Nel decennio in cui la fotografia sembrava destinata a diventare la forma espressiva più diffusa e accessibile grazie alla facilità di condivisione sui social, la Generazione Z ha scelto di tornare al passato rispolverando le macchine analogiche.
La fotografia digitale è diventata popolare per la sua semplicità, immediatezza e libertà di sperimentare e sbagliare: i cellulari hanno lenti sempre più precise e i social – Instagram su tutti – danno modo a chiunque di condividere i propri scatti, di modificarli e di ricevere mi piace. Al contrario invece, oggi si vede crescere una corrente che va in senso opposto perché la lentezza e la meccanicità che stanno dietro al processo analogico hanno conquistato molti dei ragazzi che si affacciano al mondo della fotografia.
Scomparsa e ritorno: il mercato dei rullini
L’evoluzione di Kodak, uno dei marchi più famosi per la produzione di pellicole, ricalca i passi della popolarità dell’analogico. In venticinque anni Kodak è passato dall’essere considerato tra i marchi con il più alto valore sul mercato – nel 1996 è al quinto posto tra i top brand mondiali –, a dichiarare bancarotta nel 2012 per poi vedere lievitare le richieste e dover raddoppiare, nel 2019, la produzione, reinserendo in catalogo prodotti che erano stati interrotti. Un episodio nella storia dei famosi rullini gialli è quello che fa da sfondo a un film in cui si racconta il viaggio di un padre fotografo e di un figlio verso l’ultimo laboratorio che nel 2010 poteva sviluppare le pellicole Kodachrome.
Al di là della narrazione del film, quell’anno realmente moltissimi fotografi, amatoriali e non, si recarono in pellegrinaggio verso uno sperduto negozio del Kansas che aveva aperto l’ultima latta di liquido per lo sviluppo di Kodachrome. Come racconta un articolo del New York Times, anche Steve McCurry portò personalmente a processare un rullino, l’ultimo della linea produttiva, che Kodak gli regalò prima di interromperne la fabbricazione, in onore della fedeltà del fotografo alla pellicola, con cui tra l’altro aveva scattato il ritratto della ragazza afghana che lo rese famoso.
Spazio e tempo: le coordinate fotografiche
Il fascino della fotografia analogica oggi ruota attorno al tempo e alla materialità. Innanzitutto perché la moda della foto stampata è risorta grazie alle istantanee: l’Impossible project per salvare la produzione delle pellicole Polaroid, la Fujifilm Instaxmini che nel 2018 tutti abbiamo sognato di ricevere in regalo e l’effetto Stranger Things che ha fatto tornare in auge l’estetica anni ‘70. La possibilità di avere tra le proprie mani la foto appena scattata, di regalarla o appenderla al muro, ha fatto sentire il bisogno di fisicità anche tra i più giovani, che le foto stampate le vedevano solo nei vecchi album di famiglia. Questo bisogno poi si è scontrato con la necessità di avere più libertà di scatto e così sono state rispolverate le vecchie macchinette analogiche nascoste in soffitta.
Il tempo, speso a scegliere a posteriori la foto digitale migliore, si è trasposto in quello per studiare l’inquadratura perfetta prima di scattare: non si può controllare subito se la luce è sufficiente o se il soggetto è venuto mosso, quindi, prima di premere il pulsante, ci si ferma a riflettere, si costruisce l’immagine nella propria testa e si controlla che tutti i parametri siano impostati correttamente. In questo processo viene data forma a qualcosa che era prima in potenza: lo scatto dell’otturatore permette di imprimere la luce nella pellicola, in modo istantaneo e irrevocabile. E in quel momento comincia il tempo di attesa. Si riavvolge il rullino, lo si porta al laboratorio e si aspetta che venga sviluppato, nell’ultimo passo che dà la forma concreta.
Seguire il processo dà vita a un’esperienza fisica, che diventa terapeutica e che ricongiunge l’autore con la propria forma espressiva. Se, riprendendo Kant, spazio e tempo sono le forme a priori della sensibilità, attraverso l’obiettivo si compie la sintesi che permette di rendere il fotografo cosciente del proprio esistere soggettivo e, stringendo tra le mani la realizzazione materiale di questa consapevolezza, l’appagamento si massimizza.
Colori, forme e luci: gli ingredienti
Nella fotografia analogica 2.0 la Generazione Z ha un’estetica particolare e si può rintracciare un filo conduttore nella scelta dei soggetti e delle inquadrature. Se con il digitale è importante la precisione, la nitidezza dei dettagli e l’esposizione perfetta, passando alla grana del rullino le caratteristiche di una bella foto diventano altre.
I colori risultano sempre come modificati da un filtro – che questa volta non è di Instagram – fatto di tinte tenui e pastello, si gioca con una palette di tonalità simili, aggiungendo un dettaglio di colore più brillante che cattura l’occhio: un cartello stradale rosso tra case giallo paglierino o una Cadillac blu parcheggiata davanti a una fabbrica ingrigita. Si prediligono i quartieri residenziali nella periferia delle grandi città americane, le spiagge vuote nei mesi invernali e i palazzi asettici di cemento dell’Est Europa.
Attraverso il frame della pellicola si crea un equilibrio tra gli elementi: un lampione diventa parte verticale di una cornice che si connette al soffitto dell’edificio vicino formando una precisa geometricità. Spesso si gioca con la luce, le ombre e i riflessi e anche gli oggetti di tutti i giorni prendono vita diventando soggetti che sembrano appartenere a una realtà immobile e senza tempo.
Si cerca così uno sguardo attento alla quotidianità, come se l’obiettivo spiasse dal balcone i vicini o vedesse attraverso il finestrino dell’autobus; e la spinta filosofica è sempre la necessità di rallentare il tempo per far riemergere dal caos quello che l’occhio dà per scontato. Si ritorna – forse inconsapevolmente – a seguire il manifesto della scuola italiana di paesaggio, che nel 1989 con Luigi Ghirri aveva dato vita al progetto Viaggio in Italia, per cui la foto rende estraneo ciò che di solito è familiare, produce una sensazione di straniamento che invita a fermarsi e a riconsiderare il proprio ambiente.
Photo walk e dintorni: l’analogico sul digitale
I nuovi fotografi sono giovani e, in linea con i mezzi del mondo attuale, seguono nuove strade per far conoscere il proprio lavoro. È il caso di Willem Verbeeck, ventenne che vive a New York, che nel 2017 carica il suo primo video su YouTube. Guardare i suoi video è come passeggiare assieme a lui alla ricerca di un soggetto da fotografare: li definisce Photo Walk, accompagnato da un sottofondo di musica lo-fi, racconta i corpi macchina e gli obiettivi che usa quando esce a scattare e al video girato in digitale si intervallano le scansioni delle sue foto.
Ma, come gli altri youtuber, Willem sviluppa anche altri format con video Q&A, interviste agli amici e colleghi che partecipano alla community dell’analogico o tutorial su come sviluppare le foto in casa. Su questo ha costruito la sua professione, pubblicando album fotografici, lavorando con brand e altri artisti e continuando il lavoro personale sui social media.
Anche in Italia sono cresciuti esempi simili, uno fra tutti Analog Mind, quattro ragazzi bolognesi che raccontano i loro scatti e i loro esperimenti a rullino. Si rifanno allo stile caratteristico di chi porta l’analogico sul digitale con photo walk e recensioni, e aprono uno sguardo sul panorama italiano: concretamente perché lo fotografano e concettualmente perché sono autori e spettatori dello scenario artistico. Portando avanti il loro progetto, un po’ per divertimento e soprattutto per passione, hanno contribuito a creare un punto d’incontro, dimostrando che c’è una nicchia di amanti del rullino che sta crescendo tra gli italiani.
Atmosfere e sensazioni: il messaggio attraverso l’obiettivo
Lentezza, riflessione, ritorno. Sono parole rassicuranti quelle che gravitano attorno al mondo dell’analogico, che si rispecchiano anche nella scelta delle immagini rappresentate: la frenesia e la rapidità del digitale vengono messe da parte per lasciare il tempo a una vita che scorre più placidamente, la cui massima velocità è quella di un bambino sulla sua bicicletta. Ma questo non significa rimpianto del passato, non c’è disprezzo del presente, piuttosto invece si tratta di mostrare che esiste un modo alternativo di osservare: non si cerca più ciò che cattura l’occhio che ha uno sguardo fugace, ma si dipinge quello che, attraverso gli occhi, innesca un’emozione ogni volta diversa nell’immaginazione del fotografo.
Un esempio perfetto di questa ricerca è il libro fotografico Home Before the Harvest di Roman Spataro. Non ancora ventenne trasferitosi a New York da Pittsburgh, l’autore racconta le sensazioni provate durante le estati passate nel quartiere residenziale dove è cresciuto, non attraverso una raccolta di scatti passati, ma ricercando nel presente i luoghi, la luce e i soggetti che ne replicano l’atmosfera come per riviverla in sogno. E così si costruisce lo sguardo artistico dei nuovi giovani fotografi: con il peso di una macchina fotografica più vecchia di loro e la leggerezza della luce impressa nella pellicola, tra realtà e onirico.