Scuro Chiaro

La nostre ospite di oggi è Mafe De Baggis, superesperta di comunicazione, di progettazione di piani editoriali, di presenza e di relazione negli ambienti sociali online. E va detto che Mafe nasce per vocazione e studi, come comunicatrice, e non come informatica. Una precisazione doverosa per contestualizzare la sua specificità – in un mondo della comunicazione che, se guardiamo alla metà degli anni ’90, era del affidato proprio agli informatici. Ha lavorato in pubblicità prima di Internet e ha portato in Rete tutta la sua competenza, senza mai snaturarla. E oggi lavora “per liberare le energie delle aziende e delle persone mettendo ordine nel loro modo di comunicare, di raccontarsi, di entrare in relazione con gli altri”. Approfittiamo del suo aggiornato, integrato e illustrato #Luminol per farle qualche domanda!

Il tuo libro è illuminante, per tante ragioni. Sono rimaste altre zone d’ombra del nostro comportamento con i media digitali da far uscire allo scoperto? Se dovessi aggiungere un nuovo capitolo, quale sarebbe?

Prima di tutto, grazie: il mio obiettivo era fare luce dove non si vedeva o non si voleva guardare, mi fa piacere che si percepisca. Zone d’ombra ne rimangono tantissime, più nella nostra testa che nei comportamenti. Se potessi aggiungere un capitolo vorrei approfondire il rapporto tra la vita digitalizzata (non digitale) e il pensiero hacker. Per vivere bene in un mondo digitalizzato dobbiamo abituarci a smontare e rimontare oggetti, abitudini, metodi e anche pensieri. Il contrario del pensiero alfabetico, stampato e quindi non hackerabile, che però non va buttato via, va solo integrato.

Tutti noi lasciamo tantissime tracce in Rete, e lo fanno anche i genitori con i bambini più piccoli; qual è la tua posizione? Qual è la giusta misura?

Questa è una domanda impossibile, anche perché, non avendo figli, sono a rischio qualunque cosa dica. La mia posizione, come sempre, anche con gli adulti, è il rispetto delle scelte individuali (ne approfitto per dire che aver interiorizzato l’assenza di giudizio ha reso la mia vita molto più ricca e feconda). La giusta misura, per me, deve tener conto di due aspetti.

Il primo è il parere (futuro e presente) dei figli, che non scoprano a 14 anni di aver vissuto sotto gli occhi degli amici dei genitori. Dev’essere possibile cancellare (quasi) tutto, senza impazzire.

Il secondo aspetto è il rischio che queste foto vengano usate in modo improprio, rischio che esiste, ma che deve farci chiedere se vogliamo vivere schiavi dei pericoli o liberi.

Ecco, mi piacerebbe che le domande che nascono per capire come vivere negli ambienti digitali ci aiutino a riflettere sui nostri comportamenti nel mondo degli atomi, in particolare il confine tra rischio e paura. (ho già detto che era una risposta impossibile?)

Perché passiamo così tanto tempo in Rete? Che idea ti sei fatta?

Posso aggiungere un altro capitolo? È un po’ che mi interrogo sulla relazione tra introversione e scelta di frequentare i propri simili soprattutto in modo mediato (che siano libri, serie tv o social media). Mi stupisce quanto è difficile vedere che non diventi introverso perché usi i social, usi i social perché sei introverso. A me sembra così evidente!

E poi: quanto tempo è così tanto tempo? Io lo misuro, il tempo che passo in Rete, ed è molto meno di quanto pensassi, soprattutto dopo aver tolto le attività fisiche che faccio grazie al digitale (penso a Google Maps, Daily Yoga e Netflix). Io invito tutti a misurare il tempo passato in Rete, perché il rischio è di farsi delle paranoie (o alibi) sulla base di impressioni e aneddoti.

Se lo è, quanto è distante la nostra identità digitale da quella analogica?

Torniamo all’introversione: un introverso – quale sono io – fa molta fatica a comportarsi naturalmente con gli altri e quindi è raramente chi si sente di essere in situazioni sociali. Per molte persone come me la Rete permette di dire e fare quello che per impaccio, timidezza o imbranataggine non riesci altrove (anche nel male, per esempio libera molta violenza e aggressività, che però c’era da prima, altra cosa difficile da vedere o da ammettere).

La distanza, poi, dipende tantissimo dal tuo mezzo espressivo. Semplificando: se ti esprimi scrivendo (o anche disegnando o fotografando) la tua identità digitale rivela la vera identità analogica. Se ti esprimi parlando, penso alle Stories, o fotografando quello che fai, diventa necessario dare vita a un personaggio, non per forza falso, anzi, ma più curato di quanto sei nella quotidianità (puoi anche fare Stories in vestaglia, ma se hai quasi sempre una vestaglia, quello è un personaggio). Penso che travestirsi per raccontarsi sia una grande libertà, penso che la tirannia dell’essere se stessi abbia fatto più danni dell’esibizionismo.

Dei tuoi tanti studenti più giovani, ci sono comportamenti che, in bene o in male, ti sorprendono?

Ti ringrazio per questa domanda, perché è una delle cose che amo raccontare. In confronto agli adulti i ragazzi più giovani hanno una sapienza cognitiva e narrativa perfetta per la società digitalizzata. Io li definisco nativi semiotici: tutti si aspettano che siano degli smanettoni o che sappiano fare cose che noi alla loro età ignoravamo solo perché c’è uno strumento che permette di farle.

Ti faccio un esempio che faccio anche in #Luminol: molti miei colleghi si stupiscono del fatto che i ragazzi non sanno usare Google per fare le ricerche o non sanno curare una bibliografia o le citazioni. Io, come parecchi altri italiani, ho imparato a cercare e citare grazie a “Come si fa una tesi di laurea” di Umberto Eco, non a caso un long seller. Perché un ragazzo dovrebbe nascere imparato (come si dice a Taranto, la mia città natale)? Solo perché con Google trovare le cose è più facile? Il difficile di una ricerca sono le domande, non gli strumenti di ricerca!

Ogni volta che ho a che fare con loro, invece, scopro la facilità con cui gestiscono segni, significati e relazioni, con cui manipolano storie frammentate, quali sono quelle delle serie tv, delle grandi saghe, dei videogiochi e anche dei social media. Lavorando con loro all’uso di questa complessità narrativa per rendere interessante un brand o un prodotto sono deliziata dalla naturalezza con cui capiscono che cosa stiamo facendo e dal talento con cui lo fanno.

D’altra parte basta confrontare le serie tv degli anni ’80 con quelle di oggi: la complessità cognitiva, dalla trama ai retroscena al semplice numero dei personaggi, è aumentata in modo incredibile. Il Marvel Cinematic Universe intreccia e conclude la storia delle storie di decine di supereroi, con centinaia di citazioni e di riferimenti sparsi in più di 60 film e puntate nel corso di una decina d’anni.

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