I brand oggi dovrebbero andare a caccia soprattutto di esperti di semiotica, etnografia digitale, strategia culturale e tecniche del linguaggio visivo, per imparare a relazionarsi con più significato e pertinenza al mondo umano e digitale. Cosa vuol dire oggi, per esempio, scrivere per il digitale, soprattutto per un giornalista? E in che modo un semiologo si relazione alla moltemplicità della Rete?
Ne abbiamo parlato con Alessandra Chiappori.
Nata a Imperia nel 1986, Alessandra vive tra Torino e la Liguria. Si è laureata in Comunicazione multimediale e di massa all’Università di Torino, ateneo dove ha poi conseguito il titolo di Dottore di ricerca in semiotica. I suoi studi si sono concentrati su letteratura, semiotica e analisi testuale con particolare riferimento alla costruzione dello spazio nella narrativa di Italo Calvino. Alessandra è giornalista pubblicista dal 2013. Fa tantissime cose, e tutte bene. Coordina la redazione torinese del magazine online Mentelocale e scrive di letteratura per LuciaLibri e Turismo Letterario. Racconta di sé e delle sue letture su A contrainte ed è autrice e conduttrice del programma radiofonico Atlante di carta, viaggi nei mondi dei libri. Infine, nel 2018 ha pubblicato con Il Palindromo Torino di carta, guida letteraria della città. Chi meglio di lei poteva rispondere alle nostre domande?
Iniziamo con una domanda secca.
I social media hanno impoverito il nostro linguaggio sì o no?
A domanda secca rispondo con un secco sì. La comunicazione politica ci fornisce a tal proposito numerosissimi esempi recenti, in una propaganda perenne fatta di slogan che hanno lo scopo di ridurre la complessità e rendere manicheo lo scontro tra parti. Sui social bisogna farsi notare e condividere, e lo slogan, semplice, di impatto, è perfetto. Ho qui sulla scrivania un articolo di Stefano Bartezzaghi trovato su «Robinson» del 4 gennaio scorso, si intitola Lessico da frigorifero e parla proprio dell’impoverimento della nostra lingua favorito da un ecosistema comunicativo che valorizza velocità, multitasking, orizzontalità a scapito di complessità e profondità. Come scrive Bartezzaghi, in questa nuova situazione, che è ormai la nostra quotidianità, la nostra normalità, «ci si ritrova a parlare per formule, cioè frasi prefabbricate e predisposte a molti usi, tormentoni, esclamazioni, modi di dire. Chi si discosta poco più di un niente dai sentieri espressivi già tracciati ne ricava un’impressione precisa: quella di non essere capito».
Non è solo perdita di lessico, di cui pure si parla anche in tante uscite recenti (vedi per esempio Senza parole. Piccolo dizionario per salvare la nostra lingua, di Massimo Arcangeli, Il Saggiatore, o Potere alle parole. Perché usarle meglio, di Vera Gheno, Einaudi) ma perdita di tutte quelle strategie che sono il sale della comunicazione, e che rendono il nostro linguaggio lo strumento principe per costruire mondi, per fare ironia, giocare, persino mentire, facendo arrivare tutto questo al nostro interlocutore o lettore e innescando così i processi interpretativi, quelli che ci permettono di trasmettere il senso di quel che stiamo dicendo o scrivendo. Tutto va appiattendosi, banalizzandosi, adattandosi a un livello di mediocrità che sembra lasciar intravedere un nuovo paradigma dove la varietà e la deviazione rispetto a uno standard “di base” non sono ben viste, perché – e questo è l’aspetto che trovo inquietante – non sono capite. La perdita di complessità, purtroppo, è tra i fattori che accrescono l’analfabetismo funzionale, cioè l’incapacità di rielaborare con senso critico ciò che viene letto e scritto.
Che cosa significa per te scrivere per il digitale?
C’è differenza rispetto a scrivere storie su altri media?
Negli ultimi anni ho approfondito un concetto che ritengo essenziale per la scrittura digitale e che dovrebbe essere chiaro a tutti: scrivere per il digitale non è e non sarà mai come scrivere per il giornale cartaceo. Porto questo esempio perché strettamente connesso al mio lavoro di giornalista. Faccio parte di una generazione che si è formata ancora per lo più sulla base della “vecchia macchina analogica”, i miei docenti erano giornalisti che lavoravano per i quotidiani, i social erano agli albori, non se ne immaginava l’evoluzione e tanto meno l’impatto sul mondo dell’informazione. La scrittura che ho imparato a plasmare e forgiare per lavorare in un giornale seguiva le regole base che un po’ tutti conosciamo: le 5 w, la piramide rovesciata, la chiarezza sui fatti, prima di tutto, poi il commento, l’uso di stili, toni e registri a seconda dei contesti (cronaca, costume, sport…).
Scrivere per fare informazione digitale, oggi, non è più (solo) questo. Oggi infatti online si è schiavi della Seo, la Search Engine Optimization. L’obiettivo, nel mare magnum delle informazioni e dei contenuti che circolano in rete foraggiando la cosiddetta cultura orizzontale (vedi La cultura orizzontale, Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini, Laterza), è farsi trovare dall’utente. Per farlo è necessario costruire e scrivere testi seguendo precise regole che hanno proprio a che fare con la Seo. Questa per me è la più grande differenza, ciò che incarna l’essenza della scrittura per il digitale. Ed è una grande sfida: mantenere la coerenza, l’efficacia e la correttezza delle informazioni dentro ai vincoli imposti dalla Seo. Insomma, scrivere per il digitale non è banale, ed esige un dialogo costante con la logica dell’algoritmo.
Chiunque lavori nei e con i media sa bene che la scrittura va adattata al mezzo: non è uguale scrivere per la radio così come non è farlo per il cinema. La differenza del web, a mio avviso, è che non si tratta di adattare la scrittura al mezzo favorendo il lettore o ascoltatore – la radio, lo immaginiamo, pretenderà costruzioni diverse rispetto al mezzo principe della comunicazione visiva, la tv – ma di “agganciare” l’algoritmo, cercando di finire nei primi dieci risultati di Google. Questa pratica, se non curata con attenzione maniacale, rischia di depauperare fortemente il linguaggio a scapito dell’informazione e del lettore, a cui vengono offerti contenuti con argomentazioni assenti o debolissime, poco “profondi” e confezionati ad hoc per galleggiare sulla superficie dandosi in pasto alla logica degli algoritmi.
Nello specifico, cosa significa oggi per un giornalista confrontarsi con gli spazi della Rete, dove a sgomitare ci sono pochi professionisti e tanti amatoriali?
Questa risposta riprende per certi versi il filo delle due precedenti. È molto difficile infatti, nello scenario che ho descritto, porsi come intermediario credibile per l’opinione pubblica. Tutto è cambiato: l’accesso alle notizie, che non avviene dal giornale ma in larga parte anche dai social, e in modo spesso involontario; la creazione dei contenuti, che non è più prerogativa di un gruppo professionale dotato di riconosciuta autorità; i sistemi economici che regolano le aziende editoriali. Potremmo parlare di questo enorme cambiamento per ore e ore.
Tra le attività coinvolte in questo mutamento di paradigma che ci coinvolge tutti e che ormai ha a che fare con il nostro modo di vivere, credo che il giornalismo sia uno dei settori più in difficoltà perché sottoposto a sua volta a cambiamenti radicali. Le notizie, oggi, ci sono già, non siamo quasi più noi a doverle trovare. Al di là di una notevole riduzione della parte entusiasmante di questo mestiere – parlare con le persone, scavare, scoprire -, che pure non sparisce, ma certo si assottiglia, questo ci porta a reinventarci come “gestori di contenuti”. C’è una quantità enorme di materiale vario che siamo chiamati a vagliare, verificare, anche a connettere talvolta, costruendo storie, percorsi di approfondimento.
Ai corsi di aggiornamento che noi iscritti all’Ordine dei giornalisti dobbiamo seguire se ne parla spesso: come sopravvivere? Dando valore aggiunto. È vero: in rete ormai siamo in tanti: giornalisti, blogger, aziende, influencer. Tutti producono contenuti, tutti competono per la visibilità, ma solo noi possiamo, e dobbiamo, per rigore professionale, fornire informazione verificata e di qualità. Una qualità che, io penso, si deve riscontrare sia nei contenuti che presentiamo e raccontiamo, sia nella loro forma, dunque torniamo circolarmente sul linguaggio, sulla sua necessaria profondità, come gesto di cura per il lettore.
E da semiologa?
Cosa osservi della Rete con quella lente?
La rete è una sorta di magico baule delle meraviglie per uno studioso di meccanismi che hanno a che fare con la significazione, cioè con le modalità attraverso cui il senso viene creato e condiviso. Svestiti i panni della giornalista rigorosa e un po’ bacchettona, la rete e le sue pieghe non possono che incuriosirmi, talvolta spingendomi a riflettere sui testi – dove per testi intendo qualsiasi contenuto, dai video agli articoli, dalle foto su Instagram ai meme – sulle loro contaminazioni, sul loro rapporto con gli utenti. È quella che in accademia si definisce sociosemiotica, che si occupa dei cosiddetti discorsi sociali. In tempi di esplosione del panico legato al Coronavirus, per esempio, non ho potuto non ricordare il seminario svolto al Circe di Torino (Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Comunicazione) nel 2016 e dedicato proprio alla viralità, in senso metaforico e legato alla comunicazione. Con un sorprendente anticipo sull’attualità ci eravamo dedicati – e cito solo due casistiche assai note a tutti – allo studio delle dinamiche con cui vengono creati e si diffondono i meme online, oppure al crearsi del circuito di disinformazione che ha alimentato le recenti vicende no-vax.
Al contempo, la cosiddetta “lente semiotica” mi spinge sempre a considerare come cambia e si propone quello che ci piace definire storytelling, ovvero la narrazione. Non potrebbe essere altrimenti visto che arrivo dal mondo della semiotica letteraria, un ramo considerato un po’ vintage, lontano dal ribollire dei fenomeni sociosemiotici che menzionavo prima, ma che in realtà mette a disposizione alcuni strumenti classici per affrontare la testualità.
Mi faccio aiutare ancora una volta da Bartezzaghi, che del resto è un semiologo. In una recensione al libro Fake, di Christian Salmon, in Benvenuti nell’era dello scontro (Robinson, 8 febbraio 2020), nota come l’accelerazione forsennata dei nostri tempi abbia modificato il modello classico di narrazione. Da una parte non crediamo più all’autore, e dunque al potenziale giornalista di cui parlavo prima: «l’illusione che narrare sia un neutro descrivere non può reggere a lungo – scrive Bartezzaghi – Infatti oggi dubitiamo di tutto: massimamente, dei racconti”. Dall’altra, abbocchiamo però facilmente al modello semplicistico dello scontro, depauperato della sua – ancora una volta ricado su questo tema! – complessità. «Si parte dalla complessità del mondo per sfrondarla e sostanzialmente abrogarla – spiega bene Bartezzaghi – lasciando in campo solo buoni e cattivi, nella fissazione identitaria che non ammette più evoluzioni, sviluppi, in una parola storie». Ecco, la semiotica mi serve anche a notare questi meccanismi, e farne tesoro per il mio lavoro.
Infine, delle Lezioni Americane di Italo Calvino, quale senti più giusta per l’epoca storica che stiamo vivendo?
Rispondo senza esitazioni: l’ultima, o meglio la penultima prima della sesta, incompiuta: molteplicità. Partendo da Gadda e arrivando a citare un autore che amo, Perec, e l’Oulipo – Ouvroir de littérature potentielle – Calvino parla del romanzo contemporaneo come enciclopedia, ovvero come modello di conoscenza. Si tratta di un romanzo che coniuga insieme linguaggi, registri, cultura scientifica e umanistica, saperi e codici, e la visione che ne emerge è sfaccettata. Non credo di azzardare troppo se propongo un’ideale metafora capace di legare questo tipo di romanzo all’ecosistema digitale di cui parlavo poco fa: non si tratta forse del serbatoio di una sterminata molteplicità?
Come i testi di cui parla Calvino, anche i contenuti del mondo digitale sono interpretabili su più piani, sono plurimi. E la rete non è forse quell’iper romanzo che aveva in testa Calvino? È una proposta, io credo, di grande suggestione e di grande attualità. Ci ricorda che, quando parliamo di digitale, di web, quando ci lavoriamo, quando lo analizziamo, siamo dentro un fenomeno complesso, sfaccettato, molteplice appunto. E se da un lato questa molteplicità ha le conseguenze anche negative che abbiamo individuato prima, dall’altro apre molte sfide, e tenta di realizzare l’utopistico ideale di conoscenza enciclopedica cui ambiva Calvino. «Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili». Non è forse una descrizione visionaria del nostro mondo contemporaneo?