Il terzo capitolo di Ethnography and Virtual Worlds: A Handbook of Method, a cura dei ricercatori Tom Boellstorff, Bonnie Nardi, T. L. Taylor e Celia Pearce, si concentra sulla raccolta e l’analisi dei miti più comuni relativi all’etnografia digitale. Questo testo, considerato un punto di riferimento per la ricerca nei mondi virtuali, sfata alcune delle concezioni errate più diffuse sulla metodologia etnografica applicata agli spazi digitali. Qui a BUNS abbiamo scelte cinque:
L’etnografia digitale non è scientifica!
La prima obiezione comune all’etnografia, e all’etnografia digitale in particolare, è che non sia una disciplina scientifica. Tuttavia, se si prende in considerazione il significato letterale del termine “scienza”, che deriva dal latino scientia (conoscenza o sapere), si può affermare con sicurezza che l’etnografia rientra pienamente nella sfera scientifica. Questo perché l’etnografia è il risultato di processi che implicano il pensiero, l’osservazione e la produzione di conoscenza. Anche se non si allinea ai metodi sperimentali classici delle cosiddette “scienze dure” come la fisica o la chimica, si tratta comunque di un approccio rigoroso alla comprensione dei fenomeni umani e sociali.
In ambito anglosassone, discipline come l’antropologia e la sociologia vengono talvolta classificate come soft sciences (in italiano, “scienze molli”), in contrapposizione alle “scienze dure” o “esatte”. Questo termine, lungi dall’essere dispregiativo, riflette semplicemente il fatto che in queste discipline il rigore matematico e l’aderenza stretta al metodo scientifico tradizionale non sono sempre le priorità principali, poiché applicarli rigidamente potrebbe essere inefficace o persino controproducente. Prendiamo, ad esempio, lo studio delle comunità online dedite allo scambio di oggetti o vestiti di seconda mano: come potrebbe un approccio rigidamente strutturato catturare appieno la fluidità e la dinamicità di una pratica come il baratto, che esiste da millenni e si basa su relazioni sociali e negoziazioni informali?
L’etnografia digitale, che si focalizza sulle interazioni umane nei mondi virtuali, rientra dunque a pieno titolo nelle “scienze molli”. Questo perché, a differenza delle discipline che si basano su esperimenti quantificabili e ripetibili, l’etnografia mira a comprendere fenomeni complessi, difficili da misurare in termini puramente matematici. È un metodo che si caratterizza per il suo approccio qualitativo, il quale risulta particolarmente adatto allo studio delle dinamiche sociali e culturali che si sviluppano online.
Vale di più la ricerca quantitativa!
Quante volte ci si sentirà dire che l’etnografia digitale non è necessaria, soprattutto quando si ha già accesso a una gran quantità di dati estratti automaticamente da sofisticati software di data mining? Eppure, questa convinzione è profondamente limitante. Nessuno sostiene che l’etnografia digitale sia autosufficiente o l’unico strumento necessario per comprendere appieno le dinamiche online. Al contrario, rappresenta un prezioso complemento che serve ad approfondire e interpretare i dati estrapolati attraverso metodi quantitativi.
Il data mining, con il suo approccio automatico e matematico, è in grado di restituire informazioni precise e dettagliate su una moltitudine di comportamenti online. Ad esempio, può dirci che nel luglio 2018 sul tuo e-commerce per neonati si sono registrate 3.212 donne, di cui il 70% ha un’età compresa tra i 25 e i 35 anni, mentre il restante 30% è sopra i 35 anni. Può aggiungere che il 49% di quelle nel primo gruppo è arrivato sul sito cercando “vestiti prémaman”, e di queste, il 31% ha acquistato un capo in lino, mentre il 3% ha aggiunto al carrello anche un body per neonati. Si potrebbe anche scoprire che l’1% delle donne si è cancellata dall’e-commerce entro un mese senza aver mai comprato nulla. Queste informazioni sono fondamentali per capire tendenze, tracciare comportamenti e cercare correlazioni tra i dati comportamentali.
Tuttavia, per quanto potenti, queste operazioni sono eseguite da macchine e si limitano a mappare relazioni tra numeri, non tra esseri umani. I dati quantitativi non riescono a cogliere la complessità delle motivazioni che guidano le scelte individuali o a spiegare il significato sociale che certi comportamenti assumono per le persone coinvolte. Il data mining ci può dire chi ha fatto cosa e quando, ma non può spiegare perché. Non può entrare nelle dinamiche relazionali che esistono tra le persone, né esplorare il contesto culturale o emotivo che influisce su tali comportamenti.
Ed è qui che entra in gioco l’etnografia digitale. Mentre i numeri offrono una visione macroscopica e schematica dei fenomeni, l’etnografia si concentra sulla comprensione qualitativa delle interazioni, dei significati e delle esperienze vissute dai singoli utenti. Ci consente di andare oltre i numeri e di esplorare il “come” e il “perché” dietro le scelte delle persone, aggiungendo una dimensione umana e contestuale all’analisi dei dati. Per esempio, può aiutarci a capire perché un segmento di donne decide di acquistare vestiti in lino, o perché un altro gruppo abbandona l’e-commerce dopo poco tempo.
Ad esempio, può considerare l’influenza di fattori esterni come la stagionalità: quanto peso ha avuto il fatto che l’analisi si sia concentrata su un mese estivo di saldi? Oppure, può indagare se personaggi famosi abbiano contribuito all’aumento delle vendite, magari indossando capi in lino di quella stessa azienda, influenzando così le scelte dei consumatori. Allo stesso modo, può aiutare a scoprire se chi ha cancellato il proprio account lo ha fatto dopo aver letto in un forum o su un social media di controversie etiche, come l’uso di lavoratori maltrattati nella produzione.
Non esiste un metodo intrinsecamente migliore dell’altro; ciò che conta è l’obiettivo della ricerca, il contesto specifico e i parametri da analizzare. Ogni situazione richiede un’adeguata riflessione su come, se e quanto integrare i due approcci, in modo da ottenere una comprensione completa e profonda del fenomeno. Tale equilibrio tra dati quantitativi ed etnografia permette di cogliere sia le tendenze numeriche che le sfumature qualitative, offrendo una visione più ampia e dettagliata del contesto studiato.
È un approccio semplicemente aneddotico!
I risultati di un’etnografia digitale non possono essere facilmente tradotti in equazioni, grafici o tabelle come avviene per i dati quantitativi. Al contrario, il prodotto finale è spesso un racconto, un reportage narrativo che descrive in dettaglio i comportamenti osservati e le dinamiche sociali studiate. Tuttavia, è fondamentale non confondere questo con una serie di storie isolate, messe insieme solo per intrattenere o ammaliare il lettore. L’etnografia digitale è un metodo rigoroso, che si basa su una lunga e approfondita osservazione, che può durare anche mesi, per garantire che le conclusioni non siano basate su casi sporadici o isolati, ma su modelli ricorrenti e comportamenti costanti nel tempo.
Una buona etnografia digitale mette in evidenza questi schemi ripetuti, analizzando la frequenza con cui si manifestano nel contesto virtuale. Gli etnografi digitali, in qualità di osservatori attenti, si dedicano a cogliere le sfumature e i dettagli che potrebbero sfuggire a un’analisi più superficiale. Questi dettagli vengono poi contestualizzati all’interno di un quadro più ampio, seguendo un metodo induttivo che parte dall’osservazione di fenomeni particolari per arrivare a teorie e conclusioni generali.
L’approccio induttivo è cruciale per la credibilità dell’etnografia: ogni racconto è supportato da un’analisi meticolosa e ripetuta, e non da intuizioni isolate. Proprio per questo, nonostante la narrazione sia centrale, l’etnografia non è un semplice “storytelling” senza fondamento. Comunicare attraverso storie è una pratica che accompagna l’essere umano fin dall’antichità, ed è uno dei modi più potenti per trasmettere conoscenza e comprensione. Ad esempio, sia il Principio di Archimede che un romanzo come Guerra e Pace possono essere raccontati attraverso una storia o tramite uno schema; ciò che conta è il rigore con cui viene condotta la narrazione e la validità delle informazioni trasmesse.
Il lavoro dell’etnografo digitale, dunque, ha una forte componente divulgativa: non si limita a raccogliere dati, ma mira a creare conoscenza condivisibile, narrando l’essenza delle interazioni umane nel contesto digitale. Siamo, in un certo senso, i narratori dell’umano nel digitale, utilizzando la nostra capacità di osservare e interpretare il comportamento online per far luce su ciò che accade nel complesso e mutevole mondo delle comunità virtuali.
C’è troppa soggettività!
Sì, un essere umano può studiare altri esseri umani, e questa è la specificità che conferisce all’etnografia, anche digitale, un valore aggiunto rispetto a tecniche come il data mining. L’etnografia digitale si basa su uno sguardo soggettivo, quello dell’osservatore umano, che è capace di interpretare e dare senso ai fenomeni osservati. Questo sguardo, pur essendo soggettivo, cerca di mantenere un approccio obiettivo e privo di giudizi morali, focalizzandosi sulla comprensione profonda delle dinamiche sociali e culturali all’interno del contesto digitale.
Nel libro Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia, gli
autori James Clifford ed E. George Marcus ci confortano a riguardo:
“Fin dai tempi di Malinowski, il “metodo” dell’osservazione partecipante ha posto in
atto un difficile equilibrio tra soggettività e oggettività. Le esperienze personali
dell’etnografo, specialmente nelle loro dimensioni partecipative ed emotive, sono
considerate essenziali per la pratica della ricerca, ma vengono severamente frenate
dai criteri impersonali dell’osservazione e della presa di distanza “oggettiva”.“
Rispetto agli etnografi tradizionali, che dovevano avvicinarsi fisicamente alle comunità che studiavano, gli etnografi digitali godono di un vantaggio significativo: la loro capacità di passare inosservati online. In un contesto virtuale, come un forum, una community aperta o un gruppo pubblico sui social, la presenza dell’etnografo è spesso silenziosa e invisibile, il che riduce al minimo la possibilità che l’osservazione stessa influenzi i comportamenti del campione studiato. L’anonimato garantisce un’osservazione più neutra e distaccata dal punto di vista emotivo, permettendo all’etnografo di raccogliere dati in modo meno intrusivo rispetto alle pratiche sul campo della ricerca tradizionale.
Si scrive solo della nostra esperienza personale!
L’immersione totale nell’ambiente digitale che caratterizza l’etnografia non implica affatto che il nostro compito consista nel redigere un’autobiografia. Certamente, all’interno di un reportage etnografico troviamo elementi della nostra esperienza personale, ma questi sono funzionali a facilitare la comprensione dell’oggetto di studio. La nostra prospettiva soggettiva serve come una sorta di ponte, permettendo di avvicinarsi al mondo delle persone che stiamo osservando.
L’etnografia digitale richiede un impegno a raccontare la vita e le esperienze di un insieme di individui che interagiscono in Rete, descrivendo il loro punto di vista sul mondo che abitano. Significa immergersi nei linguaggi, nei comportamenti e nelle relazioni che caratterizzano queste comunità online. È un processo che va oltre il semplice reportage; implica un’analisi approfondita delle dinamiche sociali e culturali che plasmano le interazioni digitali.
La scrittura netnografica, dunque, diventa un atto di interpretazione. Non si tratta solo di registrare ciò che si osserva, ma di tradurre quelle osservazioni in narrazioni che riflettono la complessità delle esperienze umane. È fondamentale dare voce alle persone coinvolte, permettendo loro di esprimere le proprie percezioni e sentimenti riguardo al loro ambiente. Il tutto richiede una sensibilità particolare e una capacità di ascolto attento, in modo da rappresentare accuratamente il loro mondo e le loro storie.