“Pubblicheremo ancora foto delle nostre vacanze, o i nostri pensieri del momento, se non potessimo avere la certezza che almeno una persona li abbia visti? Difficile da credere.”
Solitudini Connesse. Sprofondare nei social media (Editore AgenziaX) è un saggio denso di stimoli per riflettere su noi stessi e sui nostri comportamenti. Queste pagine indagano il modo in cui i social hanno modificato i più importanti riti di passaggio della vita adulta: nascere, morire, incontrarsi, lasciarsi, crescere, invecchiare non sono oggi più gli stessi dopo soli 15 anni dalla nascita di Facebook. Potevamo forse non fare due chiacchiere con l’autore?
Lui è Jacopo Franchi, ha 32 anni, lavora come social media manager freelance in ambito tecnologico e finanziario, ed è autore del blog di divulgazione Umanesimo Digitale – “dove la parola Umanesimo esprime sia la tensione verso uno sguardo d’insieme sul nuovo mondo digitale, distinguendo tra quelle che sono le promesse di un futuro desiderato e quello che effettivamente è lo sviluppo contingente e imperfetto delle tecnologie, sia la necessità di mantenere al centro delle spinte centrifughe, che allargano continuamente i confini dello spazio virtuale, l’uomo e il suo bisogno di realizzazione sociale, morale e culturale”.
Buona lettura.
Quali sono le prime scintille di riflessione che ti hanno portato poi a scrivere il tuo libro Solitudini connesse? C’è stato un evento, un libro, un comportamento scatenante?
La constatazione del fatto che a distanza di mesi dallo scandalo Cambridge Analytica non vi fosse stato alcun significativo “riflusso” dai social media mi ha portato a interrogarmi sui motivi di questa straordinaria resilienza da parte dei social nelle nostre società, pur a fronte di un mutato “sentiment” dell’opinione pubblica nei loro confronti.
Oggi tutti dichiarano di utilizzare sempre meno i social, di non pubblicare più contenuti, di accedervi solo per dare una rapida controllata agli ultimi eventi. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: che cosa ci tiene ancora legati a essi, al punto da ridurre la nostra presenza al minimo indispensabile ma senza comunque portarci a chiudere e cancellare definitivamente l’account? La risposta che mi sono dato è che i social hanno creato una nuova modalità di relazione tra esseri umani che non trova paragoni al di fuori di essi. Un esempio? Ad oggi, ci viene naturale “consultare” il profilo di una persona sconosciuta poco prima di incontrarla di persona. Si tratti di un possibile datore di lavoro, di un collaboratore, di una persona che ci ha invitato fuori a cena, non possiamo resistere alla tentazione di “dare un’occhiata” al suo profilo Facebook o LinkedIn (e a insospettirci se questo non è presente).
Difficile rinunciare a questa possibilità di raccogliere informazioni preziose sugli altri, a insaputa di questi ultimi, per motivi di sicurezza personale o semplicemente per ridurre l’ansia da primo incontro: soprattutto in un mondo dove vengono meno quei legami familiari e comunitari che un tempo favorivano il passaggio di queste stesse informazioni da un individuo all’altro in maniera istantanea. I social sono una risposta, seppur parziale, all’atomizzazione delle nostre società, iniziata ben prima di Facebook.
Quando entriamo in un vagone del treno, della metro o del tram e vediamo tutti quanti chini sul cellulare, a cosa stiamo assistendo? Siamo soli fisicamente, ma connessi a dialogare digitalmente: come la vedi?
Proviamo, per una volta, a rovesciare questa situazione comune nel suo opposto di cui siamo meno consapevoli: facciamo finta di entrare non visti in una qualunque casa abitata da una persona single, e osserviamola mentre passa un’ora del suo tempo a “scrollare” il suo feed di Instagram o di Facebook, passando senza soluzione di continuità da una notizia alla foto di un aperitivo pubblicata da un amico a un video in diretta di un evento che si svolge a centinaia di chilometri di distanza dalla sua abitazione. È lo stesso gesto, lo stesso bisogno: evadere per un momento da una realtà percepita come “fastidiosa” (la presenza di sconosciuti sul tram) o “statica” (la solitudine, magari non voluta) per provare la sensazione di muoverci altrove, di osservare il mondo da infinite prospettive diverse, quante sono le foto e i video condivisi dai nostri innumerevoli “amici” e pagine che seguiamo.
In fondo, i social non fanno altro che rispondere alla promessa fondamentale della tecnologia contemporanea: quella di “accelerare” la nostra esperienza, dando l’illusione di vivere molteplici esperienze attraverso lo sguardo degli altri (sguardo, ovviamente, che coincide con la fotocamera del loro smartphone). Esperienze, tuttavia, che non saranno mai completamente nostra: forse, una delle ragioni del malessere che i social media provocano ai più assidui utilizzatori non è tanto il sorgere di un sentimento di “invidia” verso gli altri, quanto la consapevolezza che ciò che vediamo attraverso il loro sguardo non ci appartiene veramente, non diventerà mai parte dei nostri ricordi e del nostro vissuto. Un’evasione: nient’altro.
Una terza domanda secca adesso: la Rete ci ha reso più pigri?
È indubbio che la presenza di algoritmi di profilazione abbia avuto come effetto quello di metterci nella condizione di non poter governare più di tanto il processo che porta un determinato post, una determinata news o informazione a “raggiungere” il nostro newsfeed. Tuttavia, non siamo arrivati al punto da attendere “pigramente” e arrendevolmente i contenuti che l’algoritmo ci propone: semmai, sprechiamo una notevole quantità di energie nel tentativo di governare il nostro personale newsfeed, bloccando determinate persone, silenziando determinate pagine, assegnando “mi piace” a quelle persone e quelle pagine che più di altre vogliamo vedere con maggior frequenza nel nostro flusso.
Più che pigri, siamo frenetici: è la frenesia di chi prova in ogni modo a farsi capire da una “macchina”, con le poche possibilità espressive concesse a sua disposizione. Il fatto di non riuscirci, o di riuscirvi solo in parte, e di essere vittime inevitabilmente di fenomeni come le “echo chamber”, non vuol dire che ci siamo arresi del tutto al modello di utente passivo, prevedibile e “quantificabile” in cui i social vorrebbero trasformarci.
Riguardo al futuro, e al digitale e all’uomo, sei più ottimista o pessimista? Supereremo bene il disincanto?
Nel corso degli anni ho assistito alla diffusione rapidissima di fenomeni estremamente negativi e all’altrettanto rapida crescita della consapevolezza da parte degli utenti. Ad esempio, penso che oggi molte persone siano maggiormente predisposte a valutare per tempo le conseguenze negative di un certo tipo di azioni apparentemente innocue: ad esempio, è più difficile, oggi, imbattersi in “meme” virali nati dalla condivisione di video o fotografie pubblicati in Rete contro l’esplicita volontà delle persone ritratte (penso, ad esempio, a un caso di revenge porn di dominio pubblico).
Oggi tutti siamo più o meno consapevoli che quello che per noi potrebbe essere un divertimento di pochi secondi per un’altra persona potrebbe trasformarsi nella rovina della propria reputazione professionale e personale. Sarà lo stesso, penso, anche per le “fake news”: dopo questo periodo di apparente impotenza collettiva, da un certo momento in avanti si diffonderà trasversalmente la capacità di dubitare di quelle notizie che sembrano screditare senza possibilità di appello una persona, un’impresa, un partito politico.
L’antidoto si può diffondere con la stessa rapidità della “malattia”, seppur con inevitabile ritardo rispetto a quest’ultima: tutto dipende dalla volontà e dalla pazienza degli utenti più “esperti” e consapevoli a fare opera di informazione e sensibilizzazione verso quelle categorie di persone che non hanno le capacità, la sensibilità o semplicemente il tempo per sviluppare una propria consapevolezza digitale. Almeno, fino a quando non si inizierà a investire nell’alfabetizzazione digitale di massa per tutti e tutte le età.
Infine, il tuo approccio all’Umanesimo Digitale è molto interessante. Ci sono letture e approfondimenti che ci consigli?
Non credo che si possa pienamente comprendere il successo di certi fenomeni digitali senza avere bene in mente quelli che sono stati i grandi sconvolgimenti della storia recente. Probabilmente, Facebook e Twitter sarebbero rimasti un fenomeno di nicchia se la più grande crisi economica dell’ultimo secolo non avesse costretto milioni di persone in tutto il mondo a cercare un’alternativa “gratuita” e “accessibile” al venir meno della propria capacità di sostenere economicamente una vita sociale al livello delle aspettative della propria “classe” sociale di riferimento.
Così come è difficile comprendere il successo di Amazon se non si conoscono le difficoltà del commercio al dettaglio degli ultimi vent’anni, costretto a confrontarsi con le maggiori risorse finanziarie e strategiche della GDO e con il venir meno del ricambio generazionale dei propri addetti, ben prima che un clic sul web ricreasse l’esperienza di “prossimità” e istantaneità del negozio di quartiere.
In linea generale, per il mio libro e per il mio lavoro trovo maggiore ispirazione nei saggi recenti di economia, sociologia, filosofia che non nei manuali o negli articoli che parlano unicamente di tecnologia. Gli algoritmi, in fondo, sono una nuova forma di narrazione: creano un mondo fantastico dove le persone cercano rifugio, evasione, protezione dalle paure e dalle incertezze del presente. Riconoscere le problematiche della società odierna, dentro e fuori il mondo digitale, aiuta a comprendere i motivi del successo dei social media e riconoscere i limiti, contraddizioni e imperfezioni delle “utopie” dei loro creatori.