Scuro Chiaro

Che cosa hanno in comune ritratti, autoritratti e selfie? In che modo l’arte può raccontare le generazioni passate? Quali tracce etnografiche si possono trovare nei quadri? E perché, quando siamo in un museo, non resistiamo a scattare foto? Abbiamo cercato una super esperta di arte e di narrazione per rispondere a tutte queste domande.

Classe ’87, Valentina Manganaro si forma come storica dell’arte a Siena, specializzandosi in scultura secentesca, e si abilita come insegnante di Storia dell’arte. Nel 2016 si iscrive alla Scuola Holden, di cui oggi è docente, per trovare il modo giusto di comunicare efficacemente la sua materia d’elezione. Tale è la mission della sua pagina instagram @parlar_figurato.

Non solo: Valentina è autrice del progetto per adulti e ragazzi A regola d’arte in cui coniuga la sua passione per la narrazione con il mondo della produzione artistica. Insieme alle colleghe Domitilla Pirro e Giulia Muscatelli ha sviluppato il progetto No(r)ma anche no sulla narrazione di genere, per le classi superiori.

Infine, ha scritto per la rivista scientifica Prospettiva, per il Dizionario Biografico Treccani e per le case editrici Olschki e Edifir. E oggi scrive qui, mentre tutto quello che combina lo trovi qui.

Sedetevi comodi e godetevi questa lettura.

È così vero che gli autoritratti di un tempo sono i selfie di oggi? Ci sono gli stessi moventi dietro? Quanto ha a che fare con la necessità di rappresentarsi e di testimoniare la propria identità?

Non solo gli autoritratti, ma tutti i ritratti commissionati hanno qualcosa in comune con i selfie. Un tempo (neanche così tanto distante) pagare qualcuno per un ritratto (o una foto ritratto) era l’unico modo per ottenere una rappresentazione di sé.

Il digitale ha permesso a tutti di maneggiare uno strumento per l’auto rappresentazione, il che non ci fa tutti artisti, ma concede a tutti di poter scattare in tempo reale un’istantanea che testimoni la nostra presenza hic et nunc. Nella conferma del proprio sé qui e ora, trovo che ritratto, autoritratto e selfie coincidano.

In passato il ritratto era usato per far emergere o consolidare la propria posizione in ambito sociale; oggi lo si fa per affermarsi in ambito social. Il ritratto per sua natura non narra un episodio o una vicenda, ma richiede la raffigurazione di uno o più personaggi in pose più o meno statiche: proprio per questo le allegorie e i simbolismi proliferano.

Basti pensare alla genesi del ritratto che nell’Umanesimo nasceva imitando il profili dei Cesari della numismatica e richiamando così tutto il bagaglio simbolico che ne conseguiva. Le pose, le espressioni, i gesti, gli sguardi, anche gli oggetti tenuti in mano, o presenti nella stanza, fino alle vesti e alle loro tinte, ogni cosa era ostentazione di uno status, di un messaggio preciso che aveva ricadute in ambito morale, lavorativo, religioso e politico.

Se pensiamo ai selfie oggi ritroviamo regole e idiosincrasie molto simili seppur con valori aggiornati: un capo firmato, un determinato make-up, la duck face (che grazie a Dio sta progressivamente scomparendo). Oggi come un tempo, le forme di auto rappresentazione sono legate a doppio giro ai valori e ai canoni del periodo storico in cui il rappresentato vive.

L’arte, in tutte le sue forme, quanto può dirci di una società o di una generazione?

Oddio, tutto! L’arte, da che l’uomo è uomo senziente, è rifugio e crogiolo di emozioni, timori, pensieri, opinioni politiche e regole etiche, e di conseguenza rivela credenze, mode e abitudini. Quando noi osserviamo opere coeve di una particolare regione del mondo, abbiamo la possibilità di creare vere mappe seguendo il cambiamento di pensiero.

Dirò una grande eresia: la storia dell’arte è specchio della società esattamente come oggi lo sono le pubblicità (seppur il fine sia piuttosto diverso), che rivelano i gusti delle diverse classi sociali, i desideri, i mezzi. Se tra 400 anni qualcuno si chiedesse come fossero le case degli italiani del secondo decennio del 2000 basterebbe guardare una qualsiasi pubblicità della Barilla o della Nutella: nel tempo i vari brand cambiano modo di mostrarsi seguendo l’avanzare delle generazioni.

Così accade per la storia dell’arte: per una tipica casa senese della prima metà del Trecento basterà guardare a opere rappresentanti l’Ultima cena o la Natività della Vergine o l’Annunciazione in cui le ambientazioni sono sempre negli interni domestici. Nell’arte sacra la resa realistica era elemento cardine per il principio di immedesimazione, lo stesso che è usato nella pubblicità per capire e soddisfare il target.

Ci sono tracce etnografiche curiose che hai individuato in opere d’arte usi e costumi curiosi che hai colto in singole opere.

Mamma mia che bella domanda! Le curiosità di questo genere sono le cose che mi entusiasmano di più! Parlando di singole opere, la prima che mi viene in mente è la Natività della Vergine ormai attribuita con sicurezza a Sano di Pietro e conservata al Museo Corboli di Asciano. Come ho già accennato, la Natività è una delle migliori occasioni per apprezzare scorci di vita quotidiana.

In questo caso ci troviamo letteralmente catapultati in una casa della prima metà del Quattrocento senese. Il momento rappresenta uno dei più classici climax, la nascita di un neonato: occasione sociale in cui le donne erano principali protagoniste. Lo si evince dalla disposizione delle figure: gli uomini relegati, quasi compattati, in un spazio marginale, e il resto della tavola totalmente dedicato all’universo femminile.

La puerpera si sta sciacquando le mani e una fantesca sta per entrare nella stanza con un piatto di pollo e una ciotola di zuppa (il famoso “brodo di gallina”). In primo piano si prepara il bagnetto alla bimba davanti al camino: si riscalda in una brocca di metallo l’acqua che di lì a poco verrà versata nella bacinella, e si dispiegano i panni davanti al fuoco per poi avvolgere e asciugare la neonata. Quando lavorai per questo museo, venne in visita una studiosa di porcellane interessata proprio alla ciotola del brodo: in base al colore e alle decorazioni, sembrava riprodurre una porcellana di provenienza cinese, aprendo così nuovi scenari sui traffici con l’oriente.

Parlando sempre dell’universo dei bambini mi emoziona moltissimo l’opera di Giovan Francesco Caroto presso il Museo di Castelvecchio a Verona, in cui un bambino sorridente ci mostra orgoglioso il proprio disegno. Personalmente non conosco altre testimonianze in età moderna di disegno d’infanzia, e trovo l’opera strabiliante proprio per questa sua unicità.

Sugli usi e i costumi, poi, Peter Bruegel ci ha lasciato opere come Giochi dei bambini del Kunsthistorisches, compendiaria dei classici giochi fiamminghi praticati dai ragazzi, o come i Proverbi fiamminghi della Gemäldegalerie di Berlino con la rappresentazione di tutti i modi di dire in uso del Cinquecento (tra cui compare anche il nostro “sbattere la testa contro il muro”!).

E anche i ritratti possono illuminarci sulle origini di alcuni modi di dire. Per esempio negli abiti sia maschili sia femminili spesso, all’attaccatura delle maniche, possiamo notare dei fiocchetti: questo perché si era soliti slacciarli e sfilare le maniche per indossarne un nuovo paio da casa, per non consumare quello buono. Da qui il nostro “altro paio di maniche”.

In ultimo, mi permetto di proporre un esempio bizzarro di testimonianza etnografica, non riferito a una singola opera, ma alla nascita di una iconografia. San Cristoforo protettore dei pellegrini è sempre rappresentato nelle opere di tutti i secoli come un gigante. Questo perché, proprio in nome del suo protettorato, ai fedeli bastava vedere una sua immagine per porsi sotto la sua tutela. Così in molte facciate di chiese poste lungo le vie di pellegrinaggio il nostro santo veniva rappresentato in formato gigante per permettere a tutti di ammirare l’effige anche da lontano, senza dover essere costretti a deviare il percorso per entrare in chiesa. Mai le misure furono così importanti…

Il digitale ha cambiato il nostro rapporto con la produzione artistica?

Decisamente sì e vorrei affrontare la questione sotto tre distinti ambiti:
professionale, museale, social.

Ambito professionale

Quando ho insegnato al liceo artistico, arrivata alla lezione sulle tecniche edilizie romane, percepii come il mio pubblico di mini adulti considerasse lontano nel tempo quella serie di opus da studiare sul manuale. Così indissi un contest di “Selfie con l’opus” in giro per la città: a chi avesse raggiunto il numero di 7 scatti con le diverse tipologie, avrei concesso un bonus anti-interrogazione da spendere durante l’anno. Arrivati al giorno della premiazione tutti i ragazzi avevano partecipato e si allestì una ricca galleria di immagini, a testimonianza di come l’edilizia romana fosse ancora intorno a noi e addirittura “selfabile”.

Devo dire che l’uso del digitale ai fini della didattica è una pratica incoraggiata dal Miur per la nuova generazione di insegnanti, quindi in futuro prevedo profili Instagram di intere classi che provano metodi alternativi per lo studio delle opere d’arte.

Promuovo anche i meme in giro per il web (mi riferisco per esempio a Classical art memes, o Se i quadri potessero parlare). Opere, anche non così note, sono recuperate e reinterpretate in chiave ironica e contemporanea, con un gioco che Eco chiamerebbe di inferenza intertestuale. Se non prese fine a se stesse, possono essere un ottimo incentivo per attivare un genuino interesse verso la storia dell’arte.

Passando agli effetti negativi, recentemente ho subito quella che chiamerei “delusione da Photoshop”. Forse è un problema da addetto ai lavori, ma temo alla lunga possa avere ripercussioni sul più ampio pubblico. Parlo delle modifiche digitali di cui sono vittime molti dipinti. Un effetto “da carta di uovo di Pasqua” che impone colori brillanti, altissima saturazione, modulazione della luce: tutto per rendere le opere più accattivanti.

L’ho notato per la prima volta quest’estate quando ho visitato la Galleria dell’Accademia di Venezia: ho provato una profonda delusione davanti alle tele originali che avevo imparato ad apprezzare sottoforma di coloratissime e brillanti riproduzioni. In realtà i toni erano spenti, i colori diluiti. Premettendo che la Galleria dovrebbe migliorare l’illuminazione del proprio allestimento e che dovrebbe avviare interventi di restauro e pulitura (sempre nel completo rispetto della patina), resta il fatto che la modifica e la diffusione di immagini falsate rischia di compromettere l’apprezzamento delle opere in originale.

Ambito museale

Probabilmente negli ultimi tempi il punto più controverso e discusso, in cui il digitale incontra la narrazione di capolavori artistici, è quello dell’ambito museale. Una mia amica mi ha riportato la sua esperienza presso il Palazzo dei Papi di Avignone: durante le visite è possibile usare un comodo tablet da puntare sulle pareti per vedere in realtà aumentata l’antico aspetto delle sale. Nonostante l’intento sia nobile e didatticamente efficace, la non educazione all’uso corretto di questa tecnologia porta i visitatori a non osservare lo spazio in cui si trovano, ma a concentrarsi esclusivamente su ciò che filtra il tablet, provocando paradossalmente un allontanamento dalla realtà e un’immersione in un luogo altro.

Nel suo ultimo libro Francesco Bonami parla con evidente preoccupazione del progetto Metify me del Metropolitan Museum di New York. Pare che questo ibrido tra social network e Intelligenza artificiale permetterebbe al visitatore non solo di collegarsi all’account instagram del Met per condividere le opere di maggior impatto, ma, informando l’AI di dettagli sulla propria vita, l’app sarebbe in grado di elaborare un percorso didattico su misura del visitatore. Una prospettiva che l’autore del testo critica come disastrosa. Di questo progetto non ho trovato alcun accenno online. Tuttavia, se le cose stanno come ha riportato il Bonami, io farei tutt’altra previsione, trovando l’iniziativa un buon modo per contrastare l’erronea convinzione dello spettatore che i contenuti dei musei siano distanti anni luce dalla sua realtà.

Ambito social

Infine passando alla narrazione della storia dell’arte su canali social, in particolare su Instagram, noto come l’attenzione degli influencer e di molte riviste divulgative di arte sia rivolta per la maggior parte all’arte contemporanea. Trovo che sia lo spicchio di arte meglio raccontato, a oggi. La medesima cosa accade per il mondo dei libri da parte dei bookstagrammer: c’è una attenzione profonda per le nuove uscite editoriali, mentre sui grandi classici c’è ben poco da raccontare, ormai si è avuto molto tempo per esprimere la propria opinione, e qualsiasi cosa se ne possa dire oggi non sarebbe originale. Il classico è evocato in occasione di anniversari, citato en passant per una frase significativa e basta. Così è esattamente quando si parla di arte medievale, moderna e di prima età contemporanea.

Opere impressioniste, sculture neoclassiche, dipinti di tardo Trecento o di inizio Cinquecento sono solo citate, a volte anche sommariamente. Molti profili instagram di musei d’arte impostano la propria comunicazione su commemorazioni, giornate nazionali e promozioni di mostre, le quali forse sono l’unica occasione reale di buona narrazione. Per il resto, usano la propria collezione permanente come vetrina: illuminata, colorata, ma solo da vedere, non da osservare.

I musei archeologici non fanno così: innanzitutto perché gli archeologi sono più fighi e sono i primi ad aver imparato a confrontarsi con un pubblico che doveva fare uno sforzo immaginativo immenso per vedere un’intera anfora in un coccio; secondariamente perché hanno del materiale vivo sotto mano, che parla di quotidianità e che è facilmente collegabile (anche solo per contrasto) con l’oggi.

Quello che servirebbe ai musei d’arte medievale e moderna per sdoganarsi dal formato di galleria enciclopedica è rinvigorire l’ibridazione delle opere. Approfondire il contesto in cui nascono, indagare in modo anche ironico e leggero, mai superficiale, tutte le linee culturali che in esse si intersecano.

E infine, perché in un museo tutti hanno una gran fretta di fotografare le opere, anziché godersele? Qual è la tua opinione?

C’ho pensato a lungo in questi ultimi anni e ho trovato più di una motivazione. Categorizzerei sotto due cause: una intrinseca e l’altra estrinseca.

La prima riguarda il concetto di sorpresa fugace. Se da un lato le stories di 24h ci hanno abituati a condividere un contenuto consapevoli che dopo un giorno scomparirà, dall’altro si registra una frenesia nel fotografare ai fini di concretizzare, salvare e conservare. Se sono davanti a una pietanza strepitosa, bella prima di tutto, e forse anche buona, prima di addentarla la fotografo, un po’ per testimoniare che era di fronte a me, un po’ per condividerne lo stupore.

Al corso Scrivere la Meraviglia tenuto dalle Merende Selvagge, ho scoperto che, uno studio scientifico sulla sequenza della sorpresa, ha individuato, nella sua fase finale, il principio della condivisione, per superare lo shock della sorpresa e razionalizzarlo insieme ad altri. Quindi fotografiamo e condividiamo per concretizzare l’esperienza, salvarla e condividerne la sorpresa.

Ma qual è il motivo di tanto stupore? Nel senso, se fossimo studiosi appassionati della Monnalisa e le avessimo dedicato l’intera nostra carriera di studi, trovandoci davanti a lei per la prima volta sfiderei chiunque a non provare una fortissima emozione e a non voler immortalare il momento. Ma la maggior parte dei turisti che si accalca davanti al famoso dipinto probabilmente non sa di che epoca sia, e come sia finita al Louvre, forse sa che è di Leonardo, ma non conosce molt’altro.

A dare loro l’emozione di una sorpresa è quello che Walter Benjiamin chiama l’aura dell’opera, il Qui e ora, il suo essere testimonianza storica, la sua autenticità. La Gioconda, infatti, è icona consacrata dallo stesso mondo dei media che la alimentano, riproducendo ovunque la sua immagine. Davanti a una tale visione si prova la necessità di avere una propria riproduzione e quindi di possedere l’opera, di possedere il momento, e poter dire: “C’ero anch’io! Ero davanti a un pezzo di Storia!” click!

La seconda causa, quella estrinseca, riguarda il concetto di comunicazione. Siamo davvero in grado di goderci le opere? Per quanto sarebbe unanimemente riconosciuto come atto nobilissimo, temo sia un’attività legata a un modo di vivere il visivo che non ci possiamo più permettere. Viviamo nell’era del visibile, dove siamo talmente assuefatti alle immagini che non sappiamo semplicemente godercele: necessitiamo di un aggancio in più.

Immaginiamoci di essere dei bottegai del Seicento, dei lavoratori di cera: la più comune occasione che abbiamo per ammirare una tela dipinta, o una scultura, è all’interno delle chiese quando andiamo per lavoro o per la messa. Rare volte abbiamo potuto scrutare di nascosto le case dei nobili presso cui portiamo i nostri prodotti, e forse un paio di volte siamo riusciti a vedere qualche opera in lavorazione quando, rientrando a casa, abbiamo spiato nella bottega di un pittore. Se noi ceraioli secenteschi avessimo a disposizione un’intera galleria di ritratti di nobiluomini, magari anche famosi nella nostra città, non rimarremmo inchiodati a fissare le loro effigi? Non saremmo sbalorditi per come l’artista sia stato in grado di rappresentare il soggetto, il suo sguardo austero, le sue vesti nere, il colletto, la croce al collo e la spada? Sì. E se avessimo tempo ce li godremmo per bene.

Oggi le immagini sono tutt’altro che rare, anzi facciamo divenire immagine ciò che normalmente non lo era. Ce ne stiamo accorgendo: immortaliamo qualsiasi cosa. E allora, l’immagine, per quanto originale, per quanto su tela, o tavola o in marmo, per quanto antica possa essere, ha bisogno di un passaggio in più per essere apprezzata. Per questo i musei devono modificare la propria offerta didattica e la loro comunicazione. Non basta avere la fortuna di conservare opere di alto valore. Sarebbe come un film con un cast da Hollywood, ma senza che ci sia una storia che faccia interagire i personaggi. E va bene che un primo piano di Brad Pitt per qualcuno potrebbe bastare a reputare buono un film, ma la maggior parte del pubblico pretende anche una storia.

Cito sempre con molto piacere una lungimirante osservazione di Marco Vacchetti che si interrogava sul perché entrando in una biblioteca non si percepisca l’obbligo morale di leggere tutti i libri e le trame contenute, mentre quando si entra in un museo ci si sente quasi in dovere di vedere tutte le opere e le storie raccontate. Proporre percorsi accattivanti che coinvolgano un numero selezionato di opere, spiegate e collegate fra di loro sotto diverse chiavi di lettura, potrebbe essere una buona idea per far apprezzare pienamente il percorso e incentivare il ritorno nei musei. Ma soprattutto si creerebbe un contesto piacevole, spensierato. I musei nascevano così, come luoghi di incontro e di scambio di opinioni e mi auspico che un giorno tornino a esserlo.

Ho letto qualche giorno fa la notizia dell’app Muzing, pubblicizzata come “il Tinder per gli amanti dei musei”, perché ne usa la stessa modalità di selezione per scegliere la compagnia ideale con cui andare al museo. La trovo un’iniziativa spiritosa e molto intelligente. Chissà non faccia rinascere un genuino amore per l’arte.

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