Dark Light

We are shaped by our tools.” ― Sherry Turkle,
Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other

La tecnologia è una questione di pelle.

Benché il solco tra ciò che è umano e ciò che è robotico sia ancora molto profondo, sentiamo in modo del tutto irrazionale di avere bisogno di qualcosa in più: il nostro tessuto protettivo non è sufficiente. Noi esseri umani siamo un miscuglio complesso di emozioni e di capacità esperienziali; i computer e i dispositivi sono logica e razionalità. In una parola sola: contenimento.

Guardate il vostro polso, o quello del vostro collega lì accanto. Quel braccialetto intelligente ascolta il battito cardiaco, si segna le calorie che bruciate, partecipa alle ore di sonno, fa la conta dei passi. E, soprattutto, calma i nostri nervi. Ci rassicura, ci tiene compagnia senza costringerci in una relazione di amicizia. Negli ultimi anni la tecnologia a portata di clic, quella che possiamo ordinare su Amazon insomma, copre lembi della nostra pelle, creando di pezzo in pezzo una corazza di difesa dagli agenti esterni, climatici, culturali e sociali.

La tecnologia via via contiene l’emotività, addomestica le paure e costringe il corpo: i tracker al polso o alla caviglia; i visori in testa; i cerotti con sensori sul braccio; i pannolini intelligenti per bebè. Come cavalieri medievali, ci sentiamo protetti dietro agli schermi che mettono una barriera tra noi e i nemici. Appagando il desiderio atavico di controllo, i dispositivi indossabili tentano di prevenire gli imprevisti e di scongiurare il pericolo di ritrovarsi davanti a un problema difficile da risolvere. Avere sotto controllo il proprio corpo, dunque, significa avere sotto controllo anche la psiche.

In modo del tutto silenzioso, le componenti artificiali sono diventante parte imprescindibile del corpo umano, e non stiamo parlando solo di protesi. Lo possiamo verificare così: ricordate l’ultima volta che avete dimenticato lo smartphone da qualche parte? O che il modem ha smesso di pulsare per un’infinita mezz’ora? Quali sensazioni fisiche avete provato? Ebbene, come ricorda Sherry Turkle nei suoi studi di relazione tra uomo e macchina, siamo plasmati dai nostri strumenti. Senza timore di esagerazione: noi umani stiamo diventando i nostri strumenti.

I dispositivi artificiali sono già entrati sottopelle da tempo, in realtà, e il plauso va innanzitutto al campo biomedico. Ci sono cuori e pancreas artificiali, per esempio; magneti, chip e sensori che levano via il dolore, oppure aiutano a far comunicare meglio gli organi con il cervello. Il metallo, precettivamente così freddo e duro, trova posto nelle morbide e calde cavità interiori, che a loro volta inglobano quel corpo estraneo, rendendolo a sua volta più umano. Lo fanno vivere.

Accettiamo una tale intrusione per un motivo solo: allontanare lo spettro della morte, allungare la vita, salvaguardare un futuro dignitoso. Inoltre, con il tempo abbiamo capito che da soli non possiamo salvarci dal disastro che abbiamo innescato su questo pianeta. Forse, il condizionale è d’obbligo, con la tecnologia possiamo riuscirci. Se nel 2022 i polmoni artificiali entrano in uno zaino, nel 2052 sarà possibile farseli sostituire in via preventiva.

Dalla frustrazione di sapersi mortali alla velleità di diventare immortali, il passo è breve. Sebbene siano percepite ancora dalla maggioranza delle persone come un qualcosa di futuristico, le tecnologie da innestare nel corpo sono un vero e proprio passe-partout per la fonte della giovinezza del giardino dell’Eden. Non solo perché due reni bionici migliorano considerevolmente la vita, ma anche perché, in qualche misura, sappiamo che non invecchieranno. Già, perché la tecnologia non muore con noi, ci può sopravvivere.

La produzione culturale esplora la relazione tra esseri viventi e macchine dai tempi del Futurismo, ancora prima che si affacciasse la disciplina cibernetica, per poi trovare il suo massimo splendore nel fantascientifico cyberpunk dei primi anni Ottanta. La parola stessa cyborg definisce il protagonista della stragrande maggioranza di queste narrative: un umano potenziato da consistenti innesti dentro il corpo, come braccia, gambe, cervello, organi cibernetici. Ma a questo termine se ne affianca un altro nel 1995 con una proposta del filosofo futurista Alexander Chislenko: fyborg, contrazione di functional cyborg, che indica un umano potenziato dai dispositivi ma senza innesti, ma con occhiali, auricolari, smartwatch, tablet.

Non solo. Chislenko è anche stato uno dei più grandi sostenitori del concetto di transumanesimo, spesso abbreviato con H+ o H-plus. Cosa significa: la condizione umana, con tutte le sue fragilità, è superata dalla stretta simbiosi tra essere vivente e macchina. L’intelligenza artificiale, la nanotecnologia e tutti gli altri rami di ricerca che incrociano biotecnologia e informatica danno vita a una nuova generazione di umani potenziati e ottimizzati per abbracciare le sfide del mondo contemporaneo. Ci stanno rendendo migliori, dunque, più stabili e più capaci di rispondere ai problemi, ma soprattutto ci tengono lontani tutti quegli aspetti della vita umana di cui vorremmo fare a meno, come il dolore e la malattia. E la morte.

L’essere umano che rimane umano, ma che trascende sé stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana, per la sua natura umana” – scriveva il biologo e genetista Julian Huxtley nel 1957 sul concetto di transumanesimo. Insomma, la prospettiva futura è quella di imbastire una relazione sempre più stretta tra naturale e artificiale così da garantire la sopravvivenza della specie nelle migliori condizioni possibili, superandole limitazioni biologiche. In questo modo, anche diverse tensioni sociali andrebbero a sciogliersi, permettendo alle persone di ridurre, se non superare, povertà, disabilità, malnutrizione e politiche di governi oppressivi.

In questo momento, siamo nel bel mezzo di una tempesta perfetta, nel punto di scontro tra due correnti che spingono l’una contro l’altra. A sinistra, guardando al passato, c’è una tecnologia visibile, esposta, fuori la pelle; a destra, guardando al futuro, ce n’è una invisibile, innestata, sotto la pelle. Noi siamo al centro, a cavallo tra la prima che rende noi esseri umani sempre più tecnologici, e la seconda invece che rende la tecnologia sempre più umana. Quello che abbiamo fatto fino a questo momento sembra non bastare più, quello che ci presenta il futuro sembra ancora spaventarci: due tensioni che, alla fine, vedranno vincere l’istinto di sopravvivenza, ancora una volta.

Come dicevamo in principio, una questione di pelle, appunto.