La narrativa del panorama artistico ha sempre avuto un personaggio principale ricorrente: uomo, bianco e parte di una élite culturale – un po’ come in quello digitale, come ci ricorda Baricco in The Game. A sovvertire tale prassi, sono a lavoro grandi istituzioni che riprogettano spazi artistici, giovani ragazze che smantellano i luoghi comuni più radicati e realtà private impegnate ad annullare le discriminazioni di genere. Da Stati Uniti, Regno Unito e Australia, tre buone pratiche che cercano di dare una risposta per una partecipazione più inclusiva, autentica e democratica alla vita artistica.
Ripensare gli spazi artistici
La richiesta di una maggiore inclusività nel mondo dell’arte è in continua crescita, ma il cambiamento culturale che occorre affrontare collettivamente è difficile e in salita. Non si tratta solo di riconoscere il giusto valore alle produzioni di gruppi sottorappresentati, ma di riprogettare gli spazi esistenti per mettere in luce la diversità in tutte le forme d’arte. È il percorso che sta intraprendendo il Museum of Modern Art (MoMA) di New York, che a giugno ha chiuso fino a questo ottobre.
Il museo sta sacrificando le entrate del turismo estivo in favore di un importante progetto di ristrutturazione e ampliamento che verrà dedicato alle collezioni capaci di sottolineare l’importanza del diversificare la storia dell’arte moderna e contemporanea. Dunque, più opere di donne, latini, asiatici, afro-americani e altri gruppi appartenenti a minoranze. Allo stesso tempo, il MoMA si metterà a lavoro con lo Studio Museum di Harlem per presentare mostre con artisti di colore, come il pittore di origine keniana Michael Armitage. Un’iniziativa che avrà un impatto non scontato, in una città dove ben l’80% degli artisti che espongono i propri lavori è bianco, e dove ci sono più laureati a Yale (19%) che autori di colore tra chi è rappresentato da una galleria.
Anche in altre città degli Stati Uniti si sta lavorando nella direzione dell’inclusione proprio a partire dagli spazi espositivi. Nel Maryland, ad esempio, il Baltimore Museum of Art, ha messo all’asta opere famose di uomini bianchi per far spazio invece a quelle di donne e persone di colore.
Dare spazio alla Generazione Z
Il mondo dell’arte statunitense non è l’unico a essere dominato da artisti uomini bianchi. Anche nel Regno Unito la questione di una maggiore apertura si fa sempre più urgente; basti pensare che dei 2300 lavori che fanno parte della collezione della National Gallery di Londra, solo 24 sono opere di donne. A sentire vicina la causa sul territorio britannico, sono i più giovani. La piattaforma The White Pube è una delle risposte più irriverenti al problema di pregiudizio di razza, classe e genere nel panorama artistico della nazione con il motto #decolonisethemuseum. Gabrielle de la Puente e Zarina Muhammad sono le due fondatrici del progetto, entrambe fiere appartenenti alla Generazione Z, acclamate dal magazine Dazed come le “critiche d’arte più fresche e divertenti del mondo”.
La coppia sta smantellando il mondo dell’arte condividendo opinioni divertenti, critiche e trasparenti via Twitter e Instagram, sfidando le norme istituzionali per riportare l’arte alle masse, eliminare vecchie gerarchie e strutture di potere, e abbondonare il linguaggio eccessivamente accademico. The White Pube si sta accreditando come una voce più accessibile e inclusiva in un’industria storicamente chiusa ed elitaria, sempre più orientata a fare profitto a discapito di un vero lavoro di ricerca.
In un momento storico che vede un calo drastico dei visitatori nei musei del Regno Unito, coinvolgere potenziali nuovi spettatori nella conversazione artistica si sta rivelando un approccio valido per colmare il divario. La generazione Z non è parte passiva in questo processo, anzi. Un’indagine internazionale condotta da Irregular Labs fa luce su una generazione più istruita, politicamente impegnata, meno incline a rispettare i dogmi relativi al genere e alla sessualità, e dotata di una forte etica dove la ricerca di autenticità è messa al primo posto.
Intanto, il successo che hanno ottenuto recenti mostre londinesi su comunità più emarginate fanno ben sperare per il futuro. La mostra campione d’incassi della Tate Modern del 2017 è stata Soul of a Nation: Art in the Age of Black Power, con oltre 60 artisti che si sono ispirati al movimento per i diritti civili americani, tra cui la cantautrice Solange Knowles.
Coinvolgere tutte le forme di arte
Ad essere più democratici e inclusivi non sono solo gli accessi alla pittura, alla scultura e alla fotografia, ma a tutte le forme di espressione artistica. Un caso interessante arriva dall’Australia: Alpha è la prima agenzia che rappresenta dj donne nel settore della musica dance ed elettronica del Paese, un settore tipicamente dominato dagli uomini. La fondatrice Kailei Ginman ha sperimentato in prima persona la discriminazione di genere che ha pervaso l’industria della musica da discoteca per anni, e così oggi la sua scuderia vanta talenti australiani tutti al femminile, come le dj Stara, Rosie Kate e Ayebatonye. L’agenzia Alpha è in buona compagnia, con programmi come Women In Electronic Music Showcase e Girls to the Front che promuovono l’inserimento delle donne nel panorama musica.
A proposito di donne e musica, va fatta menzione del progetto in corso She Shreds, rivista femminista focalizzata su giovani donne che vogliono cambiare il luogo comune dove la cultura della chitarra (e del basso) è dominio degli uomini. Anzi, to shred, ridurre a brandelli, vogliono stracciarla. Sfida la cultura machista, ma anche il razzismo, schierando storie ben diverse dal solito cliché. Non solo: She Shreds è seguita con grande interesse anche dai marchi musicali, una mossa che potrebbe rivelarsi redditizia. È una tensione culturale interessante. L’azienda Fender sta incrementando le relazioni con le musiciste; la rivista Guitar Player ha pubblicato la chitarrista afro-americana Sister Rosetta Tharpe sulla copertina della sua edizione del 50° anniversario, che includeva una lista di 50 migliori chitarriste.
Infine, anche le produzioni più popolari possono essere coinvolte in questa lotta agli stereotipi, sgretolando dal basso i luoghi comuni. Lo scorso autunno è stato presentato sulla piattaforma di streaming Netflix il remake di She-Ra, serie animata del 1985: all’epoca rappresentava l’eroina protagonista bionda, formosa e ammiccante, oggi il suo look è più androgino e il corpo più coperto. Il merito è di una giovane fumettista e sceneggiatrice, Noelle Stevenson, che si è presa la responsabilità di una riprogettazione che libera She-Ra dallo sguardo maschile e dagli stereotipi di genere, e la fa portavoce di messaggi più equi.
Per 8 giovani su 10 che fanno parte della Generazione Z, “il genere non definisce una persona“. Perché dovrebbe definire chi fa parte del panorama artistico?