiche quanto il web degli esordi e mi sorprende che al di fuori dalla comunità scientifica se ne parli solo adesso.   

Ma al di là dei numeri i social sono qui per restare. Attorno e dentro a quella forma reticolare siamo ormai chiamati a organizzare le nostre esistenze e  credo di non esagerare affermando  che questa sia la nuova forma che ha assunto  la normalità nella nostra epoca. 

Si parla sempre di più di dati. Qual è il modo giusto di approcciarsi ai dati, e più in generale alla ricerca sociale?

I dati hanno un ruolo importantissimo a vari livelli. Le aziende e spesso i decisori pubblici promuovono policy basate sull’analisi dei dati da cui dipendono centinaia e in alcuni casi migliaia di vite. Se ci riflettiamo bene, anche a livello individuale compiamo quasi tutte le nostre scelte sulla base della probabilità che accadano alcuni eventi: quando partire per un viaggio rispetto al traffico atteso, in quale punto attraversare una strada in modo sicuro, quale indumento indossare a seconda del meteo. Ma l’output di tutto questo lavoro di analisi e interpretazione della realtà, anche quello elaborato da sofisticati algoritmi di calcolo, può  rivelarsi mendace se ci ostiniamo ad osservarlo unicamente dal nostro irrevocabile punto di vista. 

Un aforisma rende perfettamente l’idea: se torturi abbastanza brutalmente i dati questi ti diranno tutto quello che vuoi sentirti dire. Questo vale sia per la ricerca scientifica che per i reportage giornalistici. Bisognerebbe avere il coraggio di fare un lavoro antitetico rispetto a quello di segnalazione autoriale che si fa in narrativa: se il romanzo ci insegna come leggere il suo autore, il dato ci dovrebbe guidare a indirizzare l’attenzione esclusivamente verso l’altro da sé. Il giornalista dei dati – o il ricercatore –  con le sue idiosincrasie, i suoi pregiudizi, le sue ossessioni tematiche dovrebbe resistere alla tentazione di cercare a ogni costo conferme a  visione del mondo precostituita.  

Una domanda più personale. Qual è il tuo primo ricordo “su internet”, il tuo primo approccio?

Il mio primo approccio risale alla stesura della tesi di laurea (1997). Un amico che studiava ingegneria al Politecnico di Torino mi aveva parlato di un motore di ricerca, “Virgilio”,  che attraverso l’inserimento di alcune parole chiave era in grado di trovare tutti i documenti collegati a quelle parole. Mi sembrava qualcosa di irresistibile e proibito, tipo bere l’acqua ghiacciata dopo una corsa.

Ricordo che dopo un po’ che stavo nel laboratorio di calcolo dell’università  – non avevo Internet a casa – cominciai a digitare parole a caso nel search: l’indicizzazione non era un granché ma quell’esperienza – allora molto simile a un quella di cercare l’indizio giusto in una Escape Room  – avrebbe cambiato il mio modo e quello di milioni di persone di muoversi tra l’informazione. Non avevo idea che da quel momento in poi l’umanità non avrebbe fatto altro che tentare di ricomporre indizi combinati tra loro in modo amorfo per trasformarli in conoscenza. Era la fine della linearità e la nascita dell’ipertesto. Allora non trovai quello che stavo cercando per la tesi ma più tardi scoprii i forum che per una  persona con interessi molto di nicchia furono un’occasione di apertura e scambio straordinari.  

Ci consigli letture su comunicazione e media?

Il campo è vasto quindi potrei  solo esprimere pareri basati su interessi personali. Sento più utile consigliare di esplorare i cataloghi di due collane che ospitano alcuni volumi letti con molto gusto. Di Einaudi consiglio di dare un’occhiata alla collana de I Maverick che ospita saggi di ricercatori e giornalisti scritti con raffinata semplicità. Più operativi ma non meno raffinati  alcuni dei contributi inseriti nella collana Tracce diretta da Paolo Iabichino che esplorano le parole chiave della comunicazione contemporanea con un linguaggio privo di orpelli e una veste grafica invitante.