Dal 1995 con Non è la Rai (“e la fine di un’era”) al 2005 con il boom di Real Time (“una televisione diversa per il solito pubblico”), passando per Solletico, Sarabanda, Ciao Darwin e Maria De Filippi, Hanno ucciso l’uomo gatto è un saggio brillante pubblicato da Edizioni Epoké e firmato da Adriano Pugno. In queste pagine l’autore disegna il penetrante ritratto di personaggi che sembravano eterni, e che nel giro di pochi anni si sono invece dissolti nel web.
Adriano vive a Torino dove ha frequentato il biennio della Scuola Holden ed è poi rimasto a lavorare come responsabile dell’area Talent Hub e assistente alla Didattica di Academy, il percorso universitario. Tra le tante cose è cofondatore della rivista culturale «Tropismi», di cui cura anche la comunicazione, ed alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su «Narrandom», «uonnabi» e «La Stampa». Ma soprattutto è un appassionato esperto di media e persone – perché “la rivoluzione tecnologica, dopo aver modificato la vita collettiva, i comportamenti sociali e la distinzione tra sfera pubblica e privata, ha agito anche indirettamente sulla televisione. Negli ultimi vent’anni siamo passati da Windows 98 alle nanotecnologie, dal Nokia 3310 e gli SMS agli smartphone e WhatsApp. Internet e televisione, i due rami principali delle telecomunicazioni, non sono mai stati così vicini.”
Come si legge in chiusura della prefazione di Martino Gozzi al libro: “Per fortuna, Pugno non perde mai il suo buonumore, il suo piglio ironico, e non arretra di fronte al trash. Compila un bestiario che sarebbe esilarante, se non fosse tragico. E dunque se, per una sera, volete spegnere tutti gli schermie tornare indietro nel tempo (e così facendo ritrovare noi stessi, noi italiani, un attimo prima che diventassimo ciò che siamo ora), questo è il libro che fa per voi.”
Adriano, il tuo libro racconta com’è cambiata e come sono cambiati quei ragazzi degli anni Novanta che nel bene e nel male sono cresciuti con la televisione. Cosa ha rappresentato questo media per quella generazione?
Esagero, già da questa prima domanda? Massì, perché no: la televisione ha rappresentato praticamente tutto. Siamo abituati a distinguere la forma e il contenuto, dimenticandoci della lezione di McLuhan, quella che riassumiamo in “il medium è il messaggio”. Ma anche volendo tenere questa distinzione, la televisione era la forma e il contenuto delle nostre giornate. La forma perché il linguaggio che parlavamo, i modi di dire, i tormentoni venivano tutti da lì, erano a portata di telecomando. Ma la televisione, al contrario del web, aveva un palinsesto ben preciso, una scaletta di appuntamenti, personaggi ed eventi decisa da altri. Insomma, per intenderci: se Italia 1 ci proponeva per l’ennesima volta le repliche di Dawson’s Creek, dovevamo guardarci quelle. Con buona pace di Netflix.
Generazione Y e Z a confronto: che cosa sta mancando alle generazioni più giovani rispetto ai Millennial?
Credo che la Generazione Y, tutto sommato, non se la passi molto bene. Siamo stati i primi a scoprire che le nostre condizioni di vita, lavorative e non solo, sarebbero state peggiori di quelle dei nostri genitori. È vero, ci siamo goduti la rivoluzione digitale passando dallo Screen Saver a forma di labirinto di Windows 98 a twittare di Bugo e Morgan in tempo reale, ma siamo comunque indietro rispetto ai nativi digitali della Generazione Z. E siamo nati in quegli anni ’90 che sono un decennio poco identificabile, strano: innanzitutto perché comincia nel 1989, con la caduta del muro, e finisce nel 2001 con le Twin Towers. Francis Fukuyama parlava di fine della storia: i fatti gli hanno dato torto, ma cosa ci hanno lasciato, di storico, gli anni ’90? Gli anni ’70 erano gli anni della contestazione, del movimento Hippy, mentre gli anni ’80 li ricordiamo per la discoteca, il disimpegno. Sapremmo benissimo come vestirci ad una serata anni ’70 o anni ’80, per gli anni ’90 cosa potremmo fare? Vestirci da Gabibbo?
Ecco, se c’è una cosa di cui sono grato alla mia generazione, è che ci prendevamo tutto il tempo di cui avevamo bisogno per goderci le cose, fare esperienze, seguire un evento. Avevamo un certo equilibrio tra l’eccessiva profondità del passato e la superficialità compulsiva di oggi. E poi avevamo il Game Boy Color con i primi Pokémon, gli 883 in formazione completa con Pezzali e Repetto, Schumacher e Valentino Rossi, l’Uomo Gatto, ovviamente. Tanta roba, no?
Da quando ha fatto capolino la Rete, che cosa abbiamo perso e che cosa abbiamo guadagnato in fatto di intrattenimento?
È cambiato il modo di fruire l’evento, in ogni sua fase: l’attesa, il durante e il dopo. Riusciamo a sviscerarlo sempre di più, con contenuti extra, commenti in tempo reale, possibilità di unire più piattaforme per una visione a 360°. Prendiamo il recente Festival di Sanremo: la fuga di Bugo dopo il dissing improvvisato da Morgan non sarebbe diventata così iconica senza i meme su Facebook, il live-twitting su Amadeus che cerca Bugo prima dentro l’Ariston e poi in tutta Sanremo, i contenuti inediti ufficiali e ufficiosi che dialogano l’uno con l’altro. L’altra faccia della medaglia è che tutto è diventato effimero: il gusto dell’appuntamento giornaliero con la nostra serie TV preferita sembra preistoria al tempo del binge watching, la nostra attenzione ha la durata di un trending topic. Sembra quasi che la nostra memoria storica, almeno a livello mediatico, si stia trasformando in un eterno presente.
Tirando le fila, la televisione verrà davvero preso archiviata?
No, non credo. La storia più bella del 2019 è stata quella di Mark Caltagirone, un esempio di storytelling perfetto, con buona pace di romanzi, film e serie TV. Ma è innegabile il periodo di appannamento che la televisione sta vivendo. Non è più al centro dell’impero, sorpassata da media che non riesce a capire e inglobare. L’ultimo festival di Sanremo è stato salvato da Fiorello, che è l’uomo della provvidenza da almeno venticinque anni, e il palinsesto è formato da programmi storici, revival e format acquistati dall’estero. Manca un rinnovamento di idee e di persone.
Credo che la speranza della televisione sia cambiare di segno. Un difetto storico del mondo televisivo è stato quello di non rappresentare e non saper rappresentare le minoranze, gli alternativi, ciò che è fuori dalla norma, o al massimo di renderlo una macchietta. Banalizzando: il mondo gay viene rappresentato da Signorini e Malgioglio, per non parlare di Platinette. Rimanendo su queste tematiche, seguo con molto interesse il processo di riappropriazione da parte del mondo queer di mezzi e contenuti ripensati in un’altra ottica, e trasformati completamente di segno. Un po’ l’ottica delle ragazze di Porta Venezia di Myss Keta, ormai completamente sdoganata sul tubo catodico. Ecco, sono fenomeni come questo che potrebbero dare nuova linfa alla televisione.
Infine, se dovessi indicare tre momenti di alta televisione a un ventenne di oggi che vive di YouTube, TikTok e Netflix, cosa suggeriresti di recuperare?
Innanzitutto una qualsiasi puntata di Mai dire Gol, un programma irresistibile fatto di proto-meme, rivisto oggi. La miniserie sui Promessi Sposi fatta dal Trio Solenghi/Lopez/Marchesini, esempio di comicità spiccatamente televisiva destinata a non invecchiare mai. E infine un programma ancora in onda, Blob: un flusso continuo di momenti di televisione accostati per diventare qualcos’altro, il montaggio come sguardo straniante sul mondo televisivo e al di fuori, la televisione nel suo punto più alto e più basso. Ci sarebbero anche tanti momenti di bassissima televisione da recuperare, ma sarà per la prossima volta!