Se non vi è mai capitato, sappiate che fate parte di una minoranza da salvaguardare. Già, perché la maggior parte di noi italiani, in realtà, quando si trova all’estero mal sopporta i propri connazionali. Alcuni si nascondono dietro la scusa della vergogna per la loro maleducazione (se sono rumorosi, se fanno battute volgari o maschiliste, se saltano le file, se non riprendono i bambini più molesti e così via), ma non è quasi mai vero: non sopportiamo gli altri italiani anche quando sono educati.
Solo una parte delle persone è disposta ad ammettere che esiste un fastidio di fondo, al quale cerca di trovare giustificazioni più oneste. Frequentando i gruppi Facebook dedicati al viaggio, è possibile imbattersi in queste considerazioni:
C’è sicuramente una componente legata alla necessità di allontanamento non solo visivo dalla solita routine, ma anche sonoro. Sedervi in un ristorante a Shanghai e avere di fianco una famiglia brianzola, fa apprezzare meno la distanza: “anche io non vorrei incontrarli ma proprio per godermi la magia del posto in cui vado. Ma mi rendo conto che è quasi impossibili”.
Percepiamo che non siamo davvero lontani ma, soprattutto, che non siamo gli unici ad aver avuto l’idea di andare in Cina. Dunque, da un lato abbiamo l’esigenza di staccare la spina, dall’altra invece di sentirci speciali, unici. Che fa un po’ ridere, in realtà, perché alla fine la maggior parte di noi gira con le stesse guide di viaggio che segnanalo i medesimi locali.
Questo circolo vizioso porta le persone ad adottare comportamenti bizzarri, come ad esempio rimanere in silenzio accanto ad altri italiani (anche con tecniche specifiche: “Io cerco di mimetizzarmi stile camaleonte”) oppure utilizzare un’altra lingua (con approcci spesso discutibili: “io mi fingo portoghese in alcune occasioni”; “pure io!!! Parlo in inglese quando li incontro, per non far capire che sono italiana”).
La sociologa e urbanista Elizabeth Currid-Halkett, autrice di Una somma di piccole cose: La teoria della classe aspirazionale, metterebbe questo genere di comportamento sotto il grande ombrello dell’aspirazionalità. Esiste infatti una ricerca aspirazionale dell’esclusività anche nel viaggio. Molte persone sono soddisfatte quando raggiungono una meta dove non ci sono altri italiani, come se ciò fosse un indice della loro capacità di individuare posti fuori dai soliti circuiti e periodi turistici (“Per questo evito di viaggiare ad agosto e Natale così ho meno probabilità di incontrare italiani all’estero!”).
Soprattutto, vogliono sentirsi viaggiatori, non banali turisti provinciali.
Se in un locale in Cile vi offrissero la possibilità di sedervi o vicino a una coppia italiana o a una coppia francese, dove preferireste prendere posto? Il più lontano possibile dagli italiani. Se invece capita il contrario (o siamo costretti), stiamo in silenzio per passare inosservati e ascoltare le loro conversazioni, che giudichiamo senza pietà tra noi stessi. Ci fa sentire più furbi, ci mette in una posizione di vantaggio: sappiamo più cose dell’altro. Un atteggiamento che si riscontra solo all’estero; in Italia, a parità di condizioni, non ci faremmo nessun problema.
Dai gruppi emerge anche una sensazione di fastidio perché, tendenzialmente, alcuni italiani controtendenza cercano invece di fare gruppo. Ma ne siamo così sicuri? Se esiste il fastidio degli italiani per gli italiani, come si evince che alcuni di loro potrebbero volor far comunella? L’impressione è che sia, di nuovo, una scusa per cercare di dare una risposta a comportamenti che non controlliamo e sui quali spesso non ci fermiamo a riflettere abbastanza.
Reclamiamo il diritto all’anonimato.
E istruiamo così anche le nuove generazioni.
Comportamenti che fanno parte del DNA degli italiani, e che non vengono quasi mai riscontrati in altre nazioni, come ad esempio per inglesi, australiani e americani. Non abbiamo un vero orgoglio italiano – se non quando qualche straniero parla male dell’Italia, allora in quel caso qualcosa si smuove in noi – e questo porta a non sentirci un tutt’uno con i connazionali. Non siamo orgogliosi degli italiani, e in qualche misura, sotto sotto, nemmeno di noi stessi.
Abbandonare la propria lingua e non riconoscere il nostro simile più prossimo (cosa c’è di più prossimo di un connazionale?), significa disconoscere anche una parte di noi stessi.
È irrazionale, se vi fermate a pensarci. Che cosa cambierebbe se rivolgessimo un cenno di saluto in italiano alla coppia seduta accanto a noi a Buenos Aires esattamente come – secondo le normali regole di educazione – lo faremmo a Milano? Non cambierebbe niente. Eppure, ci sentiamo inibiti. Come se ci portassero via un pezzetto della nostra privacy. Una volta non era così; tutto è cambiato quando il viaggio ha iniziato ad avere un pubblico molto, molto più ampio di un tempo. Non accettiamo di non essere gli unici, o tra i pochi che possono permettersi di andare all’estero.
Un ultimo – paradossale – dato da registrare: più siamo vicino all’Italia, più ci dà fastidio. Se incontriamo italiani a Parigi, sbuffiamo; se li incontriamo a Hobart, sbuffiamo un po’ meno.
Infine, c’è anche chi odia gli italiani che odiano.
La prossima volta che vi ritroverete all’estero, e avrete la tentazione di parlare in un’altra lingua o mimetizzarvi… considerate i rischi. E provate, per una volta, a essere voi stessi, senza fare i rettili mimetici o indossare la maschera del viaggiatore scafato.
Nessuno di noi è Chatwin.
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Riflessioni personali a margine di questa breve etnografia umana e digitale: se nostri connazionali vogliono fare i turisti con la macchina fotografica al collo, mangiare in pizzeria una bella margherita, e farsi i selfie sotto la Statua della Libertà, chi siamo noi per giudicarli? O per disconoscerli? Ognuno è libero di viversi il viaggio – inteso come spostamento da casa – come meglio crede.
Proviamo noi per primi a essere quegli italiani educati che vorremmo vedere negli altri. Salutiamo la coppia accanto a noi. Come se fossimo nella pizzeria sotto casa.
Questo gesto non ci rende più o meno Mark Twain.