Con l’avvento dei social media e delle piattaforme di microblogging, il web si è fatto più democratico e partecipativo. Si è riempito di contenuti generati dagli utenti: qualsiasi cosa sembra degna di essere postata. Non a caso Zuckerberg ci chiede: «a cosa stai pensando?», «che cosa stai facendo?», «come ti senti?», ogni volta che accediamo al nostro feed. Online siamo al contempo esibizionisti e voyeur: la linea tra privato e pubblico si assottiglia ed esponiamo i vari aspetti delle nostre vite. Il sesso non è rimasto escluso, ed è così che siamo tutti diventati potenziali pornoattori.
Il 37,5% degli italiani tra i 18 e i 40 anni ha fatto sexting, il 16,5% scattato foto o registrato video durante un rapporto. Amateur è la categoria più cercata nel 2019 su PornHub. Gli utenti vogliono guardare un sesso più aderente alla realtà, fatto da persone in cui si possano immedesimare. Tuttavia, questa ondata di user-generated porn non si riesce a liberare da alcune logiche che governavano il porno non amatoriale, e si scontra con le nostre barriere culturali rispetto alla nudità. Soprattutto per le donne, esibire il proprio corpo diviene tutto d’un tratto una colpa, e la linea tra pubblico e privato viene scavalcata senza il loro consenso.
La valuta dell’amore
La controversa serie HBO Euphoria, seguendo le storie di adolescenze segnate da traumi e dipendenze si fa manifesto di una nuova sessualità: una sessualità che sfrutta i molteplici strumenti di espressione digitale tra camshow, sexting e app di incontri. Nel corso della prima puntata alcuni ragazzi, sprovvisti di maglietta, si vantano dei propri muscoli e diffamano una compagna di scuola ritratta in un video esplicito finito online. Nel frattempo, la voce fuori campo della protagonista mette a fuoco il punto in cui il dibattito sulla circolazione delle nostre foto hot si è incagliato. Dice loro, e ci dice, di non denigrare la sua amica. «È il 2019: le nudes sono la valuta dell’amore.»
La denominazione revenge porn mostra numerosi limiti nel descrivere un fenomeno dalla casistica eterogenea. Si configura come una manifestazione d’odio, consistente nella diffusione di materiale esplicito senza il consenso delle persone ritratte. Non presuppone alcuna forma di vendetta, come potrebbe invece lasciar intendere il nome. Nonostante costituisca illecito in molti Paesi, compresa l’Italia, l’autore di reato si sente legittimato a umiliare pubblicamente la vittima, spalleggiato, come reso evidente dalla recente inchiesta di Wired su Telegram, da una toxic brotherhood. La tossicità di questa fratellanza viene amplificata dalla sensazione di anonimato data dalla piattaforma, ma soprattutto dalla misoginia del pensiero vigente, per cui la donna è asservita al piacere di un solo uomo e meritevole di essere data in pasto a una folla che la vedrà come bersaglio su cui esercitare continue vessazioni.
C’è invece chi pubblica volontariamente le proprie nudes e prova piacere nel vederle circolare. Complete di volto… E a cui viene talvolta allegato addirittura un documento d’identità. Si tratta dei self-exposed: amanti della sottomissione che desiderano essere umiliati a colpi di like, commenti e ricondivisioni. È un fetish che si risolve interamente sul digitale, sfidando le derive dell’esposizione mediatica a cui ci sottoponiamo: quella di essere messi alla gogna, di veder violata la nostra privacy tramite la divulgazione di dati sensibili e di essere denigrati per le nostre più intime inclinazioni. In molte foto, queste persone reggono in mano un foglio su cui esprimono per iscritto il consenso alla libera circolazione delle stesse.
La diffusione avviene su applicazioni di messaggistica istantanea, su piattaforme dedicate alla pornografia, e trova largo spazio anche su Twitter. I master o le mistress, che nella relazione di dominazione/sottomissione detengono il potere, ripostano il materiale esplicito dei loro “schiavi” digitali. Ne mettono in ridicolo le caratteristiche, come l’orientamento sessuale, la fisicità o le dimensioni del pene: bisogna notare che i self-exposed sono uomini, e chiedersi perché. Questi utenti hanno il lusso di poter giocare con la propria reputazione e provare il brivido di varcare il confine tra pubblico e privato, in maniera così trasgressiva, in quanto appartenenti al sesso maschile. Probabilmente consci del fatto che la perdita di controllo sull’esposizione del sé sia solo relativa (se fossero donne, andrebbero incontro a conseguenze ben peggiori) e che il materiale raggiunga solo chi è capace di stare al gioco.
Il racconto della sessualità
Sono numerose le piattaforme destinate in maniera esclusiva alla condivisione di materiale Not Safe For Work. Le più popolari fanno parte del Pornhub Network, una rete che collega le piattaforme di pornografia possedute dalla società MindGeek. Possono considerarsi dei social media? In un certo senso, sì: è possibile chiedere l’amicizia, seguire profili di interesse, commentare, caricare contenuti. Tuttavia, dal punto di vista qualitativo, sembra che questi siti siano solo agli inizi nel promuovere la formazione di una comunità: gli utenti non costruiscono una vera narrativa della propria sessualità, perché ancorati a una concezione voyeuristica del porno, destinato alla mera fruizione.
Questo invece non avveniva, ad esempio, su Tumblr: la piattaforma di microblogging che dal 17 dicembre 2018 ha bannato il materiale NSFW sancendo la propria rovina. Fino a quella data era stato messo in atto uno shadowban, era difficile imbattersi in questi contenuti a meno che non li si stesse cercando. La piattaforma costituiva un porto sicuro per le comunità feticiste e più in generale per chi sentiva l’urgenza di trascendere le dinamiche dell’immagine pornografica tradizionale; era un luogo di confronto in cui gli utenti potevano aggiungere complessità alla narrazione della propria esperienza sessuale. Le restrizioni hanno portato alla riduzione del 21,2% del numero utenti unici mensili e causato la loro migrazione su altre piattaforme, comunque non equivalenti. Il tutto, accompagnato dalla profonda delusione dell’affezionata user-base. Le comunicazioni di Tumblr, fino a quel momento, avvenivano tramite dei post che avrebbero potuto essere stati scritti da qualsiasi altro utente, con un tono leggero che rispecchiava il clima di rispetto, giocosità e rilassatezza all’interno della comunità.
Queste comunità possono fare molto per sensibilizzare e regolamentarsi in contrasto alla cultura dello stupro, secondo cui il no di una donna è meno credibile di quello di un uomo e secondo cui una porzione di colpevolezza è imputabile alle vittime di violenza sessuale. L’atto di immortalarsi in atteggiamenti espliciti non è il problema. È ormai una forma di auto-determinazione non così diversa dal fotografare ciò che si ha ordinato al ristorante.
Mantenere questa linea di pensiero non aiuta perciò a contrastare il revenge porn: la piena colpevolezza è di chi diffonde senza il consenso degli interessati, come stabilito dalla legge 612 ter del codice penale, che vede il reato perseguibile su querela da parte della vittima. Nel caso in cui il colpevole ripari il danno, anche in forma economica, il reato si considera estinto. Ma il danno si può davvero riparare? La reputazione di queste donne rimarrà infangata, le conseguenze psicologiche sulle loro personalità saranno irreversibili, e la diffusione del loro materiale può trasformarsi in una collettiva istigazione al suicidio. Le piattaforme hanno il dovere di eliminare il retaggio culturale che produce il danno, di creare spazi sicuri e di confidare nel potere sovversivo del porno 2.0: il potere di stravolgere le dinamiche tra fruitore e produttore, tra oppresso e oppressore. Di promuovere un ambiente sex-positive e di liberare la sessualità delle donne dal dover soddisfare lo sguardo maschile.