Scuro Chiaro

In un tribunale francese, più di vent’anni fa, un artista e un giudice di corte stabilirono una volta per tutte cosa fosse o non fosse arte. E quindi, in ultima sentenza, la cultura. Per quanto possa sembrare paradossale, a spuntarla, fu il giudice. 

L’artista in questione era Pierre Pinoncelli e non era la prima volta che finiva in tribunale. Celebre per aver lanciato una bottiglia al ministro della cultura e per essersi mozzato un dito come protesta per la guerra in Colombia. Un tipo così. In quello specifico caso, in tribunale, ci andò perché era entrato nel museo di Nimes e aveva urinato dentro l’installazione di Marcel Duchamp chiamata “la fontana”, per poi prendere l’opera d’arte a martellate fino a distruggerla completamente. Ripeto: un tipo così.

Come è giusto credere per le azioni più scellerate degli artisti, aveva le sue ragioni. Infatti, il suo atto non era altro che un attacco provocatorio al culto del banale, un modello pensato da molti filosofi proprio dalla presentazione dell’opera di Duchamp nel 1917. Secondo questa teoria, c’è un filo rosso molto chiaro che unisce Squid Game, le scarpe della Nike, Temptation Island e il famoso orinatoio. Ovvero nella continua ricerca per rendere un oggetto banale prodotto in modo industriale nella massima espressione artistica.

Perché una scarpa non può diventare arte? Perché tentare la fedeltà di tredici giovani non dovrebbe essere una attività culturale? Perché, appunto, un orinatoio non dovrebbe poter rappresentare la madre di Gesù?

Ora, torniamo al giudice. Capite bene che in quella corte e in quella specifica sentenza, non doveva solo decretare quanto l’atto di Pinoncelli fosse grave, ma anche stabilire su quale strada stesse andando il mondo culturale occidentale. Il fatto a favore di Pinocelli fu che l’opera distrutta non era quella originale, ma una copia prodotta in serie, quindi una copia di una copia. Per quel che conta, si può dire che il suo danno contasse come distruggere un bidet all’Ikea.

Mettiamoci d’accordo, il reato c’è. Ma era un reato artistico? Ecco perché in questa sentenza avrebbe dovuto fermarsi il mondo, almeno un poco, e affacciarsi in quello che, a tutti gli effetti, si trattò di un vero e proprio duello culturale. Di due idee differenti di cultura. Da una parte l’artista impegnato, un intellettuale che porta con sé il nostalgico ardore della cultura che fu.

Dall’altra parte… chi c’era dall’altra parte? 

Non conosciamo il livello d’istruzione del giudice, ma poniamo il caso che si tratti di un uomo normale, che la sera legga qualche pagina prima di dormire, che si conceda un po’ di svago davanti alla televisione, due o tre acquisti su Amazon al mese, abbastanza attivo sui social e che sogna il fine settimana al mare dopo lunghe giornate in tribunale. Un uomo, dunque, moderno. Sfuggente, stanco e, a suo modo, distratto. Dunque, chi c’è dall’altra parte? Dall’altra parte ci siamo noi. Noi contro Pinoncelli. Non uno scontro tra buoni e cattivi, come sarebbe erroneo credere, la fine di un pensiero culturale che ne incontra uno che sta nascendo.

Siccome sappiamo che a vincerla, alla fine, sia stato il giudice – e dunque noi – facciamo un passo indietro. Parliamo qui della fine di un certo tipo di cultura, ma bisogna fare lo sforzo di segnare quando questa fosse al suo apice. Prendiamo l’Italia. Negli ultimi anni in cui Fabrizio De André scriveva le parole più belle del cantautorato italiano, il fenomeno Grande Fratello dilagava in tutti i salotti. Quando Federico Fellini girava 8 ½, Mike Bongiorno era già un fenomeno di massa. E ancora, quando Pier Paolo Pasolini scriveva gli Scritti Corsari, Silvio Berlusconi allargava il proprio raggio d’affari nel settore della comunicazione e dei media. Ogni apice artistico ha al suo fianco un prodotto, perché di prodotto si parla, a suo modo “basso”. Eppure, proprio questo effetto fisarmonica tra “alto” e “basso”, dà l’opportunità alla cultura di intraprendere strade diverse. Come sosteneva Umberto Eco, le opere non sono unicamente alte o basse, giacché esistono opere basse, ma belle, e opere alte, ma brutte. Chi ha visto gli ultimi film di Bergman, sa di cosa parlo.

Perciò, per sintetizzare, la cultura degli ultimi anni del ‘900 non è stata altro che la differenziazione dell’offerta, non intesa come prodotto al supermercato, ma come modalità di accesso a una determinata tematica. Ora chiediamoci: noi, il giudice, uomini moderni e super informati, siamo davanti a una cultura che lavora su più livelli ed è capace di raggiungere più tipi di persone? Apparentemente sì. Su Netflix ci sono moltissimi film, diversi tra loro. La musica è divisa in tanti sottogruppi di genere. Abbiamo più talk politici che nel resto d’Europa. Eppure… Eppure, come dice il sociologo Vanni Codeluppi, il vero cambiamento non consiste nella varietà ma nella modalità con cui la cultura ci viene presentata. Non come offerta, ma, ora sì, come prodotto. Vendere un libro non è poi così diverso dal vendere una macchina. E se la cultura diventa prodotto, qual è l’effetto? Che vince il prodotto migliore, trascurando gli altri. E così, tanti saluti alla differenziazione. Da lì è facile capire perché tantissimi film della Marvel fanno successo al botteghino mentre pochi lungometraggi indipendenti trovano spazio nelle sale. Per non parlare delle Top Ten musicale molto simili tra loro. O numerosi programmi televisivi tutti estremamente piatti e ripetitivi. Non si sa se sia la cultura alta ad essersi abbassata, o se sia quella bassa che si è acculturata, ma di fatto, tutto giace allo stesso livello, e la fisarmonica di qualche decennio fa, ora non può che suonare sempre la stessa nota.

Ma il povero giudice, questo lo sa? Sì e no. Sì, perché la cultura garantisce un senso di rifugio allo smarrimento dei tempi, e sentendosi esso stesso un uomo smarrito, un sintomo di pericolo lo inquieta. Ma in realtà no, giacché tutto si è fatto vicino, accessibile e intrattenente. Troppo per renderci conto che sta per diventare anche tutto uguale. O che forse lo sia già.

Ed è un atto d’amore, di difesa, di patriottico amore del passato, che il giudice si ritrova davanti a un bidet rotto, pezzi di ceramica fatti senza nessun principio artistico, ma che lui stesso non può che guardare con quel pezzo di cultura che (ci) manca, pervadendogli l’idea che Pinoncelli non voleva attaccare Duchamp, ma noi, vittime silenziose dei tempi che cambiano, e così che, lui, il giudice, una volta per tutte, come simbolo dell’intera umanità, alzò la mano in alto e con l’orgoglio ferito degli uomini smarriti, colpì tre volte con il martello e decretò la sentenza che avrebbe messo un punto a tutta quella storia: un anno di carcere per Pinoncelli e 200.000 euro di multa per oltraggio a un’opera artistica, patrimonio dell’umanità. Quel giorno, morì la cultura di massa. Quella differenziata, quella alta e bassa. Da quel momento viviamo in un nuovo mondo dove l’arte ha una sola regola: è tutto. Scarpe, film, telefoni, pubblicità, trasmissioni, libri, macchine. E ovviamente, bidet.

Il paradiso del marketing.

Ultima considerazione. Viene spontaneo chiedere dove sia andata ora, la cultura bella. E cosa debba fare in questo appiattimento mediatico. Domande lecite. Quel che attualmente sta facendo è l’effetto Cospaia. Cospaia è un piccolo borgo toscano. Nel 1441 successe una cosa buffa. La repubblica di Firenze e lo Stato Pontificio tracciarono i loro territori e i confini. Se li divisero fino al Tevere. Ma siccome Cospaia è in mezzo a due torrenti, ecco che divenne una bolla, un’anarchica terra senza padroni. Non fu una bazzecola. La Repubblica di Cospaia, che conta circa 500 abitanti, durò felicemente fino al 1826, con la propria moneta e la propria bandiera. Eccola lì, la cultura. Anarchica, libera e fiera, ma risegata in uno spazio piccolo e quasi invisibile. Sarebbe bello, forse più poetico che anarchico, immaginarla prendere uno dei due fiumi e scorrere forte e bella. Trovando quel che trova, senza seguire correnti di consumismo. Bello immaginarla, non importa fra quanto, sperando di incontrare più gente possibile, ma eccola, prima o poi, arrivare, al mare. Bisogna crederci, bisogna guardare il fiume e aspettare. E a volte, se si ha coraggio, lanciarci.

Se vi sembra utopistico, sappiate che dopo aver scontato un anno di prigione, Pinoncelli andò in un museo e ritrovò ancora l’orinatoio di Duchamp. Non ci pensò due volte. Tirò giù le braghe e spaccò di nuovo quel patrimonio dell’umanità.

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