Più volte abbiamo parlato di come l’antropologia sia sempre più importante per capire anche (e soprattutto) il nostro mondo digitale. Oggi ne abbiamo parlato con Caterina Chimenti: laureata nel 2001 in Antropologia Culturale, ha iniziato da subito a lavorare in Rete, prima come content editor per progetti editoriali multimediali, poi come web writer/editor per alcuni portali in italiano e inglese; e infine come consulente per la comunicazione. Caterina ha esplorato molti territori del digitale e oggi si concentra sopratutto sulla strategia digitale: una voce perfetta per capire più a fondo in che modo le scienze sociali possono portare un significativo valore aggiunto alle professioni dell’online. Buona lettura.
Partiamo dai tuoi studi: in che modo il tuo background da antropologa ti ha aiutato poi in un lavoro prettamente in Rete?
Grazie alla mia formazione da antropologa ho un approccio ai progetti che unisce analisi quantitativa e qualitativa, e questo è spesso stato utile soprattutto quando ho iniziato a occuparmi di strategie di comunicazione digitali.
Più in generale credo che lo studio dell’antropologia (o di altre scienze sociali) aiuti a guardare il mondo in modo non superficiale, a porsi domande sul significato culturale di ciò che vediamo (non importa se è uno scambio di saluti rituale o un tweet) e a non dare nulla per scontato.
Anche l’abitudine all’osservazione partecipante e all’ascolto sono due pratiche preziosissime per chi si muove in Rete perché permettono di individuare il tipo di messaggio e contenuto più adatto, nel rispetto di tutte le categorie – l’epic fail è sempre dietro l’angolo, ma spesso potrebbe essere evitato cercando di capire meglio come sta cambiando la sensibilità di chi comunica in Rete e sui social.
Qual è il processo di studio del pubblico che applichi prima di iniziare a stendere una strategia digitale?
Per prima cosa faccio una rapida ricerca su Google, per individuare i punti di riferimento del segmento che mi interessa: siti, blog, forum, portali. Questo mi aiuta a capire in che modo interagiscono in rete: se preferiscono commentare sui forum o se ci sono gruppi/pagine Facebook che fanno da aggregatori, se ci sono hashtag di riferimento.
La ricerca sui social è la parte più consistente per scoprire gli argomenti di conversazione, tipologia di contenuti e tutto ciò che può essere rilevante per creare la strategia digitale.
Quando ho raccolto abbastanza dati cerco di mettere ordine e individuare segmenti demografici precisi in base alle informazioni disponibili. Sono una grande fan dei fogli di calcolo sin dai tempi dell’università, e ho sempre un foglio per ogni progetto, da tenere costantemente sotto mano per riferimento.
Qual è il ruolo delle tribù (intese come community) digitali oggi?
Che domanda impegnativa! Da frequentatrice “anziana” della rete (ho cominciato nel ‘98) penso che le community siano cambiate molto negli ultimi anni, soprattutto dopo l’avvento dei social, canali profondamente diversi dai vecchi forum.
Quello che non è cambiato è la necessità di aggregazione attorno a temi o interessi comuni e le community digitali hanno ancora adesso questo ruolo. Credo però che il ruolo cambi per le generazioni più giovani, i “nativi digitali” per i quali forse il confine tra online e offline è più fluido. Generalizzando, mi sembra comunque che le community digitali oggi siano uno strumento per dimostrare la propria appartenenza a un gruppo ben preciso e per rafforzare o definire la propria identità digitale.
Entrando nello specifico del settore del travel, perché le persone vogliono sentirsi più viaggiatori che meri turisti, secondo te?
Credo che la maggior parte di noi – uomini e donne del Nord del mondo che vivono nel XXI secolo – preferisca sentirsi regista e protagonista delle proprie storie, che poi diventano story su Instagram o Facebook. Il viaggiatore è colui che decide dove andare e cosa visitare mentre il turista segue passivamente il flusso di altri turisti. Al contrario, il turismo nel nostro immaginario collettivo è per sua natura spersonalizzante, rimanda all’idea di folle guidate come greggi di pecore per visitare tutti gli stessi luoghi. Sicuramente per la sensibilità contemporanea essere un viaggiatore che vive esperienze sia più allettante rispetto all’essere un semplice turista che visita un certo numero di luoghi prestabiliti, soprattutto nell’era dell’overtourism. Se il turista è considerato un numero il viaggiatore si sente invece una persona speciale, il turista fa – o si mette in posa per – la foto “cartolina” mentre il viaggiatore si scatta il selfie o si riprende in una story. Poco importa se spesso lo sfondo è lo stesso per entrambi.
Sospetto che il problema di molte destinazioni turistiche sia proprio il fatto di voler attrarre turisti, mentre molti “turisti” preferirebbero in realtà essere considerati viaggiatori. Sospetto anche che tutto questo non riguardi i turisti di altre parti del mondo, che invece continuano a muoversi come tali e rigorosamente in gruppo.
Che cosa cercano oggi i giovani dall’esperienza di un viaggio? E quanto incide l’indice di instagrammabilità di una meta a tuo avviso?
La mia impressione è che per i giovani contino proprio le esperienze: il cibo assaggiato, le persone conosciute. Anche la sostenibilità ha un peso maggiore rispetto alle generazioni precedenti così come il rispetto delle differenze. L’instagrammabilità conta sempre di più, perché per i più giovani le esperienze vanno sempre condivise. In fondo la Gen Z è la prima per la quale il digitale è parte integrante della propria vita, quindi anche la prima che non avrà l’album delle foto ricordo da tenere a casa, sostituito dall’account Instagram con gli scatti condivisi in tempo reale.