A che punto siamo in Italia? Media e brand stanno soddistando le aspettative del pubblico riguardo alle diversità? La verità è che, benché la rappresentazione delle minoranze etniche sia migliorata nell’ultimo mezzo secolo rispetto al passato, non si fa ancora abbastanza. Basti vedere quanto è stata effimera la copertura mediatica nel nostro Paese rispetto alle proteste intorno alla tensione del razzismo (ridotta ai soli fatti americani, e che non ha davvero ripreso il discorso dello ius soli, ad esempio). Con queste premesse, vale la pena dare un’occhiata a cosa accade intorno a noi, nel bene e nel male.
La verità è che anche in altri Paesi europei, che nell’immaginario percepiamo più aperti alle diversità, lottano con il “razzismo sottile”. Per fare un esempio, lo scorso febbraio nel Regno Unito la parlamentare Marsha de Cordova è stata confusa con altre parlamentari di sesso femminile nere da tre media in pochi giorni. Al contempo, l’autore e giornalista Gary Younge conosce fin troppo bene il problema, essendo stato scambiato per il regista Steve McQueen e il deputato David Lammy in passato. Lo scrive bene qui, aggiungendo che:
“non importa davvero quanto i non bianchi importanti, realizzati, integrati, qualificati o celebrati diventino un numero significativo. Saranno solo un’ennesima persona di colore: intercambiabile. Come minoranze, siamo ipervisibili; come singoli esseri umani, siamo relativamente insivisibili.”
L’abbiamo detto più volte in queste settimane: il Covid-19 ha messo a nudo disuguaglianze profonde. Una realtà crudele, ma la pandemia, insieme a questa ondata di attivismo globale per i diritti civili, potrebbe offrire l’opportunità di migliorare la rappresentazione della società sui media. Già prima della pandemia, studi e buoni propositi dei marchi ci raccontavano come le persone volessero sentire i brand più vicini e autentici: nessuno avrebbe potuto prevedere quanto questo sarebbe diventato importante nel corso dell’anno. Ogni settore sta affrontando un momento di resa dei conti, confrontandosi con le aspettative delle persone sull’inclusività.
Un primo problema urgente è da ricondurre alla mancanza di diversità nei ruoli decisionali, con posizioni più alte che continuano a essere inaccessibili. Questo tema, tra l’altro, non può prescindere dallo stato stagnante di mobilità sociale, anche se, tuttavia, ci sono stati alcuni piccoli passi nella giusta direzione. L’anno scorso la BBC ha dichiarato di avere la percentuale più alta di personale BAME (acronimo di Black, Asian and minority ethnic) nella sua storia al 15,2% e di aver notevolmente migliorato il reclutamento di persone con disabilità e individui LGBTQ. Restando nel Regno Unito, il Daily Mail ha lanciato invece una borsa di studio attraverso la quale i candidati BAME sono pagati per studiare alla News Associates o la City University prima di unirsi al giornale con un programma di tirocinio. Iniziative concrete, e con un impatto.
Una ricerca condotta dal The Guardian due anni fa ha scoperto che solo 20 delle 214 copertine di riviste pubblicate nell’anno precedente tra le più vendute del Regno Unito presentavano una persona di colore. E ancora: un’analisi di mille annunci televisivi nell’arco di due mesi nel 2018 ha rivelato che le persone della comunità LGBTQ erano presenti solo nel 3%. Ci sono anche notizie incoraggianti: sotto la guida del caporedattore Edward Enninful, British Vogue ha fatto passi da gigante in questo senso. Da quando è subentrato, sono finiti sotto la luce dei riflettori il modello e l’attivista Adwoa Aboah, le parole dello scrittore e attivista irlandese Sinead Burke, ad esempio. Channing Hargrove, redattore di notizie di moda di Refinery29, ha dichiarato che questo ha avuto un grande effetto a catena e pare stia dando il tono ai suoi colleghi.
Il cambiamento di ritmo tra i giganti dell’editoria può essere da pachiderma, certo. In Rete le cose, come sempre, si muovono con altre velocità. È il caso di Gal-dem, ad esempio, che mostra le questioni dell’attualità da altre prospettive, ben più ampie rispetto alla norma: una consapevolezza di cosa è considerato “altro” non indifferente, che è spesso la forza trainante di queste pubblicazioni. La fotografa Amanda De Cadenet, frustrata per la scarsa rappresentanza femminile nel suo settore, ha creato la Network Girlgaze per connettere i brand e talenti creativi womxn per collaborazioni. E nel notoriamente discriminatorio mondo dei giochi online, Jay-Ann Lopez ha fondato Black Girl Gamers, che mira ad amplificare la voce delle donne nere nel settore e offrire una comunità sicura in cui giocare.
E in Rete, come siamo messi? I social media sono diventati un potente strumento per livellare il campo di gioco, perché sono un habitat che danno completa libertà di parola e di interazione (con tutti i pro e i contro del caso, certo). Inoltre, grazie agli algoritmi e alla possibilità di seguire specifici hashtat, è più semplice seguire i filoni di interesse e aprire nuovi dialoghi, rispetto alle loro controparti dei media tradizionali.
In questo scenario, le aziende tecnologiche stanno cercando di intercettare e soddisfare le aspettative dei più giovani. Ad esempio, lo scorso gennaio, TikTok ha lanciato la sua campagna #AllTheDifference, attraverso la quale persone e marchi sono stati incoraggiati a caricare post che mostravano come gettare via le etichette e aiutare a rendere il mondo un posto più tollerante. O ancora: nel 2019 Apple ha lanciato un aggiornamento iOS che includeva emoji per rappresentare persone neutrali dal punto di vista del genere, una gamma di coppie e famiglie interrazziali e persone con disabilità, con piani per aggiungere icone più inclusive in futuro.
Se da un lato le sfide sui social media e l’introduzione di nuovi emoji possono aiutare ad ampliare la conversazione sull’inclusività, le piattaforme digitali presentano un rischio maggiore di alimentare l’odio e limitare l’accettazione, proprio perché offrono una tela bianca su cui le persone possono scrivere ciò che vogliono. Twitter, ad esempio, ha riconosciuto il potere delle relazioni online e ha lanciato account per mettere in primo piano alcuni gruppi sottorappresentati nella sua comunità, come @TwitterAble e @TwitterAlas. Con quest’ultimo ha seguito eventi a New York e San Francisco insieme alla non profit Techqueria per imparare dai leader latini (o meglio, latinx!) e fare rete con loro. Iniziative che sostengono utenti e dipendenti appartenenti alle minoranze, garantendo così conversazioni sulle diversità autentiche.
Più in generale, i brand dovrebbero prendere in considerazione le esigenze delle comunità meno centrali e portare avanti strategie di inclusività a lungo termine, mostrando di prendere davvero a cuore la sensibilità delle persone e andando oltre alla tensione culturale del momento. Purtroppo il semplice aumento della diversità visiva all’interno sui media e in Rete potrebbe non bastare e non migliorare di per sé l’esposizione alle problematiche pertinenti ai diversi gruppi.
Non sono solo i contenuti che devono essere riconfigurati dunque. I brand devono lavorare per cambiare la struttura organizzativa, e dare una diversità interna all’azienda, nonché spazio a una cultura inclusiva con gruppi di minoranza rappresentati in modo equo nel processo decisionale. Alcune aziende hanno cercato di educare attivamente i dipendenti sulle questioni relative alla diversità e all’inclusione, per esempio inviando letture raccomandate in risposta alle proteste di Black Lives Matter. EW Group ha lanciato un podcast intitolato reWorked, che guida gli ascoltatori attraverso argomenti come il pregiudizio inconscio e il reclutamento più inclusivo.
Serve, come spesso accade, un capovolgimento di prospettiva.
La diversità è la soluzione, non il problema.