Scuro Chiaro

Quando abbiamo scoperto il talento e la sensibilità di Giacomo Doni nel salvare pezzi di memoria del nostro passato anche grazie al digitale, non abbiamo potuto non fermarci a saperne di più. Il lavoro di Giacomo è esplorare quelle aree che sono rimaste bloccate nel tempo, vuote e silenziose. Il linguaggio della fotografia (e della grafica) è qui usata come veicolo di tutela della memoria, per preservare la vita e la storia di questi luoghi dimenticati.

Dall’intenso lavoro di Giacomo abbiamo imparato molto cose. Ad esempio, che la salute mentale è un argomento che riguarda ognuno di noi. Che parlare di manicomio non vuol dire parlare solo di follia: vuol dire parlare di esclusione, classismo, sessismo – tutti problemi che possiamo trovare anche nei giorni nostri. E, soprattutto, che salvare e diffondere queste storie è responsabilità, perché sono in grado di farci interpretare il presente, raccontare il passato, migliorare il futuro.

Buona lettura.

Iniziamo dal tuo punto di svolta: quando hai capito che avresti dedicato il tuo lavoro di ricerca al tema della salute mentale?

Ricordo benissimo quel momento Alice perché ho vissuto una sensazione intensissima. Ho studiato fotografia durante gli anni delle scuole superiori, come materia nell’indirizzo di grafica dove mi sono diplomato nel 1999 e posso confermarti che, sia la fotografia che la grafica, mi sono state incredibilmente utili per la divulgazione della mia ricerca.

Negli anni successivi al diploma iniziai a lavorare in un piccola tipografia e, durante un giro sul web, mi sono imbattuto in un fotografo belga specializzato in posti abbandonati: Henk Van Rensbergen di www.abandonedplaces.com

Rimasi totalmente catturato dalle immagini di spazi vuoti, dalle storie di luoghi abbandonati e da questo singolare genere fotografico. Decisi quindi anch’io di andare alla ricerca di questi luoghi cominciando da quelli di più facile accesso ed individuazione: le fabbriche. Scatto dopo scatto però sentii di non essere molto coinvolto da quell’ambiente, la fabbrica, per me, risultava troppo fredda e non riuscito a trovare stimoli per raccontarla.

Decisi però di non mollare del tutto quel genere fotografico e come ultima possibilità, sempre grazie al web, scoprii l’esistenza di un manicomio a Volterra. Ricordo che organizzai una gita con un mio amico per fare un semplice sopralluogo e capire se ne valesse la pena oppure no. E fui letteralmente folgorato. Davanti a me uno spazio silenzioso intriso di emozioni, storie e dinamiche che per me erano totalmente sconosciute. Io sono nato nel 1980 ovvero 2 anni dopo la riforma del 1978, la legge 180, che ha sancito il superamento dei manicomi.

Non ebbi dubbi: raccontare questo mondo per scoprirlo e per andare oltre lo stereotipo del “luogo dei pazzi” di cui questi luoghi erano marchiati. E così, nel novembre del 2006, feci la mia prima richiesta formale di permessi per una ripresa fotografica nel manicomio di Lucca. E da quel giorno non mi sono più fermato.

P.S. negli anni a seguire ho scoperto che il manicomio aveva incrociato, in modo leggero,  anche la mia famiglia. Ne ho scritto qua.

Dal punto di vista emotivo, cosa significa fotografare manicomi?

Fotografare i manicomi per me è un viaggio, vuol dire muoversi dentro spazi che hanno generato paura e stigma, spazi di esclusione invisibili.

Entrando dentro con regolari permessi di accesso, richiedo sempre la possibilità di farmi accompagnare da una persona che ci abbia lavorato oppure che conosca molto bene la sua storia, questo per arricchire gli scatti con racconti autentici, bene estremamente prezioso.

Dentro il manicomio ci sono storie che non riguardano soltanto patologie mediche bensì contesti sociali: non stiamo parlando soltanto di una tipologia di ospedale ma di un criterio, di un modo di pensare che spingeva all’esclusione per disegnare l’utopia della società perfetta.

Ogni luogo, apparentemente identico a tutti gli altri, è un micromondo denso di dolore, sessismo e classismo. Ma anche di un’umanità unica che ti rimane incollata sulla pelle che non ho trovato da nessun’altra parte.

Fotografare i manicomi vuol dire muoversi dentro edifici che il tempo, l’incuria e il vandalismo stanno cancellando. Vuol dire raccontare e salvare storie di un’umanità in grado di mostrarci il presente in un modo diverso, avendo poi la responsabilità di condividerle con più persone possibili, prima che questo patrimonio culturale importantissimo possa scomparire per sempre.

Allargando lo sguardo, qual è il rapporto che si instaura tra memoria e fotografia, soprattutto oggi che siamo iperconnessi e in cloud?

Sono profondamente convinto che questo sia il periodo migliore per la valorizzazione storica e della memoria attraverso il digitale. Secondo una ricerca condotta da Mylio, nel 2019 sono state scattate una cosa come 1.436 miliardi e 300 milioni di fotografie. Ogni secondo sono state generate 45.500 fotografie. Un numero assolutamente impressionante.

Attraverso i social, ognuno di noi ha imparato a nutrirsi di fotografia e a condividerle con la propria rete di persone. Sono proprio questi gli elementi che mi hanno fatto capire di essere di fronte allo strumento perfetto per valorizzare la memoria: le immagini digitali sono altamente riproducibili, duplicabili e possono diffondersi fra le persone a una velocità molto alta, tutte caratteristiche di cui la memoria storica ha estremamente bisogno.

La mia sfida, e di chiunque si occupi di questo argomento, è quella di riuscire a trovare il miglior sistema di diffusione attraverso i canali moderni, attualizzare le storie e i racconti per renderli fruibili anche alle generazioni più giovani. Per me digitalizzare vuol dire rendere immortale un qualcosa. Una volta dematerializzata, questo qualcosa è in grado di duplicarsi e diffondersi attraverso la rete, creando innumerevoli copie che possono garantire la loro sopravvivenza nel tempo.

Hai lavorato anche su una digitalizzazione di sguardi: qual è la tua riflessione sul ruolo dell’identità degli occhi ai giorni nostri?

La digitalizzazione di ritratti di pazienti manicomiali, dove ho scelto di oscurare tutto il volto tranne gli occhi, è stato un esperimento fra i più emotivamente intensi che abbia mai realizzato.

La caratteristica che ho sempre amato della fotografia è quella di arricchire, attraverso tempo passato, quell’attimo che abbiamo deciso di fermare con molteplici significati, storie e informazioni; questa continua acquisizione di dettagli può addirittura far cambiare il senso stesso dello scatto che stiamo guardando.

La digitalizzazione degli sguardi può considerarsi un esempio di questo tipo. Le foto dei pazienti nascono con il semplice scopo di fare ritratti identificativi, se una parte di queste persone (gli occhi) li proiettiamo nell’oggi, a più di 40 anni dalla chiusura dei manicomi, ci restituiscono un messaggio diverso e più intenso: sono gli occhi di quelle persone stigmatizzate che un tempo vivevano dentro il manicomio e che non avremmo mai avuto occasione, e forse anche il coraggio, di incrociare. E che avremmo sicuramente visto con non poca difficoltà se i manicomi non fossero stati chiusi.

Sono convinto che gli occhi siano in grado di rappresentare un punto di contatto potentissimo fra gli esseri umani anche se le immagini che produciamo oggi, specialmente quelle per i social, sembrano fatte per non durare nel tempo, basti vedere il numero di stampe che vengono realizzate in base agli scatti.

Questo espone il rischio di creare una moltitudine di immagini che non hanno la possibilità di guadagnare ulteriori significati dal tempo perché, una volta fatte, è come se diventassero subito vecchie.

E infine, quali altri temi correlati al digitale riescono ad affascinarti?

Come ti ho anticipato nella prima domanda, io nasco come grafico pubblicitario e posso dirti che sono estremamente affascinato da tutto il mondo della comunicazione visiva.

Amo anche contaminare le varie discipline e quindi, nella mia ricerca, mi sono trovato a fare un largo uso di grafica oltre ad implementare UX ed elementi di digital marketing sul mio sito internet. Questo perché, le loro buone pratiche sono adatte per promuovere la tua attività e far compiere azioni al tuo pubblico. E se queste azioni non riguardano soltanto la vendita di un prodotto ma la diffusione e la sensibilizzazione di un tema così delicato e molto lontano dall’essere superato, direi che un ottimo compromesso.

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