Scuro Chiaro

Giuliano Gaia, docente di comunicazione digitale – IULM, Università Cattolica di Milano, Sole 24 Ore Business School, ha lavorato per WWF Italia per cui ha creato il primo sito web, per il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia con cui ha vinto numerosi premi internazionali e una citazione sul New York Times, per il San Francisco Museum of Modern Art e per la web agency NT2 – con cui ha collaborato a progetti digitali per grandi realtà editoriali.

Dal 2007 ha fondato con Stefania Boiano InvisibleStudio, studio di comunicazione culturale con sede a Milano e Londra, che lavora nell’organizzazione di eventi culturali e nella formazione per brand prestigiosi come Imperial War Museums London, Museo Egizio di Torino, Case Museo di Milano, Bayer, ING Direct, Sony, Pomellato, McAfee, Microsoft, WWF Italia, iRobot, Mondadori, FAI, Sole 24 Ore, Malta Tourism Authority e parecchi altri.

Stefania Boiano, autrice di numerose pubblicazioni accademiche sul tema del digitale nei beni culturali, è docente in diversi master universitari e collabora con la University of the Arts London. Comunicatrice culturale e visual designer dal ’97, tra i tanti incarichi Stefania è stata Senior Web Designer presso Nature Publishing Group – per il design di Nature.com, vincitore di un Webby Award. Come Project Manager ha lavorato per BloomDesign a Londra e per Travelonline, eDreams e La Cucina Italiana a Milano, prima di fondare lo studio con Giuliano.

Abbiamo fatto due chiacchiere di fine anno con loro, per saperne di più riguardo la loro attività, il nostro modo di vivere le esperienze museali, e le differenze culturali e generazionali. InvisibleStudio è una realtà che abbiamo amato molto, così profondamente radicata nella grande tradizione umanistica europea; e così vicina alla sensibilità del Rinascimento, quando l’arte e la scienza erano profondamente connesse in una visione olistica con l’essere umano al centro. Allo stesso tempo, come scoprirete, lo sguardo di InvisibleStudio è ben rivolto al futuro.

Buona lettura.

Che cosa significa creare esperienze culturali memorabili per la vostra realtà? Quali aspetti umani mettete in primo piano nel digitale?

Ognuno di noi ha in mente delle esperienze culturali memorabili, che hanno influenzato il corso della nostra vita. Può essere stato un libro affascinante, una lezione ispirante, una mostra indimenticabile. Cos’hanno in comune queste esperienze? Che si connettevano a qualcosa di profondo e personale, diverso per ognuno di noi. Per questo ciò che cerchiamo di fare è di creare una connessione tra l’anima delle persone che creano le esperienze culturali e l’anima di chi le deve fruire.

Ad esempio per il Museo Egizio di Torino e per l’Imperial War Museum di Londra abbiamo ideato percorsi di training che mettevano a contatto diretto lo staff museale con i visitatori, cosa che in genere non avviene perché lo staff per le esigenze quotidiane è chiuso in ufficio e non visita la galleria, per quanto paradossale ciò possa sembrare. Il nostro sogno sarebbe portare anche i grandi musei ad avere lo stesso approccio personale del Museo della Bora di Trieste, il cui fondatore Rino Lombardi dà personalmente la mano a tutti i visitatori.

Questo stesso approccio umanistico è stato alla base anche del nostro lavoro nel digitale.  Abbiamo iniziato molto presto, a metà degli anni Novanta, abbiamo vissuto quindi la fase pionieristica, in cui stavamo creando un mondo nuovo con regole ancora tutte da inventare. Allora era molto forte lo spirito “comunitario” tipico di chi si avventura in un luogo sconosciuto. Sarebbe bello riportare nella rete di oggi parte di quella creatività illimitata e di quello spirito positivo, che inevitabilmente tende un po’ a perdersi quando un fenomeno diventa globale e quotidiano.

In che modo sta cambiando il nostro modo di fruire di esposizioni e percorsi museali?

I musei sono al tempo stesso fuori dal tempo e dentro nel tempo. Sono fuori dal tempo perché cercano di essere capsule atemporali lanciate dal passato verso il futuro; d’altro canto sono inevitabilmente nel loro tempo perché fanno parte della società e ne subiscono i mutamenti. Ad esempio se parliamo di digitale vediamo molta retorica sul fatto che i musei si debbano digitalizzare; in verità ciò che è successo è che si è digitalizzato il loro pubblico, che oggi entra nelle gallerie con smartphone sempre più potenti, e i musei non possono fare altro che cercare di gestire queste trasformazioni indipendenti da loro.

Per quella che è la vostra esperienza, ci sono differenze generazionali nell’interazione con il digitale?

Sì, e piuttosto evidenti. La nostra generazione degli anni Settanta ha vissuto il passaggio dall’analogico al digitale, per cui il digitale è ancora un mondo nuovo, con ancora un residuo di magia e di mistero; i nativi digitali invece lo vivono in modo naturale, e ne hanno mutuato un approccio disincantato, rapido, a tratti nervoso; toccano, esplorano, abbandonano con una rapidità impressionante.

Noi siamo anche interessati a come gli over 70 affrontano il digitale; abbiamo fatto diverse ricerche in questo settore e abbiamo visto come gli oggetti digitali quotidiani non siano assolutamente ottimizzati per questa fetta di popolazione. Chiunque abbia provato a far installare un’app da zero a sua nonna sa di cosa stiamo parlando. C’è quindi molto lavoro da fare anche in questo senso.

Lavorate tra Italia e Regno Unito: quali sono le differenze culturali nel vostro campo?

Sono molte, ovviamente, pur avendo una comune matrice europea, anche se con Brexit una parte della società inglese sta cercando di dimenticarsene. In generale la cultura inglese è influenzata dalla scienza e dalla Rivoluzione Industriale; quindi ama la didattica, il pragmatismo, la costruzione di metodi e procedure, la scelta di obbiettivi misurabili e verificabili.

Noi italiani invece siamo più legati al passato, alla conservazione, amiamo più le eleganti costruzioni teoriche che le organizzazioni pratiche. Ovviamente sono grandi generalizzazioni, ma sono confermate anche da molti colleghi italiani che lavorando nei musei inglesi. Un aspetto molto positivo è la meritocrazia: pur con crescenti fatiche, il settore culturale inglese e specie londinese continua ad essere più aperto e dinamico del nostro anche per chi non è inglese di nascita.

Su quali progetti state lavorando per il 2020?

Stiamo lavorando sulla costruzione di esperienze didattiche sempre più approfondite. Abbiamo diversi progetti di  formazione al Design Thinking per i musei, una tematica di cui siamo stati pionieri in Italia; a Londra stiamo lavorando sulla didattica dell’arte con una serie di workshop realizzati in collaborazione con il National Trust. Un piccolo progetto che ci intriga è Scrivere al Museo, workshop di scrittura creativa al museo per stimolare l’utilizzo delle collezioni come fonte di ispirazione per racconti, un modo per schiudere l’intera gamma di possibilità espressive raccolte nei musei.

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