Avevamo iniziato a parlare qui su BUNS di scienza del selfie marketing tempo fa, fino a che siamo inciampati nel libro del giornalista Will Storr dedicato proprio alla rappresentazione di sé dall’Antica Grecia a oggi, con inaspettate connessioni tra storia, psicologia, economia e neuroscienze: Selfie. How the West became self-obsessed, edito da Picador – a oggi ancora non tradotto in Italia. Un libro quanto mai utile per capire il nostro presente e questa nuova forma di arte e di racconto che ha radici profonde – tra persone che falsificano le proprie vacanze su Instagram e cittadini che mirano a un selfie con un Ministro.
La nota iniziale al testo avverte il lettore che una parte rilevante del libro riguarda le differenze tra gruppi di persone: a volte vengono comparate le diverse generazioni, altre volte invece le diverse culture. Una premessa importante, per sottolineare come l’osservazione sia stata condotta per macro-categorie e per tendenze generali, senza alcuna altra pretesa. Di seguito, le dieci cose che abbiamo imparato studiando questo volume.
1. La correlazione tra alte aspettative e suicidi
Storr racconta, con dati e ricerche, che esiste un legame tra ciò che accade in chi sceglie di togliersi la vita e in chi è frustrato da altissime aspettative, dalla perfezione sociale. Accade negli uomini, ad esempio, che sono alla ricerca della mascolinità invincibile e hanno una spiccata ipersensibilità alle critiche.
Pensare di togliersi la vita significa per l’autore scappare da sé stessi, perché non riusciamo più ad avere abbastanza controllo sulla perfezione (o su quello che la società vorrebbe che fossimo. Anche chi pensa di non essere perfezionista e di non subire tossiche pressioni culturali, in realtà, ha dentro di sé un’idea molto precisa di ciò che dovrebbe essere secondo gli altri.
2. La reputazione individuale all’interno di un gruppo
In passato, l’uomi ha passato più del 90% del suo tempo sulla Terra in gruppi, per esempio per cacciare. È il nostro istinto: territorio, tribù, gerarchia. Storr ci mette in guardia su come però oggi tutto sia più fluido. Nella nostra azienda possiamo diventare capi del dipartimento in pochi anni, ma poi perdere il posto velocemente per intrighi e pettegolezzi.
Quando siamo in un gruppo abbiamo una reputazione da difendere. Stiamo tutti, seppure in misura diversa, delle specie di PR di noi stessi, ansioni e iperattivi, anche per colpa dei social media. Non vogliamo avere solo una buona reputazione per continuare a stare nel gruppo, ma anche per avanzare.
Per fare questo, spesso ci mettiamo in ascolto di ciò che accade per intercettare eventuale gossip che può tornarci utile, sfidando il senso morale (curioso: a volte, ci sentiamo anche in colpa, un sentimento che sperimendiamo prima dell’anno di vita). Quello che facciamo, inconsciamente, è controllare il livello di egocentrismo degli altri.
La maggior parte degli psicologi e dei neuroscienziati, riferisce l’autore, è concorde nel dire che il nostro io ha una storia che si racconta; la nostra coscienza ne è l’autore. Dunque, il nostro cervello è uno storyteller perché vuole essere in controllo di pensieri, emozioni e comportamenti.
3. Il rapporto tra i nostri geni e l’ambiente circostante
Anche il nostro peso è la nostra storia. Anche se stiamo bene con noi stessi e accettiamo i chili in più, scrive Storr, in realtà il nostro cervello registra una trasgressione morale. Già gli Antichi Greci credevano che avere un bel fisico equivalesse ad avere uno spirito buono. Essere brutti, di conseguenza, significava anche essere cattivi. Usavano una parola, kalokagathìa che riassumeva questa filosofia. E noi, volenti o nolenti, siamo tutti figli di quella cultura.
Da sempre si discute se sono più i geni oppure l’ambiente a influenzarci, ma secondo l’autore la maggioranza degli studi concordano sul fatto che il contesto abbia più influenza, per via del valori sociali che provengono da più direzioni (famiglia, amici, categorie sociali come il genere, etc). Facciamo nostre queste regole, le interiorizziamo come le istruzioni di un computer.
4. Il ruolo del narcisismo: ieri come oggi
Dopo 2500 anni da Ercole e Adone, sfogliare oggi una copia di Men’s Health restituisce lo stesso immaginario. Storr dice che anche il nostro rapporto con il desiderio di restare giovani ha le medesime profonde radici. È dalla civiltà greca che nasce il perfezionismo, una civiltà dedita alla venerazione e al compiacimento degli dei. Una civiltà con un forte spirito competitivo, e in qualche modo individualista.
Storr ci paragona a novelli eroi. Viviamo le nostre storie e ci sentiamo protagonisti; instauriamo naturalmente un approccio narrativo della nostra auto-rappresentazione della realtà, grazie anche alla nostra memoria autobiografica.
In altre culture, come quelle orientali, le cose sono un po’ diverse non perché “vedono il mondo in maniera diversa” ma perché “il loro mondo è diverso“. Non solo non si sentono in controllo delle loro vite, ma nemmeno lo cercano: la loro priorità è l’armonia, non la libertà.
5. Il principio imitativo di noi esseri umani
Il tipo di persona che diventiamo dipende da chi dobbiamo essere in un particolare ambiente. Imitiamo, sempre, e da sempre. In questo contesto, Storr parla di Paris Hilton Effect: tendiamo a prestare più attenzione a chi attira già l’attenzione degli altri (esempio nostrano: Chiara Ferragni e Fedez).
Copiamo coloro che più si avvicinano al modello di vita che vorremmo avere – anche e soprattutto inconsciamente. Questo ci illude di essere vicini alla nostra idea di felicità. Noi esseri umani, scrive Storr, dobbiamo sempre avere un fine, un obiettivo; non possiamo non essere una continua causa-effetto di una trasformazione. La ricerca della felicità stessa ci porta a vivere la nostra vita come una storia.
Tendere alla perfezione della vita significa essere in costante conflitto con sé stessi, con la propria anima, pensiero, coscienza. Ecco svelato il boom dell’industria del self-help, dei motivatori e dei life coach.
6. La necessaria ricerca della felicità
La ricerca della felicità è un concetto tutto occidentale; non a caso sulla Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America viene istituzionalizzo il cosiddetto diritto alla felicità, “the pursuit of happiness”. Nelle ere passate, il destino degli uomini dipendeva invece interamente dagli eventi fisici esterni, che ridefinivano chi eravamo e i nostri comportamenti. Adesso tutto si è invertito.
Oggi cerchiamo l’autenticità, e la cerchiamo dietro le buone maniere. Vogliamo essere veri e non sopportiamo chi è falso – avverte Storr – anche online. Ma è difficile capire cosa è davvero reale, perché non c’è un io solo, ma svariati io a seconda dell’ambiente.
Il professor Bruce Hood dell’Università di Bristol ha scritto The Self Illusion, teorizzando l’illusione che abbiamo nel pensare che ci sia un solo io. Un’illusione che prende forma quando abbiamo due anni, ovvero quando iniziamo a interagire per davvero con gli altri bambini, competendo con loro e formando gruppi e dunque gerarchie.
7. L’identificazione con il nostro lavoro
Un’altra riflessione interessante di Storr riguarda noi e cosa facciamo nel nostro quotidiano. Quando cresciamo e iniziamo a lavorare spesso diventiamo il nostro lavoro. Ci identifichiamo e ci sentiamo “il ruolo“. In Giappone, anche nelle occasioni informali, è facile che le persone si presentino come “il dipendente dell’azienda X”, e non solo con il nome proprio.
Più in generale, come abbiamo visto, abbiamo un io per ogni occasione, non solo per quelle analogiche e digitali, ma anche per ciascun social media ad esempio (per esempio su Facebook siamo più lamentosi e aggressivi, su Instagram delicati e poetici, e così via) – e per ciascuna delle attività sociali offline. Siamo costantemente influenzati dalle persone umane e digitali che ci circondano; ci cambiano e modificano il modo in cui ci comportiamo.
8. Il dolore sociale come malattia generazionale
L’adolescenza, si sa, è il periodo più difficile, perché è lo scarto tra le delusioni dell’infanzia e le delusioni del diventare adulti. È un periodo dove proviamo disagio sociale. Qualcosa di analogo accade anche oggi (amplificato poi anche dal digitale, ma questo lo aggiungiamo noi). Dice Storr che è solo negli ultimi anni che gli scienziati hanno iniziato a capire veramente che cosa sia il “social pain”, il dolore sociale.
Ci sono diversi tipi di dolore sociale (imbarazzo, esclusione, solitudine, etc) e tutti hanno una cosa in comune: il rifiuto, un vero e proprio assalto al sé. Proviamo la sensazione di rifiuto anche quando sono altri a subirlo, per via dell’empatia. Ma non lo proviamo per tutti gli altri, ma solo per chi sentiamo appartenere a un gruppo sociale simile oppure superiore al nostro. Il cuore del rifiuto, e dunque del dolore sociale, tocca il nostro io e il nostro individualismo. Ed ecco il paradosso: vogliamo sentirci individui, ma anche accolti dalla collettività.
9. Le nostre vite come in un gioco
Fin dalla sua nascita, il computer è stato uno strumento per pensare, un’estensione della mente. Il computer offre da sempre anche una visione profondamente individualista, ma anche umanista: il digitale ha aumentato le potenzialità che noi esseri umani abbiamo dentro di noi. E aumentare non è una parola a caso, perché sono aumentate anche le nostre conoscenze. A un certo punto, tutto è diventato a portata di mano; basti pensare al celebre Whole Earth Catalog di Stewart Brand, un bazar esotico di prodotti e filosofie. Steve Jobs nel 2005 disse che fu la Bibbia della sua generaizone, una sorta di Google su carta.
Ma il digitale ha raccolto anche tutte le bolle emergenti dell’umano: l’ossessione per l’autenticità, l’apertura e l’autostima, il narcisismo, il neoliberalismo. Tutto cuò ha trasformato il mondo come lo conosciamo oggi in un grande gioco (e Storr qui anticipa di qualche anno l’intuizione che poi ha avuto Baricco con il suo saggio The Game).
Si tratta di un gioco che più che essere “aperto”, è libero. Il fatto che la nostra vita con il digitale abbia subito una gamification è stato evidente soprattutto con l’avvento dei social media. Quest’ultimi, secondo Storr e noi concordiamo, hanno ridato potere all’io. Hanno dato a ciascuno la possibilità di fa sentire la propria voce: un carattere, una presenza, un marchio – in una incessante competizione tra follower, feedback e mi piace. Il rovescio della medaglia è tutto quello che vediamo oggi accadere soprattutto su Facebook: straripamento dell’ignoranza, forte risentimento e gogna mediatica.
10. La nascita della Selfie Generation
Nasce da questo terreno, la selfie-generation. In particolare, dal 2010, quando fa capolino il primo iPhone con la camera frontale. Nel 2014, sono stati scattati 93 billioni di selfie al giorno con un cellulare Android. Numeri davvero impressionanti di questa arena dove ognuno di noi deve essere sempre più divertente, originale, bello, con più amici, e con più vita sociale.
La ricerca di approvazione sui social media non è negativa di per sé. La professoressa Jesse Fox dell’Università dell’Ohio racconta che è più che altro pericoloso abituarsi al continuo flusso di approvazione perché quando smttte ci sentiamo male e a disagio con noi stessi. E a influire è anche il fatto che abbiamo lo smartphone sempre in tasca e a portata di mano; abbiamo sempre accesso a un mondo che è anche quello delle celebrità. Una volta inaccessibili, oggi attori e personaggi famosi sono sul nostro stesso feed. Noi e loro, insieme.
Un insidioso gioco del nostro io.