Pluriamato per il suo lavoro da direttore creativo, pluriapplaudito come docente in giro per l’Italia, pluripremiato per le sue qualità di comunicare, pluriletto per la sua storica rivista Bill: Giuseppe Mazza oggi è qui con noi su Be Unsocial per parlare di prese di posizione, nuove e vecchie strategie, digitale e… weekend in Puglia per la Bill Summer School.
Da questa primavera, dopo aver festeggiato i dieci anni, la sua agenzia Tita ha deciso di lavorare su progetti di pubblico interesse, beni e servizi che migliorano la comunità, compresi quelli dei marchi privati che diffondono valori o danno aiuti concreti. Cambiare strada si può. Basta tornare a essere umani.
Dalla primavera con Tita di dedicate a progetti che migliorano la comunità. Un’agenzia che prende posizione, insomma. Quali principi umani e digitali muovono il vostro team?
Di sicuro, il piacere di essere chiari. Non volevamo sfumare il messaggio né limitarci a esprimere un auspicio. Perciò ci siamo detti: se ora vogliamo lavorare solo per marchi o istituzioni che, ciascuno a loro modo, contribuiscano al bene comune, diciamolo e basta. Siamo partiti in aprile, quando avevamo appena celebrato il nostro decimo anno.
Il giorno del lancio è stato emozionante: stavamo davvero entrando in un altro mare. Del resto le agenzie non fanno che proporre ai marchi dei posizionamenti, quindi è giusto dimostrare di crederci in prima persona. Poi c’è stata la gioia di guardare avanti. Siamo convinti che il futuro sia lì, che tutta la comunicazione sia destinata a diventare pubblica: sia chiaro, “pubblico” non nel senso di statale-ministeriale, naturalmente, ma in quello più esteso di responsabilità collettiva, di sostenibilità delle azioni, insomma pubblico perché oggi nessuno, neanche un prodotto, può più pensare solo a sé. E crediamo che questo sia anche l’avvenire del nostro mestiere: mettere i marchi in relazione virtuosa con il mondo intorno.
D’altra parte, guardando al nostro portfolio, era sempre più evidente una forte vocazione “comunitaria”, che negli anni ci aveva spinto a lavorare per i bambini, per la divulgazione della cultura, per le buone cause che ci convincevano… persino per gli alcolici abbiamo realizzato campagne di responsabilità, sempre cercando di evitare i toni “sociali” e predicatori, togliendo retorica per parlare un tono più leggero e umano al tempo stesso, con un’attenzione sempre maggiore, mi pare, alla linearità dell’espressione. Ovvero, alla chiarezza che ti dicevo dell’inizio.
Parliamo di brand. Rainbow, pink e green washing: qual è il confine tra valori reali e real marketing? Come dovrebbero iniziare a pensare le aziende?
Il guaio è quando i marchi non vedono in che modo il loro scenario mediatico sia cambiato. Non si tratta di un salto tecnologico, quelli in comunicazione ci sono sempre stati: basti pensare a cosa significò a suo tempo l’irruzione della tv in un mondo di poster. Piuttosto, con il digitale, in modo definitivo, si è chiuso un processo storico, iniziato con la stampa libera e proseguito con le radio private, al termine del quale i marchi e lo stato non sono più gli unici soggetti dotati di voce mediatica: ora ogni cittadino ha preso la parola. La conseguenza per i comunicatori è che tutto riparte da zero.
Prima, affacciarsi dal pulpito dei media era in sé un segno di potere e di prestigio, oggi un marchio è solo una voce tra le tante e deve guadagnarsi ex-novo il rispetto del pubblico. Esistere non basta più. Gli serve un perché. A noi sembra evidente quanto questa novità stia spingendo sempre di più i marchi verso la ricerca di un significato, di un’importanza collettiva, insomma verso il suo valore pubblico. Quando invece l’arrivo del digitale si traduce soltanto nell’aprire una pagina di facebook/instagram per essere anche lì, che dire? Si sta solo rimandando il momento della verità.
In fondo, tutti i washing che citi, sono anche la prima inevitabile presa d’atto di questo cambiamento: i marchi avvertono, per quanto in modo confuso e nelle difficoltà di ogni giorno, che il processo non tornerà indietro e comprensibilmente cercano di non perdere terreno. Sono i primi passi, a volte magari anche goffi, sì, ma alla fine è sempre meglio provarci invece di far finta che il mondo intorno non esista.
Se dovessi fare un numero speciale di Bill questa estate (magari!), quali progetti e riflessioni ci metteresti dentro?
Beh quest’estate ci sarà la Bill Summer School che non è la rivista ma gli si avvicina molto! Uno dei temi sarà un fatto recente: la retorica del pioniere, dell’individuo in lotta per sopravvivere in un contesto avverso, si è trasferita sulla scena politica ma, diciamo così, cambiando padrone. Il fatto è che è stata adottata non più dai deboli ma da chi governa, che oggi lamenta continue persecuzioni, accerchiamenti, solitudini, indicando nemici ogni volta diversi ma sempre descritti come incombenti: i media, gli intellettuali, le istituzioni, l’Europa.
È la stessa logica che animò la mitica campagna Avis firmata negli anni Sessanta da Paula Green – i numeri due della vita, veri eroi, lottano più di ogni altro per non soccombere ai monopolisti – solo che ora è diventata il format più utilizzato dal potere politico, da Trump fino a Salvini. È importante ragionarci su, non solo per capire la comunicazione di oggi, ma anche perché questo è un argomento tolto ai veri numeri due. E come fa uno sfidante ad affermarsi in comunicazione se i leader hanno già i suoi stessi argomenti? Quindi servono nuove strategie.
Questo però è solo uno dei temi di cui parleremo… anche perché in generale, il mio personale parere è che oggi un comunicatore, se non studia, rischia di durare cinque minuti. Aggiornarsi non basta più. Bisogna capire. Per questo nella Summer School parleremo di molte altre cose, comprese le più sorprendenti tendenze di comunicazione di questi anni.
Insomma, come vedi Bill c’è sempre.
Ma il digitale ci rende più intelligenti o più stupidi?
Di sicuro ci rende più ciarlieri! Piccolo esempio vissuto: una decina d’anni fa la mia agenzia vince una gara proponendo un cosiddetto viral, parola allora sulla bocca di tutti. Ci rivolgiamo all’allora unico centro media – londinese – specializzato nella pianificazione dei virali sul web, convinti di starci accodando a una folla di agenzie nostrane. E scopriamo di essere i primi italiani a chiamarli! Capisci, in quel periodo tutti a Milano parlavano di viral…
L’avvento del digitale è stato prepotente ma ha anche spaventato molti, generando anche un mercato di chiacchiere un po’ comico. Ma vedi, la verità è ancora semplice. Nel 2014 per Bill intervistammo Rei Inamoto, allora direttore creativo di AKQA negli Usa, in quel momento un punto di riferimento per la pubblicità digitale.
Con nostra sorpresa citò Bill Bernbach e disse un bel po’ di cose non proprio tecnologiche del tipo “essere capaci di parlare al cuore è ancora il nucleo di quello che facciamo” oppure “più che una tecnica, credo sia importante insegnare a pensare in un certo modo” e ancora “credo che l’elemento umano sia imprescindibile.”
Sai, credo che l’errore di fondo nel digitale sia cercare l’interruttore, la soluzione tecnica che fa tutto da sola. Perché intanto ci si dimentica che la comunicazione è un evento umano e che per far brillare l’emozione serve il talento. Mi spingo fino a dire: ogni volta che qualcuno relativizza la centralità del talento in comunicazione, bisogna chiedersi dov’è la fregatura.
Certo, intorno all’idea serve organizzazione, conoscenza, anche capitali. Ma senza il talento niente comincia. Gli aspetti tecnici, rispettabilissimi, vengono dopo. Con una battuta: non è che negli anni Ottanta i creatori di spot studiassero il funzionamento del tubo catodico o dei satelliti televisivi.
Ci sono trend di comunicazione che vedi all’orizzonte?
Beh ma questo è proprio il contenuto della Summer School. Anzi guarda, visto che ho parlato tanto, riequilibro la lunghezza dell’intervista dicendo: se volete conoscerle, passate dall’alto Salento i primi di agosto!