Ricordo una sera, avrò avuto quattro anni, che trascinai mia madre in camera mia per assistere a quello che per me era a pieno titolo uno spettacolo. Avevo allestito una batteria composta da due piccoli xilofoni, secchielli rovesciati, un salvadanaio in porcellana e giocattoli vari, il tutto percosso per diversi minuti con qualche surrogato di bacchetta.
Non sono batterista, non si trattò dell’epifania di un talento prodigioso e precoce, e credo che mia madre dovette trovarsi in difficoltà quando le chiesi se le fosse piaciuto. “In parte – niente meno che la miglior alternativa al no – a volte musica, a volte era rumore.” Rimasi attonito. Avevo replicato i gesti di quelli che della loro musica riempivano stadi e CD, eppure non solo non ne era risultata bella musica, ma a tratti nemmeno musica e basta. Avessi conosciuto la storia che vi sto per raccontare, forse avrei saputo cosa risponderle.
30 gennaio 1968
È il 30 gennaio del 1968. Per decenni trovarsi a pronunciare le parole “Questa non è musica, è rumore” è stato un inequivocabile segno di invecchiamento. Fino ad ora. Oggi, dietro le vetrine di alcuni negozi di dischi negli Stati Uniti, è comparso un 45 giri dalla copertina blu scuro, la sagoma di una bandiera pirata disegnata in nero e, in bianco, la scritta White Light/White Heat. Si tratta del secondo album in studio dei The Velvet Underground, una band ancora sconosciuta ma titolare di una prenotazione al tavolo della storia della musica americana. L’ultima traccia, Sister Ray, è un capolavoro, ma a marcarne il pregio è un elemento peculiare: è rumore.
Fidatevi, se ci date un ascolto capirete cosa intendo. Una batteria veloce e ripetitiva, verrebbe da dire ipnotica, detta il tempo a un complesso di chitarre distorte e stridori, ad un certo punto compare persino un’improvvisazione di organo che pare diffusa dalla cassa di un cellulare.
Percussioni invadenti e suoni distorti al limite del riconoscibile. Più che la ricetta per una pietra miliare della musica occidentale, assomiglia a una barzelletta, eppure come avrete capito le nozze di queste due cacofonie risultano in una famiglia per niente disfunzionale. Anzi. Sono anime gemelle, nessuna delle due risulterebbe nemmeno lontanamente sopportabile senza l’altra. É ancora presto, ma tempo una ventina d’anni e questo modo di suonare crescerà come il feedback di un microfono mal posizionato. Per fare alcuni nomi: Sonic Youth, Scratch Acid, Big Black, Sex Pistols, Nirvana. Chitarre sature, stridenti, percussioni ipnotiche e intrusive, voci sguaiate. Nei testi: droga, degrado, disperazione, ansia, alienazione – la stessa Sister Ray racconta una storia degna dell’olimpo del parental advisory.
È nato un genere, il noise rock. Amico intimo del punk, compagno di merende del no wave, nonché trisnipote delle avanguardie musicali del Novecento. Eh sì, perché in musica come nelle altre discipline creative esiste una legge di realtà: non è mai la prima volta. Qualsiasi cosa tu faccia, qualcun altro ha già percorso la tua stessa strada, o almeno ha fatto l’alternativa ecologica suggerita da Google Maps. Forse dovremmo essere orgogliosi di dire che l’alternativa ecologica dei Velvet Underground è nata in Italia, a Portogruaro, nel 1885.
L’arte dei rumori
Luigi Russolo è figlio di musicista, due fratelli diplomati in conservatorio, lui stesso, sorpresa, è appassionato di musica. Finito il ginnasio non ricalca le orme dei fratelli, ma non cade nemmeno tanto lontano: Belle Arti e poi apprendista restauratore al Castello Sforzesco. Insomma, Russolo nei salotti Milanesi ci ha piantato la tenda, e proprio qua conosce e simpatizza con l’orda del futurismo. Scrive lettere, scrive critiche aspre del sistema accademico italiano, e infine scrive un libro in cui propone una musica tanto innovativa da far ridere: la musica rumorista.
L’11 agosto del 1913, nella Villa milanese di Marinetti si tiene il primo concerto rumorista. A suonare non sono figuri vestiti eleganti, ma i più disparati marchingegni sistemati in casse di legno da cui sporge un imbuto a mo’ di amplificatore. Al posto di archi, fiati e percussioni lo spartito dà indicazioni a ululatori, rombatori, crepitatori, stropicciatori, scoppiatori, ronzatori, gorgogliatori e sibilatori. Se volete farvi un’idea di ciò che il pubblico si trovò ad ascoltare prima di alzarsi chiedendo l’interruzione dello spettacolo, date un’occhiata a cosa propone YouTube per Risveglio Di Una Città.
Nel suo trattato L’arte dei rumori Russolo analizza la situazione sonora del “passato”, per intenderci, tutta la storia precedente alla diffusione delle macchine.
Fino a quel punto, la gran parte degli esseri umani al tempo aveva vissuto in campagna, nei campi, sui pascoli; e anche le città, senza tram, macchine, autobus e linee elettriche, erano state molto meno chiassose di quanto siamo abituati oggi. In questa condizione di insonorizzazione perpetua – ipotizza il nostro – il suono di uno strumento accordato e una sequenza di note – preferibilmente – intonate, bastava e avanzava per fare spettacolo. A inizio ottocento però le strade agresti si erano popolate di carovane di campagnoli in fuga verso le città, dove avrebbero lavorato in fabbriche percosse dal suono di rulli e presse, dal clangore delle ruote dentate, e dai carrelli che sferragliavano sui binari. Il destino delle campagne non sarebbe poi stato diverso, solo più lento.
Così a inizio novecento chiunque era esposto a migliaia di suoni ogni giorno. La musica strumentale non era più suono egemone nel silenzio, ora doveva vedersela con un’infinità di concorrenti contro i quali poteva trionfare. I nuovi pretendenti sonori appartenevano alla vita degli ascoltatori, vibravano di quotidianità, mentre la vecchia musica strumentale ormai evocava la noia delle sale da concerto borghesi. Era iniziata l’era del rumore.
Allora, mamma? Come la mettiamo?
La mettiamo che la mia esibizione non era uno spettacolo rumorista, né un concerto dei Velvet Underground. Tristemente per il sottoscritto, si tratta una domanda facile da archiviare.
Tuttavia se avete seguito la nostra storia fino a qua vi siete resi conto che Russolo non aveva del tutto torto, la rivoluzione rumorista è avvenuta. In forme e tempi diversi da quelli che immaginava, ma è successo. Possiamo dedurre senza troppe remore che anche il propellente non sia stato quello pronosticato. Non possiamo pensare che l’ascesa del noise rock sia da attribuire agli effetti della rivoluzione industriale.
E quindi? Cosa significa questa irruzione di rumore nella musica da metà novecento? C’è qualcosa che si muove qua sotto, una qualche bestia. Qualsiasi cosa sia non ha a che vedere solo con i musicisti della seconda metà del novecento.
Per vederci meglio dobbiamo dare un’occhiata più da vicino.
The Velvet Underground
Quindi torniamo ai Velvet Underground, anche perché sento di non aver dedicato abbastanza spazio a un gruppo così monumentale.
All’uscita di White Light/White Heat la band annovera Maureen “Moe” Tucker alle percussioni, il chitarrista John Cale, uno dei fondatori della band nonché una delle sue due anime, infine, voce e seconda chitarra, Lewis Allan Reed, in arte Lou Reed. Eh sì, per chi associa il nome solo a Walk On The Wild Side sarà una bella sorpresa.
Soggetto a esaurimenti nervosi sin dall’infanzia, consumatore di metanfetamine dalla prima adolescenza, a quattordici anni – nel ‘56 – i genitori lo sottopongo a elettroshock probabilmente nella speranza di guarire la sua bisessualità. La terapia non mostra particolari risultati sul fronte bisessualità, ma si rivela più che efficace nell’indurre nel giovane Lewis soventi stati di depressione e crisi nervosa.
A posteriori di questa biografia si sarebbe tentati di spiegare la confusione della musica dei Velvet con il vissuto travagliato di Lou. Un po’ è senz’altro lecito, ma non abbiate fretta, per favore, non saltate a conclusioni. Come vi ho detto, dietro a questa storia c’è qualcosa di grosso, che non si può attribuire esclusivamente a una fitta assunzione di stupefacenti. Quelli, al massimo, aiutano a vederlo.
Inoltre c’è da fare una precisazione, un po’ per – chiamiamola così – onestà intellettuale, e un po’ perché ci dà l’occasione di esplorare una storia interessante, e sarebbe un peccato farsela scappare.
White light/White heat non fu per nulla l’equivalente musicale di un successo al botteghino, e lasciò al gruppo un’amarezza gemella di quella che ava seguito l’insuccesso del loro primo album. Come se non bastasse, da un po’ non tirava buon’aria in casa Velvet. Lou avrebbe voluto imporre alla musica della band un taglio più pop mentre Cale insisteva per mantenere l’impostazione sperimentale. A seguito del fallimento del secondo album questo malcontento si inasprì e la band si sciolse in capo a nemmeno un anno.
Onestà. Anche se Reed probabilmente ha sempre apprezzato il fatto che i Velvet suonassero musica sperimentale e rumorista, probabilmente la paternità di Sister Ray è più da attribuirsi a John Cale.
La parte buffa. Nel ’75 Reed pubblicherà Metal Machine Music: sessanta minuti e quattro secondi di stridore metallico; e basta. A tutti gli effetti una violenza acustica. Un gesto estremo, che però ci torna quantomeno utile per toglierci qualsiasi dubbio su su quanto anche Lou Aprrezzasse l’inclinazione rumorista di White light/white heat.
Fine della digressione. Scusatemi, ritengo fosse necessaria. Quantomeno, è un’altra traccia del qualcosa che stiamo cercando e che ha ispirato i suoi primi vagiti nella musica dei Velvet Underground, un’altra traccia del bigfoot. è una foto sgranata di Nessy, e per metterla a fuoco vi devo chiedere un altro salto. Perdonatemi. Spero che, mentalmente, siate atletici almeno quanto me.
FacciamoCorna s.p.a.
É più o meno il duemila diciotto. C’è tensione e irritabilità nelle persone riunite attorno a un tavolo, negli uffici della direzione di una compagnia di assicurazioni di cui purtroppo non ci è dato sapere il nome – la chiameremo FacciamoCorna s.p.a. Gli affari della compagnia non stanno andando per nulla bene, e i dirigenti si sono riuniti per decidere quali azioni intraprendere.
A fine riunione i colletti bianchi sono stanchi ma forse un po’ più sereni. Condividono una certezza: per assicurare un futuro alla FacciamoCorna è fondamentale aumentare la coerenza interna.
Si sono infatti resi conto che a persone e/o attività del tutto simili vengono accordati premi molto diversi, ad altre, anche queste spiccicate alle prime, non viene nemmeno concessa una copertura. É evidente che questa variabilità stia minando la credibilità della FacciamoCorna. Unico problema, i dirigenti non hanno la più pallida idea di come sistemare la situazione. L’unica speranza, a questo punto, è rivolgersi a una società di consulenza.
La scelta ricade sulla McKinsey & Co., per la quale da più di venti anni lavora Olivier Sibony. Studioso di pensiero strategico e analisi dei processi decisionali, insegnante alla Scuola di Studi Commerciali di Parigi, Sibony sembra la persona più indicata a risolvere i problemi della FacciamoCorna.Su come siano andate le cose da qua in poi non abbiamo certezze. É piuttosto pittoresco immaginare che in un pub di Parigi o New York Sibony abbia tirato fuori l’argomento FacciamoCorna con due suoi colleghi: l’avvocato e insegnante di legge Cass R. Sunstein, ma, soprattutto, con lo psicologo ed economista Daniel Kahneman, già premio Nobel nel 2002 e autore di Pensieri Lenti e Veloci, uno dei libri di scienza cognitiva più importanti degli ultimi venti anni.
I tre verificano che, effettivamente, i giudizi espressi dai valutatori della FacciamoCorna sono molto variabili. A sorprendere, però, è che lo sono molto più di quanto gli stessi valutatori immaginano. A mettere in luce questo dato è un esperimento piuttosto facile. A tutti i valutatori viene dato un tot di casi da valutare, innanzitutto dovranno esprimere con un numero da 1 a 10 quanto ritengono rischioso ciascun caso, in seconda battuta gli verrà chiesto di stimare quanta variabilità risulterà dalle risposte di tutti loro. Le risposte più pessimiste si attestano al 10%, e sono comunque lontane dal reale: 50%.
Adesso, è probabile che a Kahneman, mente centrale della ricerca, già frullasse in testa di fare ricerche su qualcosa di simile, fatto sta che i tre allargano la scena. Visitano ambulatori medici, cliniche psichiatriche, corti di giustizia, servizi sociali, agenzie di perizia, reparti delle risorse umane, laboratori scientifici, uffici per l’assegnazione dei brevetti… ovunque è presente la stessa confusione, questo caos di opinioni talvolta persino date dalla stessa persona in due momenti diversi.
Il che crea confusione, complica l’individuazione di una linea di azione, e il perseguimento di uno scopo.
É una denuncia della malafede umana? No. Kahneman e colleghi esaminano una varietà enorme di ragioni che portano a questo fenomeno, giungendo, tra l’altro, alla conclusione che una base di variabilità è insita nel meccanismo del cervello umano. A interessarci però, è che a questa variabilità, questo caos di pareri autorevoli, Kahneman da un nome che, a questo punto, deve tornarci familiare: rumore.
Kahneman va avanti, esamina le cause del fenomeno, spiega perché viene spesso sottovalutato, analizza come interagisce con le dinamiche di gruppo e inventa soluzioni per ridurlo. Noi lo lasciamo andare, se vi interessa l’argomento potete leggere il saggio che Sibony, Sunstein e Kahnemen hanno pubblicato nel 2021: Rumore. Un difetto nel ragionamento umano. edito da Utet in versione italiana.
Facciamo il punto.
Ok, siamo arrivati fino a qua. Complimenti. Direi che possiamo prenderci una pausa e fare il punto.
1913: Luigi Russolo, un restauratore italiano con una passione ereditaria per la musica, scrive un trattato in cui sostiene che l’esistenza umana si è fatta più rumorosa, e quindi prevede che la musica del futuro sarà composta di rumori e non più dei suoni che la hanno costituita sino ad adesso. Flop. Ma forse…
1968: i Velvet Underground pubblicano Sister Ray, soddisfacendo un Russolo ormai morto da decenni.
Anni ’70 e ’80: la musica sguaiata e rumorosa contagia sempre più gruppi e diviene a tutti gli effetti un genere musicale, il noise rock. Dal noise discenderanno una serie di generi musicali che vanno dalla techno al metal.
2021: Daniel Kahneman, Olivier Sibony e Cass R. Sunstein scrivono un libro sulla variabilità dei giudizi umani e inventano il concetto di rumore in psicologia.
Bene, spero che la bestia che si muove dietro alla questione vi sia evidente quanto a me. Per il resto, direi che abbiamo tutto il materiale per andare alla caccia.
La bestia
Delle riflessioni di Kahneman e colleghi, una cosa ci importa particolarmente: il rumore non è solo una questione sonora. Prendiamoci il nostro tempo e scendiamo nel particolare.
Ogni giorno riceviamo migliaia di stimoli che ci richiedono uno sforzo per essere sistemati al posto giusto.
Mettiamo che camminando per strada vi imbattiate in un individuo che, bomboletta alla mano, sta disegnando sul muro di una palazzina. Si tratta di una persona che danneggia dei beni non suoi e quindi di un gesto sbagliato? O forse di un artista che come tale deve essere libero di esprimersi? O ancora potreste pensare che sì, disegnare su una superficie che non ti appartiene senza il permesso dei proprietari è sbagliato, ma tutto sommato il risultato è carino e ai proprietari della palazzina non farà male.
Indipendentemente da quale di queste sarà la vostra scelta, dovrete ponderarle tutte e tre per mettere lo stimolo “graffitaro” al giusto posto.
Così facendo non cambierete la condotta del graffitaro – forse farete anche quello, ma si tratta del passo successivo e non ci interessa – in poche parole, nell’eseguire tutta questa valutazione, non avete agito sul mondo, il graffitaro, ma su voi stessi. Avete deciso di collocarvi tra gli estimatori, oppure tra i contrari. Avete determinato un pezzo di voi stessi.
Attiviamo questo processo ogni volta che riceviamo uno stimolo, che sia un libro, una notizia alla tv, un video, un incontro casuale come il nostro graffitaro ecc. ecc. Ogni volta dobbiamo fare lo sforzo di trovargli un posto dentro di noi, di mettere ordine.
Ma le nostre energie mentali non sono infinite. A un certo punto gli stimoli diventano troppi, non riusciamo a mantenere la nostra vita ordinata, e ci appare come un caos in cui non riusciamo a trovare un posto, in cui perdiamo un po’ di noi stessi.
Chiamasi rumore, un insieme di stimoli in cui non riusciamo a mettere ordine è l’equivalente non sonoro di un insieme di suoni che non trovano un accordo tra di loro.
Eh sì, questo mette angoscia, ma ci spiega anche che cosa abbia fatto da propellente all’ascesa del rumore in musica.
Velvet Underground, fine anni sessanta, Stati Uniti d’America. C’è la televisione, le pubblicità, proliferano le testate giornalistiche, arrivano notizie sempre più abbondanti da tutte le parti del mondo. L’esistenza ha aumentato il passo, l’umanità sta entrando nella sua epoca più ricca di stimoli, quindi la più rumorosa. Abbiamo parlato di quanto il rumore non abbia effetti solo sul mondo. Anche il singolo in questa situazione è spaesato, nel non riuscire a gestire tutti gli stimoli che riceve vede disgregarsi il proprio ordine nel mondo e anche se stesso.
La nostra vita oggi è meglio? Se da una parte abbiamo fatto il callo al rumore, dall’altra quello è cresciuto molto più velocemente di quanto la nostra pelle possa adattarsi. Paragonando gli anni sessanta a una stanza in cui tre persone parlino contemporaneamente, quella di oggi è la stessa stanza dopo il trentesimo ingresso.
Ed ecco. Eccoci. La bestia.
Il rumore nella musica ha raccontato questa esistenza in cui facciamo difficoltà a mettere ordine, e che dissolve il senso e noi stessi.
Una tana di volpe
Devo confessarvi che inizio anch’io ad essere piuttosto affaticato. Fatevi salutare con un’ultima storia. Vi prometto che ne varrà la pena.
Il 12 settembre del 1940 a Montignac, nella Francia sud-orientale è una giornata perfetta per passeggiare. Il diciottenne Marcel sta camminando per campi assieme al suo cane e agli amici Jacques e Georges. Si trovano in una zona collinare chiamata Lascaux quando Marcel chiama il cane. Quello non si presenta. Non torna nemmeno al secondo fischio e al terzo i tre iniziano a preoccuparsi.
Dopo ore di ricerche ritrovano l’animale. È vivo, ma si è cacciato in una specie di buco nella terra, che Marcel ipotizza essere una tana di volpe abbandonata. Munitosi di una torcia, torna sul posto ed entra nel pertugio.
All’interno l’ambiente sembra piuttosto spazioso, è eccezionalmente secco ma a lasciarlo di stucco è ciò che trova sulle asperità di roccia delle pareti.
Qualche bambino le ha coperte di disegni di animali che somigliano a cavalli, mucche, tori, cervi. Il resto è storia.
A questo punto sono sicuro che parecchi tra di voi si staranno chiedendo che senso abbia questa vicenda nel nostro discorso. Qualcun altro probabilmente si sarà già fatto un’idea.
Quanto a me, vi dico: fatene quello che volete di Marcel, del suo cane, di Georges, di Jacques e delle grotte di Lascaux.
A me pare calzi a pennello con i Velvet Underground, Luigi Russolo, Daniel Kahneman, la FacciamoCorna s.p.a, gli anni sessanta e tutto il resto. Mi sembra profondo, ed estremamente significativo.
Con questo ho concluso. É davvero tutto. Un abbraccio e arrivederci.
*
Bibliografia
Giuro che è tutto una storia vera, ma capisco che “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”, e immagino anche che qualcuno di voi desideri delle fonti per informarsi meglio – o, almeno, spero, dai. Farò un ultimo sforzo, d’altra parte ve lo devo.
Se desiderate ascoltare un po’ di sano noise rock, ma non sapete da dove iniziare.
Volete informazioni sulla vita di Lou Reed?
Se volete leggere L’arte dei rumori.
Per approfondire la storia dei Velvet Underground e le dinamiche tra i componenti della band.
Incuriositi dagli studi di Kahneman?