Scuro Chiaro

Il filosofo Noël Carroll sostiene nel saggio Passionate Views: Film, Cognition, and Emotion che la nostra esperienza cinematografica è caratterizzata in modo preponderante da un elemento: l’emozione. La nostra visione di un film farebbe dunque scendere in campo le nostre emozioni in maniera assai vivida e peculiare.

Il paradosso della finzione

Grazie ad una sorta di stato di grazia in cui ci catapulta un film, beneficiamo di una sospensione dell’incredulità che ci permette di essere mossi ad emozione per un personaggio, indipendentemente dal credere alla sua esistenza, in quanto portatore di determinate caratteristiche: piangiamo con lo sfortunato, ridiamo con il personaggio buffo e naïf, ci spaventiamo per il vampiro.

Questa è la soluzione, consistente nella cosiddetta thought theory, che Carroll trova al cosiddetto paradosso della finzione, quello che Carola Barbero nel suo libro Chi ha paura di Mr. Hyde? Oggetti fittizi, emozioni reali esemplifica così (dove Anna K. sta per il personaggio di Tolstoj Anna Karenina):

  1. “X è triste per la tragica fine di Anna K. e X sa perfettamente che Anna K. è un’entità fittizia;
  2. credere nell’esistenza di ciò che ci rende tristi è una condizione necessaria per avere le emozioni corrispondenti;
  3. X non crede nell’esistenza delle entità fittizie.”

– tratto da Chi ha paura di Mr. Hyde? Oggetti fittizi, emozioni reali, p. 20

Carroll, nel suo saggio The Philosophy of Horror: Or, Paradoxes of the Heart riesce in realtà, con la teoria citata prima, a dar conto non solo del paradosso della finzione, ma anche del paradosso della tragedia, che è quello ancora più problematico che si chiede perché mai dovremmo andare al cinema e pagare il biglietto per provare emozioni negative, come quelle suscitate da horror o film tragici: orrore, disgusto, paura.

Una sospensione dell’incredulità sempre più difficile

Proviamo a confrontare questa premessa con la nostra modalità di fruizione cinematografica ai tempi di internet, dei forum, dei trailer e dei blog.

Un tempo si andava al cinema e l’esperienza che ne derivava poteva essere definita come “pura“, poiché poco filtrata da notizie precedenti: si arrivava al cinema conoscendo forse i nomi degli attori e poco altro. Il buio in sala favoriva la sospensione dell’incredulità e il contagio emozionale tra gli spettatori, un altro dei concetti di cui parla Carroll, mentre oggi ci ritroviamo spesso con la luce accesa tra una prima e una seconda parte del film, incitati a soddisfare la nostra natura consumistica.

Esplicitando la nostra domanda, com’è cambiata oggi, con l’avvento di internet, la nostra fruizione cinematografica? Riusciamo ancora a mettere il mondo tra parentesi per lo spazio di un film? Proviamo ad esaminare insieme i nostri comportamenti digitali prima e dopo la fruizione di un film che abbiamo scelto di vedere al cinema.

Prima: cercare di capire, per non perdere tempo
(anche se ci guadagneremmo forse altro)

Per la natura della nostra fruizione cinematografica odierna siamo messi di fronte ad un potenziale, enorme problema: quello delle aspettative. Prima della visione ci facciamo a volte prendere da una mania del controllo per cui vogliamo andare a colpo sicuro: cerchiamo così online conferme del fatto che il film possa essere di nostro gradimento, per evitare di perdere soldi e tempo (ma non ci guadagneremmo forse in stupore e nuove scoperte?) e per metterci al riparo dalla delusione. Ci dedichiamo così ad una visione reiterata del trailer e, imbarazzandoci da soli, procediamo a zigzag negli articoli, con un occhio aperto e uno chiuso per cercare di evitare gli spoiler.

In tutto questo, l’industria cinematografica non ci aiuta, attuando sempre più spesso battage pubblicitari che stuzzicano la nostra curiosità, con tecniche di marketing mutuate da altri ambiti. È ormai sdoganato e sempre più diffuso il viral marketing, come nel caso, a partire dal lontano 1999, di The Blair Witch Project, quando era stata messa in circolo online la voce del ritrovamento di un filmato di tre ragazzi scomparsi in un bosco del Maryland, alimentata dalla creazione di un sito.

E come dimenticare il guerrilla marketing ante litteram di Orson Welles, nella versione radiofonica de La guerra dei mondi, prima ancora della sua versione cinematografica, che seminò il panico tra gli americani convinti di essere stati attaccati dagli alieni?

Il problema è che, da indizi parziali e letture magari falsate, potremmo crearci delle aspettative che rischiano di focalizzare il nostro sguardo e cambiare la nostra visione, pesando poi sul nostro giudizio finale. E qui arriviamo al “dopo”.

Dopo: in cerca di conferme, senza il tempo
di formarsi un giudizio equilibrato

Se il cinema è emozione, è giusto che la si faccia decantare, per poter formulare un nostro giudizio ponderato. Ma oggi, tra un selfie davanti alla locandina del film e un tweet appena usciti dalla sala, ci è ancora possibile darci il tempo di farci un’idea critica che sia solo nostra?

Dopo, si cercano spesso immediate conferme del proprio modo di valutare il film, con una platea online che spesso si divide tra “è un capolavoro” o “fa schifo”, con vie di mezzo spesso bandite e commenti sulla scia, appunto, dell’emozione, come rileva questo articolo sul recente fenomeno Joker, per cui si è gridato al capolavoro prescindendo dal fatto che la misura dello stesso la dia anche la sua sopravvivenza nel tempo. 

Spesso sono gli stessi film a strizzare l’occhio al fenomeno postmoderno di un citazionismo esasperato, come è successo con l’ultimo film di Tarantino C’era una volta…a Hollywood, che ha a sua volta diviso la rete. 

Chissà se, in ultima misura, la nostra sospensione dell’incredulità e lo stupore e la bellezza che proviamo al cinema, descritta bene dal film Hugo Cabret, non abbia fatto un po’ le spese della nostra nuova modalità di fruizione cinematografica.

Chiara Sinchetto (1987) lavora come libero professionista creando percorsi culturali tra letteratura e filosofia e occupandosi di editing. Scrive come blogger per diversi siti e da sempre ama studiare e approfondire per poi condividere le proprie incursioni solitarie nelle discipline umanistiche con gli altri attraverso la scrittura.

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