Scuro Chiaro

Tratto dal libro L’arte di raccontare storie
di Alessandro Avataneo – Franco Cesati Editore

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Il videogame, rispetto ad altre forme di esperienze narrative basate sulle immagini, ha una caratteristica unica: l’interattività, ovvero la possibilità per il giocatore di influenzare la storia. In termini di design narrativo, questo significa ramificare la trama scrivendo tutte le possibili interazioni tra i personaggi. È come passare da una meccanica classica a una quantistica: la drammaturgia di un videogame di ultima generazione crea l’illusione del libero arbitrio e amplifica il senso di immersività in una realtà alternativa.

Se da un lato abbiamo esperienze videoludiche che stanno gradualmente trasformando il videogame in esperienza cinematografica interattiva – dalle classiche avventure grafiche come Dragon’s Lair, Monkey Island, Grim Fandango, The Last of Us, Red Dead Redemption II, Ghost of Tsushima e simili – dall’altro il videogame inventa linguaggi ed esperienze irriproducibili con altri mezzi, come l’originale memoir What Remains of Edith Finch, o esperienze metafisiche e metanarrative come Inside, Gorogoa e Journey.

In Inside un anonimo ragazzino con una maglietta rossa precipita nell’inquadratura. Siamo in un bosco tetro e minaccioso, di notte. Non sappiamo chi sia il ragazzino, né cosa dobbiamo fare. Proviamo a muoverlo. Può camminare. Correre. Saltare. Aggrapparsi. Mentre lo facciamo agire impariamo a giocare. Non c’è nessun tipo di interfaccia grafica: è pura esperienza. Dopo pochi secondi, ci sono già camionette di uomini che ci danno la caccia: ci cercano tra gli alberi puntandoci addosso i raggi delle loro torce e sparando a vista, e ci sguinzagliano addosso dei cani inferociti.

A ogni passo falso il ragazzino muore nei modi più atroci, e noi dobbiamo ricominciare un passo indietro. Dobbiamo salvarci a ogni metro, tuffandoci in acqua, restando sott’acqua, correndo, strisciando, arrampicandoci, nascondendoci, sempre avanzando verso una strana struttura, nella quale dobbiamo evidentemente infiltrarci, per fare cosa non si sa. Ma ci danno la caccia. Il modo con cui il gioco gestisce emozioni e informazioni nel flow è magistrale. Mai troppo frustrante da abbandonarlo, mai così ripetitivo da annoiarci. Un incubo kafkiano, concettuale, viscerale, qualcosa di mai visto prima, che fa coincidere azione, narrazione e mistero.

Inside usa una tecnica presa dal cinema d’animazione, la parallasse, per dare profondità a un mondo in 2D. Tutto il gioco è un unico piano sequenza a scorrimento laterale in cui il protagonista entra in una misteriosa struttura orwelliana, dove un’organizzazione segreta conduce esperimenti di ingegneria genetica e controllo della mente. La storia si srotola da sinistra verso destra come in un emakimono, un rotolo dipinto tradizionale giapponese, man mano che proseguiamo nella soluzione degli enigmi cercando di tenere in vita il protagonista. Negli emakimono, antenati dei fumetti e dei manga, possiamo vedere illustrati in un’unica immagine l’assalto a un castello, il principe assediato, la sua fuga dal castello in fiamme e i vari scontri tra soldati dei due eserciti; il nostro sguardo si muove come in un piano sequenza, all’interno di questo schermo allungato.

In Inside il ragazzino è sempre in primo piano e sullo sfondo vediamo elementi di worldbuilding che creano atmosfera e universo narrativo. In Gorogoa, di Jason Roberts, la natura bidimensionale dello schermo è usata in modo originale e organico al narrative design, integrando puzzle e fumetto in una mirabile meccanica narrativa: il gesto del giocatore sblocca fisicamente la storia. Siamo tra il XIX e il XX secolo, e seguiamo un personaggio dalla giovinezza alla vecchiaia, in cerca di un mostro divino che gli era apparso in gioventù e che impiegherà tutta la vita a ritrovare. Il ragazzo vive durante la ricostruzione del suo paese a seguito di una guerra, e da anziano riflette sul suo passato. Per avanzare nella storia disponiamo di un massimo di quattro immagini disposte in una griglia due per due.

La maggior parte delle tessere può essere manipolata singolarmente, ingrandendola, riducendola, o muovendosi al suo interno. Possiamo spostare l’immagine in uno qualsiasi degli altri spazi nella griglia, sovrapponendola alle altre, e quando riusciamo a far combaciare una porta, o un’apertura, l’immagine spostata diventa una maschera, come nei primi film artigianali di Méliès, che copre in parte l’immagine sottostante, creandone una nuova. Trovata la connessione, le immagini si animano e la storia procede, fino al prossimo enigma integrato nella narrazione.

Il terzo esempio è Journey, una variazione dell’Odissea che ricorda anche La Conferenza degli Uccelli del poeta e mistico persiano Farīd Ad-dīn ‛Aṭṭār, metafora del cammino di ascesi sufi e inno alla fratellanza. Sviluppato da Thatgamecompany e diretto da Jenova Chen, Journey è un’esperienza filosofica trascendentale. Il nostro personaggio è una creatura incappucciata, con un mantello e una sciarpia, che deve attraversare prima un deserto, poi le rovine di una civiltà perduta, scalare le pareti ghiacciate di una montagna avvolta in una tempesta di neve, per concludere il cammino entrando in una vampa di luce che brilla sulla vetta. A quel punto il nostro corpo si dissolve, e la nostra anima si trasforma in una stella cometa che attraversa il cielo e riprecipita nel deserto, dove il cammino ricomincia da capo.

Più volte completiamo il cammino, più lunga diventerà la nostra sciarpa, e il mantello da rosso diventerà bianco. Nel corso dell’avventura, un altro giocatore, da qualunque parte del mondo, si può collegare per giocare insieme a noi. A differenza degli altri giochi online, non possiamo comunicare, né all’interno del gioco, né con un sistema di chat, con il nostro compagno di viaggio, e quindi non sapremo mai chi è. Trovarsi insieme a un personaggio dal mantello bianco, con una lunga sciarpa che ci aiuta nel cammino, provoca uno struggimento e una nostalgia rari in un gioco. Nel progredire dell’esperienza impariamo a correre più veloce e volare più in alto, ma non ci sono altri obiettivi, se non condividere il viaggio con altre anime, più giovani o più vecchie della nostra: salire alla montagna, morire, rinascere, risalire.

I videogame lavorano su tre mantra fondamentali delle narrazioni contemporanee: interattività (coinvolgimento fisico), intensità (tema ed emozione) e immersività (agency e illusione di libertà). Quando queste tre qualità si allineano, a un ritmo che mantiene il flow narrativo in continua vibrazione tra agon e ilinx, all’interno di un’equazione narrativa nuova rispetto a tutto ciò che abbiamo visto e vissuto, il videogame diventa arte.

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