Dark Light

Quando pensiamo alla Rete, dovremmo allontanarci dall’immagine tridimensionale di una galassia interconnessa, che ci ha accompagnato sin dagli anni Novanta, e adottare una visione più concreta e fisica. Immaginatela come una vasta mappa nautica, dove si alternano grandi terre emerse e gruppi di isole minori sparse qua e là. In questa rappresentazione troviamo i colossi del web come Google, Apple, Facebook e Amazon, affiancati da portali più piccoli, siti aziendali e pagine personali.

Davanti a questa mappa, diventa immediato comprendere che stiamo parlando di veri e propri territori, popolati da persone reali, in carne e ossa. Siamo noi, gli abitanti di questo spazio digitale. Nell’online percorriamo distanze che nella vita reale impiegherebbero ore o giorni in pochi istanti: raggiungiamo i nostri familiari lontani, andiamo al cinema all’orario che preferiamo, studiamo e ci formiamo. In sostanza, gran parte delle nostre vite si svolge tra questi territori digitali.

Considerare l’ambiente online come un vero e proprio habitat non è un concetto nuovo. La “media ecology“, una disciplina introdotta nel 1968 dal ricercatore statunitense Neil Postman, ci invita a riflettere sui media come ambienti veri e propri, capaci di influenzare non solo la nostra percezione e conoscenza del mondo, ma anche le nostre emozioni e i nostri valori. Trent’anni dopo, nel 1998, è stata fondata la Media Ecology Association, un’associazione internazionale che si occupa di portare avanti queste riflessioni nelle scuole e nelle università.

In Italia, uno dei membri di questo gruppo è Paolo Granata, professore presso l’Università di Bologna, che da anni lavora per scardinare la visione riduttiva dei media come semplici strumenti di comunicazione. Granata sostiene che i media sono molto più di meri mezzi per interagire: plasmano i nostri ambienti sociali e culturali, ridefinendo il modo in cui viviamo e ci relazioniamo.

Al contrario, i media non sono semplici strumenti, ma veri e propri territori abitati, ecosistemi digitali che meritano di essere valorizzati, rispettati e preservati, proprio come facciamo con i nostri patrimoni naturali. Ogni giorno, in Rete, noi esseri umani lasciamo tracce infinite, spesso senza preoccuparci di eliminarle. Anzi, molte di queste tracce decidiamo consapevolmente di conservarle, archiviandole nei cloud o nelle memorie dei nostri dispositivi. “Tanto non costa nulla”, quante volte l’avremo detto a noi stessi? Non costa nulla conservare vecchi file sull’hard disk, tenere foto sfocate sui nostri smartphone, o scrivere ogni pensiero fugace su Facebook. Non costa nulla condividere frammenti della nostra vita quotidiana su Instagram o partecipare a videochiamate e dirette streaming.

Eppure, la realtà è ben diversa. Una ricerca di Kaspersky Lab ha rivelato che il 30% delle app installate sui nostri dispositivi rimane inutilizzato, continuando comunque a consumare dati. Le app più popolari possono assorbire fino a 22 MB al giorno, anche se non vengono utilizzate. Inoltre, un terzo degli utenti cancella solo occasionalmente contenuti digitali inutilizzati, mentre il 13% non lo fa mai. E non parliamo solo delle applicazioni: dentro le nostre caselle e-mail si accumulano migliaia di messaggi, la maggior parte dei quali resterà lì, ad appesantire il sistema senza un vero motivo.

Ma siamo davvero sicuri che “non costa nulla”? In realtà, la situazione è molto diversa. Da un lato, c’è una questione energetica concreta: i cloud, contrariamente all’immagine leggera delle “nuvole”, consumano enormi quantità di energia e contribuiscono all’inquinamento, accelerando il riscaldamento globale. Ogni dato lasciato nei nostri spazi digitali sporca l’ambiente, proprio come farebbe un rifiuto fisico. Dall’altro lato, c’è una questione etica: l’uso irresponsabile di questi spazi digitali comuni rappresenta una mancanza di rispetto per i luoghi pubblici che condividiamo con altri utenti. Proprio come nella vita reale, anche nell’ambiente online abbiamo la responsabilità di mantenerlo pulito e ordinato per il bene di tutti.

Le popolazioni, negli habitat digitali, possono poi essere nomani o stanziali. Nel 1993, il sociologo Howard Rheingold pubblica The Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier, introducendo il concetto di comunità virtuale e rendendolo universale. Con la crescente diffusione della Rete, le persone non si limitano più a utilizzarla per cercare o condividere informazioni. Attraverso la tastiera e lo schermo, imparano a conoscersi, comunicano, condividono esperienze e, in sostanza, costruiscono relazioni. Queste connessioni spesso avvengono tra individui che non si sono mai incontrati nella vita reale, eppure, formano gruppi online che funzionano proprio come comunità. Gli anni Novanta, in particolare, segnano un’epoca di espansione delle connessioni, in cui l’attenzione si sposta dal rapporto tra uomo e macchina al rapporto tra esseri umani mediato dalla macchina.

Rheingold non è l’unico ad aver esplorato le dinamiche delle popolazioni digitali. Sherry Turkle, sociologa della scienza e della tecnologia al MIT di Boston, studia da oltre trent’anni la psicologia degli esseri umani in relazione alle piattaforme digitali e ai dispositivi connessi. Nel suo celebre volume Insieme ma soli (ed. Einaudi), l’autrice analizza l’impatto percettivo e sociale del mondo digitale, sottolineando come questi fenomeni non siano il risultato di una trasformazione recente, ma affondino le radici negli albori della Rete stessa. Turkle ci ricorda, ad esempio, che Arpanet, l’antenata di Internet, era stata originariamente progettata per permettere agli scienziati di collaborare sui propri paper di ricerca. Tuttavia, ben presto, si trasformò in un luogo di scambio informale, dove si spettegolava, si flirtava e si parlava persino dei propri figli. Ciò dimostra come, al di là della tecnologia, i nostri bisogni umani fondamentali — come la socializzazione, l’affetto e la condivisione — restano costanti, adattandosi semplicemente ai nuovi mezzi disponibili. Turkle sottolinea anche come la tecnologia digitale ci abbia portato a vivere in una condizione di “connessione permanente”, in cui siamo sempre vicini virtualmente, ma spesso ci sentiamo soli. Questo paradosso, di essere “insieme ma soli”, evidenzia una nuova complessità nei nostri rapporti interpersonali, in cui la comunicazione digitale crea un’illusione di vicinanza che, tuttavia, non sempre colma il bisogno di connessioni autentiche e profonde.

“Alla metà degli anni Novanta Internet ha iniziato a brulicare di mondi sociali. C’erano chat room e bacheche (bulletin board) e ambienti social chiamati Mud. Solo dopo sono arrivati i giochi di ruolo online multiplayer, come Ultima II e EverQuest, i precursori di World of Warcraft. […] Anche se il più delle volte i giochi assumevano la forma di missioni da compiere, medievali o di altro tipo, i luoghi virtuali erano avvincenti soprattutto perché offrivano una vita sociale, e la possibilità di essere quello che avremmo sempre voluto essere.”

Da un lato, sappiamo che alcuni territori digitali ospitano in modo stabile e circoscritto i cittadini di determinate nazioni fisiche — pensiamo, ad esempio, ai cinesi su WeChat o ai russi su VK. Dall’altro lato, in Occidente osserviamo un comportamento molto più nomade. Le persone si spostano in massa da una piattaforma all’altra, spesso in risposta a nuove tendenze o per soddisfare bisogni specifici. Ricordate quando anni fa i giovani hanno iniziato ad abbandonare Facebook per migrare verso il più dinamico TikTok? Questo fenomeno avviene sicuramente per moda, ma c’è anche una ragione più profonda: i social media tradizionali, come Facebook, nel frattempo sono stati colonizzati dalle generazioni più anziane, spesso includendo anche i genitori dei più giovani. Questo ha spinto molti a cercare nuovi spazi digitali in cui potersi esprimere liberamente, lontano dallo sguardo dei propri familiari. Capire queste dinamiche intergenerazionali è essenziale per chiunque voglia tracciare tendenze digitali o raccogliere small data, quelle piccole tracce di informazioni che, aggregate, raccontano storie significative. Il passaggio di massa da una piattaforma a un’altra, come quello da Facebook a TikTok, è un chiaro indicatore di cambiamenti culturali e di comportamento, e offre preziosi spunti per analizzare i nuovi modi in cui le persone, specialmente i giovani, interagiscono online.

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Tratto, ispirato e ampliato da:
#Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale (ed. Hoepli)

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