“Una volta ho detto: se vuoi liberare la società
tutto ciò di cui hai bisogno è Internet. Mi sbagliavo.”
Questa la frase d’esordio del TED Talk intitolato “Creiamo dei social media che portino al vero cambiamento” tenuto da Wael Ghonim, attivista egiziano e figura chiave dei movimenti rivoluzionari che sconvolsero l’Egitto nel 2011. All’origine della Primavera Araba infatti c’era una pagina Facebook, We are all Kalhed Said, fondata dallo stesso Ghonim. Alla luce di ciò, i social media potrebbero essere interpretati come l’ossigeno che alimenta il fuoco della rivolta attivista; ma è davvero così?
L’episodio raccontato da Ghonim è un chiaro esempio di clicktivism, un atteggiamento che l’Oxford English Dictionary definisce come “l’uso dei social media e altri metodi online al fine di promuovere cause”. Una definizione che abbraccia un significato ampio in quanto il termine racchiude in sé una molteplicità di attività online, che vanno dall’organizzazione di proteste, alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica, passando per la promozione di petizioni e progetti di crowdfunding. Il clicktivism si propone come supporto al cambiamento sociale ed è presentato come valido alleato dell’attivismo tradizionale, quello che riempie le piazze e dà loro un’identità.
Non manca però un’interpretazione critica di questo fenomeno, che spesso è associato allo slacktivism: un attivismo per pigri. Più nello specifico quest’espressione comprende tutte quelle forme di partecipazione a una causa, che sia sociale, politica, religiosa etc, le quali prevedano uno sforzo minimo da parte dell’attivista: un retweet politicamente impegnato, la scrittura di un post dal contenuto sociale significativo, o ancora il like ad una pagina di raccolta fondi. Tante sono le armi di cui dispone un cosiddetto “slacktivist” grazie ai social media e alle nuove tecnologie, ma l’efficacia delle sue gesta è quanto mai effimera e raramente abbandona la dimensione astratta del codice binario per tradursi in azione concreta.
Si pensi alle recenti polemiche che hanno travolto il Festival di Sanremo 2020, accusato, ancor prima di aprire i battenti, di mortificare la figura femminile. Lo sdegno sui social è stato dirompente, innumerevoli i post di disapprovazione e le minacce di boicottaggio, con tanto di hashtag dedicato #boycottSanremo. Il risultato? Una media del 54,94% di share. A partire da questo spunto nascono diverse domande: quale reale significato si cela dietro questo tipo di mobilitazione online? A realizzarsi è l’energia attivista e un obiettivo di rivoluzione sociale o l’illusione di una personale giustificazione morale? In fin dei conti nessuno verrà a sapere chi, nel proprio salotto, schiaccerà il tasto uno del suo telecomando, giusto?
Il concetto di slacktivism richiama ciò che il filosofo sloveno Slavoj Žižek ha battezzato “interpassività”, ovvero “l’attivarsi in modo fittizio attraverso l’altro”; è ciò che accade con le risate registrate nelle sit-com che ci fanno sentire coinvolti e di riflesso innescano in noi il riso. È un meccanismo che risponde a un’esigenza fondante della nostra contemporaneità: l’essere sempre attivi.
Ciò non implica che l’interesse dell’individuo sia tassativamente falso, ma questa percezione illusoria di partecipare attivamente a una causa si rivela inutile alla causa stessa e risponde invece al fine ultimo di soddisfare l’innato bisogno, tutto umano, di appartenere a qualcosa di più grande e di esserne parte attiva. Seguendo questa prospettiva critica il pericolo maggiore dell’attivismo da poltrona sta nella visione dei social network come vetrine, all’interno delle quali ci è concesso di mettere in mostra una porzione d’identità da noi scelta e curata nel dettaglio, così che le cause che sosteniamo, le petizioni che firmiamo, i contenuti rilevanti che postiamo siano adibiti a trofei decorativi dei nostri spazi social e di riflesso, della nostra persona; d’altronde chi mai vorrebbe essere visto come quello che se ne frega?
Tuttavia, questa lettura negativa dell’attivismo online non è la sola possibile: secondo molti il clicktivism e l’attivismo tradizionale sono tra loro strettamente intrecciati, e nel nostro tempo nessuno dei due potrebbe esistere se privato del supporto dell’altro.
Uno studio condotto da tre università americane ha sottolineato come nelle proteste nate sui social emerga una particolare dinamica di “divisione del lavoro” tra un centro e una periferia. Il centro è composto da un numero limitato di membri, che produce contenuti, veicola i messaggi e si mette in gioco in prima persona sul campo, al contrario la periferia è molto più numerosa, ma scarsamente impegnata, rappresenta la massa che condivide i contenuti e li rende virali aumentandone esponenzialmente la visibilità.
Il contributo dell’attivismo periferico diventa quindi determinante perché l’impegno concreto del centro sia riconosciuto e ottenga l’efficacia desiderata; questa diversa prospettiva dissipa un po’ la diffidenza nei confronti degli slacktivist.
Torniamo, in conclusione, sulle parole di Wael Ghonim con cui si è aperto l’articolo, e che da lui stesso vengono rettificate in questo modo: “se vogliamo liberare la società, dobbiamo prima liberare Internet”. Da cosa? Secondo Ghonim “dagli aspetti meno nobili del comportamento umano” e da un’esperienza dei social media che preveda la trasmissione passiva di informazioni e manchi di una predisposizione da parte dell’utente ad una lettura meno superficiale e al confronto costruttivo.
Dunque, la giusta chiave per un attivismo online che funzioni potrebbe essere proprio la nascita sugli spazi social di conversazioni e scambi più approfonditi, che spezzino le catene delle cosiddette echo chamber e ci coinvolgano promuovendo una consapevolezza reale, necessaria perché il mondo possa davvero cambiare anche, ma non solo, con un click.