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Andare alla ricerca degli small data è come intraprendere un viaggio che si rivela essere molto più complesso e lungo di quanto previsto inizialmente. Questo avviene perché non ci si limita a raccogliere numeri, ma si è alla ricerca di ricorrenze sottili, significati nascosti, schemi culturali. La differenza fondamentale rispetto alle metriche numeriche tradizionali sta proprio nell’equilibrio di questa ricerca, che richiede una comprensione profonda del terreno culturale in cui ci si immerge.

Un’indicazione chiave sull’approccio la troviamo già nell’etimologia della parola cultura, che deriva dal latino colere, ovvero coltivare. Questo ci suggerisce che ciò che cerchiamo non è tanto legato agli aspetti innati o naturali dell’essere umano, quanto piuttosto a quelli acquisiti e sviluppati nel tempo. Si tratta, infatti, di comportamenti e idee coltivati e condivisi all’interno di un contesto sociale, che oggi trova la sua massima espressione nella rete digitale.

Per avventurarsi nella ricerca, non sono necessarie tecnologie particolarmente avanzate. L’attrezzo più sofisticato di cui disponiamo è il nostro cervello, una macchina naturale perfettamente allenata a trasformare ciò che ascoltiamo, vediamo e leggiamo in dati e conoscenza. Fin dalla nascita, siamo costantemente impegnati nel tradurre stimoli esterni in significati, e questo ci rende capaci di raccogliere anche quei dati più sottili, invisibili alle tradizionali metriche numeriche.

Il viaggio nella ricerca degli small data richiede dunque attenzione e pazienza, poiché sono le tracce culturali, apparentemente minori, che ci aiutano a svelare ciò che davvero conta per le persone.

Il gesto di tradurre i dati raccolti in storie ha radici profondissime nella nostra storia culturale. Un esempio emblematico ci viene offerto da Erodoto, considerato uno dei padri della storiografia. Già nel V secolo a.C., Erodoto scrisse dei popoli “barbari” che vivevano a est e a nord della penisola greca, impegnandosi in una sorta di studio culturale comparativo. Come un netnografo ante litteram, osservava le usanze e le credenze di queste comunità, confrontandole con quelle di Atene.

Ciò che rende affascinante il lavoro di Erodoto è il suo approccio privo di pregiudizio: ascoltava, raccoglieva informazioni e poi le trascriveva, senza condannare o idealizzare le culture che incontrava. Così, nella sua opera Le Storie, ci ha consegnato una serie di parentesi narrative curiose e dettagliate, che ancora oggi ci offrono uno spaccato della vita e delle tradizioni di quei popoli lontani. Tale processo di raccolta e traduzione delle esperienze in racconto è il cuore stesso della netnografia moderna: osservare, ascoltare e riportare, senza alterare, ciò che emerge dall’interazione culturale, sia essa nel mondo reale o nei territori digitali.

“Ogni volta che un Babilonese ha fatto l’amore con la propria moglie, brucia delle sostanze aromatiche e si siede accanto al fumo; la stessa cosa, separatamente, fa anche la donna. All’alba entrambi provvedono a lavarsi e non toccano nessun vaso se prima non si sono lavati. […] Ed ecco la peggiore delle usanze babilonesi. Ogni donna di quel paese deve sedere nel tempio di Afrodite una volta nella sua vita e fare l’amore con uno straniero. […] Le donne avvenenti e di alta statura se ne vanno rapidamente, ma quelle brutte rimangono lì molto tempo senza poter adempiere l’usanza; e alcune rimangono ad aspettare persino per tre o quattro anni.”

Che si tratti delle donne babilonesi nel tempio o delle super-mamme che condividono le loro esperienze su Facebook, non è compito dei ricercatori di small data giudicare se gli atteggiamenti siano giusti o sbagliati. Dobbiamo, al contrario, limitarci a registrarli e comprenderli nel loro contesto. In questo ambito, la sociologa Marianella Sclavi si distingue come una vera maestra dell’ascolto attivo, dedicando gran parte della sua carriera a sviluppare questa competenza fondamentale.

Sclavi propone sette regole per praticare l’arte di ascoltare, che possono guidarci nel nostro lavoro di ricerca e nella comprensione delle dinamiche culturali:

  1. Essere presenti. La prima regola è fondamentale: dobbiamo essere completamente presenti nel momento dell’ascolto, abbandonando distrazioni e preoccupazioni personali.
  2. Ascoltare senza giudizio. È cruciale mantenere un atteggiamento neutrale, evitando di emettere giudizi sulle parole o sui comportamenti di chi stiamo ascoltando.
  3. Fare domande aperte. Le domande dovrebbero essere formulate in modo da incoraggiare l’interlocutore a esprimere liberamente i propri pensieri e sentimenti.
  4. Riflettere e parafrasare. Mostrare di aver compreso quanto detto riflettendo e parafrasando le informazioni ricevute, per chiarire eventuali malintesi e approfondire la conversazione.
  5. Accogliere il silenzio. I momenti di silenzio possono essere importanti. Non bisogna temere i vuoti, ma utilizzarli come occasioni per riflettere.
  6. Essere empatici. Cercare di mettersi nei panni dell’altro, comprendendo le emozioni e le esperienze che sta condividendo, aiuta a costruire una connessione più profonda.
  7. Riconoscere e rispettare le differenze. Ogni individuo porta con sé una storia unica e una prospettiva diversa. È importante rispettare e valorizzare queste differenze nel processo di ascolto.

Le sette regole non solo arricchiscono la pratica dell’ascolto attivo, ma rappresentano anche un approccio etico e rispettoso nell’indagine dei comportamenti umani, essenziale per il lavoro del netnografo e del ricercatore di small data.

Le tracce umane in Rete possono talvolta condurci su sentieri inaspettati, rivelando aspetti sorprendenti delle community online. Prendiamo ad esempio il fenomeno del K-pop. Questo genere musicale ha radici profonde in Corea del Sud, ma la sua influenza si è diffusa a macchia d’olio anche al di fuori dei confini nazionali, complice il potere dei social media di accorciare le distanze. Ci si potrebbe aspettare che le conversazioni online si concentrino esclusivamente sull’entusiasmo dei fan per le band, ma la realtà è ben più complessa. La community di fan del K-pop si distingue non solo per la sua vastità, ma anche per la sua sensibilità verso temi sociali, inclusa la lotta contro il razzismo strutturale.

Durante le proteste legate al movimento Black Lives Matter nel maggio 2020, il dipartimento di polizia di Dallas ha lanciato un appello alla popolazione, chiedendo di inviare filmati di qualsiasi attività illegale tramite l’app iWatch Dallas. In risposta, le community di fan del K-pop hanno letto questa richiesta come un tentativo di minacciare la privacy e i diritti dei manifestanti pacifici. Così, hanno deciso di ribaltare la call-to-action: utilizzando il loro vasto archivio di concerti e video delle band come ITZY, BTS e Red Velvet, hanno inondato il canale della polizia, mandando in tilt l’app in poche ore. Nel medesimo periodo, i fan del K-pop hanno collaborato con altri giovani su TikTok per prenotare un gran numero di posti al raduno di Tulsa per la rielezione di Donald Trump. Sebbene non abbiano mai rivendicato pubblicamente questa azione, il risultato è stato evidente: l’incontro si è svolto davanti a una platea quasi vuota, con il presidente della campagna, Brad Parscale, che ha dichiarato che erano state fatte oltre un milione di richieste di biglietti, ma solo 6.200 erano stati riscattati.

Gli esempi sopra evidenziano come le community di fan del K-pop stiano diventando un movimento internazionale potente, impegnato su questioni politiche globali. Mettersi in ascolto di queste community significa quindi andare oltre la semplice passione musicale: si tratta di comprendere un fenomeno che si interseca con le lotte sociali e i cambiamenti culturali, dimostrando il potere delle nuove generazioni di mobilitarsi per cause significative. In questo senso, la netnografia diventa un valido strumento per esplorare tutte le dinamiche in gioco, permettendo di cogliere le sfumature di un’umanità connessa e impegnata.

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Tratto, ispirato e ampliato da:
#Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale (ed. Hoepli)

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