Ciò che per Heidegger è la fine della metafisica, per i brand è il declino dei mega influencer. Rispetto al 2022, i loro compensi su Instagram sono scesi del 32%. Perfino Salvini è calato nei sondaggi. Come l’ordine ideale del mondo diventa un modello filosofico obsoleto, così gli outfit check da Dubai non fanno più hype. Gli utenti social non ricercano più il lusso o il mito del successo, ma umorismo e cultura.
Basta con l’ostentazione, oggi le parole chiave sono “autenticità”, “semplicità” e, soprattutto, “fiducia”. Se non lo bazzicate, fatevi un giro sul BookTok: sono diversi i piccoli creator che collaborano con i colossi del mercato editoriale – vedasi il sottoscritto. Ma non è solo il BookTok. Nel 2024 il 70% dei brand ha investito in nano e micro influencer che, con un pubblico fidelizzato e di nicchia, sono percepiti come subject-matter expert – io, per esempio, sono un esperto nel “memare” la letteratura.
Non è più il tempo di Platone o di Chiara Ferragni, ma di turbopaolo. Carina la villa sul Lago di Como, ma quanto fa ridere il video “POV: sono l’Epiglottide”. Non è la fine dell’influencer marketing: è soltanto una nuova epoca, quella del #deinfluencing.
Historiae de-influencing: le origini
Seguendo la campagna elettorale di Kamala Harris, sono rimasto sorpreso dal “Gen Z marketing” – coconut tree, Brat core e meme – e dall’uso, tanto innovativo quanto capillare, dei social – qui ne trovate un’analisi approfondita. Soltanto su Meta, i democratici, rispetto ai repubblicani, hanno speso più del quadruplo in digital ads. Ciononostante, hanno perso. Perché? Oltre alla mancanza di tempo, secondo alcuni sondaggisti è in parte colpa delle celebrities e del dualismo lusso-autenticità.
Taylor Swift, Lady Gaga, Rober De Niro, Scarlett Johansson, Madonna, Leonardo Di Caprio sono soltanto alcuni dei vip che hanno appoggiato Harris. «La sinistra è vissuta come un’élite». Non lo dico io, ma il più illuminato fra i politologi, Maurizio Crozza: «Ognuno di loro possiede solo il pil della Costa d’Avorio». Invece di spostare voti, gli “ininfluencer”, scrive Paolo Giordano, hanno «aumentato la distanza tra gli elettori e la candidata, quasi che lei fosse la “prescelta” della casta e non l’eletta del popolo». Questo è il punto più a Nord del deinfluencing, ma la sua origine risale all’inizio del 2023.
L’hashtag #deinfluencing ha iniziato a diffondersi in America, prima su TikTok, poi sugli altri social, come trend anticonsumistico nel lifestyle e nel beauty. Con una For You Page intasata di make-up routine ASMR, test di prodotti con reaction, titoli clickbait e unboxing più o meno sponsorizzati, alcuni creator, assecondando la stanchezza del pubblico – oltre che la propria – si sono mossi in direzione opposta – guadagnando milioni di visualizzazioni e migliaia di seguaci in poco tempo.
La differenza fra “creator” e “influencer” non è una banalità lessicale: sono due termini specifici. Il #deinfluencing denuncia quei prodotti scam, truffa, che non valgono la spesa. Invece di dirvi cosa acquistare, gli influencer buoni – o, meglio, i creator – vi dicono cosa evitare. È una questione sia economica, sia etica. Non comprate: le Stanley Cup, diventate virali nel 2023 dopo il video della macchina incendiata, le AirPods Max, i libri di Colleen Hoover. Perfino il mio video più visto – circa 125 mila views con oltre 400 commenti – è dedicato alle “Cinque categorie di libri che non compro a priori”.
@gianfrancosardinaschi Non mi avrete MAI 😤 #booktokitalia #foryoupage #booktok ♬ original sound – Nintendo
Perché il de-influencing?
Dopo il flop del sedici, nemmeno indebitarsi per un iPhone ha più senso! Tantopiù con l’inflazione così alta. E la crisi immobiliare. E i rincari gas e luce. In questo contesto economico, però, nemmeno il fast fashion o il fast make up – perché sì, esiste – sono opzioni. Oltre alla questione ambientale, ogni giorno escono nuovi documentari, inchieste, notizie sulle condizioni di lavoro in Shein, Zara, H&M, Primark, eccetera. Perché, quindi, continuare a comprare in maniera compulsiva? Forse, Marx, la crisi del capitalismo non se la immaginava così, come un trend. L’underconsumption e il de-influencing, però, sono sempre più diffusi, tanto all’estero quanto in Italia.
Il 44% della Generazione Z dice che lo stile di vita dei ricchi influencer in tempi di crisi li fa addirittura arrabbiare. A ben guardare, il mito della vita patinata, veloce e sempre al top è quasi estemporaneo. Gli italiani preferiscono il quiet living, con ritmi di vita dilatati. Il consumismo passa in secondo piano rispetto al benessere personale e gli acquisti vengono ricalibrati secondo le nuove priorità.
Se, infatti, per la maggior parte degli italiani il lusso non è più accessibile – gli unici a non conoscere crisi sono i super ricchi – è vero anche che l’essenzialità, l’autenticità, la semplicità diventano virtù fondamentali. Aumentano gli spostamenti sostenibili, le riparazioni di oggetti, gli acquisti vintage. La volontà di fare esperienze, di maturare e di conoscere prevale sugli status symbol e sul possesso – ecco spiegato l’#antihaul contro il “TikTok made me buy it”.
In parte è bisogno – le spese obbligatorie, gli stipendi bassi, i ritmi frenetici del lavoro – in parte è scelta. Forse, ci si sta avvicinando alla “nuova società” teorizzata da Erich Fromm, famoso hater di Taylor Swift nonché l’eminenza dietro i tracciamenti dei suoi voli privati.
In Avere o essere Fromm descrive due modalità esistenziali: una dell’avere e una dell’essere. Nella prima si comprano “sostegni dell’io”: le Air Pods Max, gli Ugg mini e perfino l’iPhone 16. In questa società “io sono ciò che ho”, io sono tanto più quanto più ho. La seconda modalità si rivolge alla vera natura di sé stessi e degli oggetti o, per dirla con Marx, si scopre la consapevolezza della propria miseria.
Il de-influencing italiano: un excursus
Non esiste soltanto il noioso contesto socioeconomico. Esiste una genealogia social del de-influencing italiano che affonda le radici nei tabù del Paese – quello dei soldi e dei giovani che fanno soldi. Se anche voi siete cresciuti come iPad kid ricorderete il trauma, il passaggio all’età adulta: da Minecraft alla frode fiscale. Youtube, «un luogo protettivo dove», citando gli Offlaga Disco Pax, «i miei amichetti conobbero le droghe pesanti senza passare dal via».
Nel 2017, le dichiarazioni dei redditi di Surreal Power e di St3pny hanno portato ad alcuni accertamenti, rispettivamente da parte dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza. A Surry è andata bene, St3pny si è trovato in una shitstorm nazionale. Se già gli influencer non godevano di buona fama fra le vecchie generazioni, nel 2023 gli Z, almeno in parte, hanno dato ragione ai Boomer. Non capitava dall’introduzione dello Spid – per far capire la gravità del cambiamento.
A giugno l’incidente di Casal Palocco dei TheBorderline, poi il Pandoro Gate. Lamborghini contro Smart, Ferragnez contro non profit, “loro” contro “noi”. Il pil della Costa d’Avorio. Gli ininfluencer.
Quest’anno le accuse di evasione a carico degli influencer si sono moltiplicate. Gli youtuber/streamer Zano, Homyatol, MikeShowSha, Pow3r, Luis Sal; le star di Onlyfans Giulia Ottorini, Eleonora Bertoli, Mady Gio – finita perfino a Le Iene; per fortuna Giorgia Malerba, almeno lei, che è cresciuta su TikTok grazie ai video con Bruno, la sua capretta, si è salvata. Ah no. Naturalmente, la maggior parte delle accuse cadranno nel dimenticatoio o si riveleranno infondate – se già non si sono rivelate tali – ma il dato rilevante rimane quello della generale perdita di fiducia, non solo fra le vecchie generazioni, ma, inevitabilmente, anche in quelle giovani.
Gianni Vattimo, sul declino della metafisica, scrive che non esiste riappropriazione senza liberazione dell’essere dal carattere della stabilità-presenzialità. Chiara, dopo un auto esilio, è sì tornata su Instagram – e su TikTok – ma limitando i commenti sotto i propri post – non che sia servito a un granché. I TheBorderline, invece, si sono “ritirati” da YouTube – il canale è ancora attivo, così i potenziali ricavi. Chiamatelo, se volete, silenzio stampa, ma la “stabilità-presenzialità” dei mega influencer non è più altrettanto forte.
Etica social del de-influencing
Anni fa, quando guardavo i video di Surry e di St3pny su Minecraft, giocavo anche a Call of Duty. Né Xbox né Playstation avevano un sistema efficace di censura o di punizione: ciò che veniva detto in chat o per messaggio era tossico perfino per il dark web – come direbbe turbopaolo. Oggi il livello di sicurezza si è alzato molto. Qualcosa di simile, grazie al de-influencing, sta accadendo sui social.
Anche Heidegger, dalla profondità della Foresta Nera, ha dato il suo contributo a “deinfluenzare”, non con un libro, ma commentando i post dei Ferragnez: «Nn vi vergonate a motrare i vstri figli!!😡». Perché Fedez e Chiara non mostrassero più i volti di Leone e Vittoria è servita la separazione. Questo fenomeno di sovraesposizione infantile da parte di genitori o parenti è detto oversharenting – superlativo del più comune sharenting – e il de-influencing si preoccupa di denunciarlo.
Per fortuna le tracce digitali di Leone e Vittoria non sono compromettenti, almeno loro non sembrano ostaggi in un TikTok il cui commento con più like, 47 mila, è: «Please seek therapy. This is disgusting». Le boy moms sono diventate virali per la loro incestuosità emotiva. Il tono con cui parlano del loro “baby boy” è romantico. Sono clingy, invadenti, appiccicose e trattano i propri figli come uomini – o mariti – in miniatura, con tutte le conseguenze psicologiche del caso.
Sfera Ebbasta, parlando della vita nei quartieri popolari, in Quindici piani canta: «dalle mie parti sono già grandi a quindici anni». Purtroppo per lui, questa cosa non è molto trap e non fa tanto gang perché le tweens sono adulte a dodici anni. Un articolo del New Yorker lo spiega bene ma, in sintesi, le bambine e le pre-adolscenti fra i nove e i tredici anni della Generazione Alpha impazziscono per i prodotti di beauty, per quelli costosi in particolare. Sono i #sephorakids che, essendo sulle stesse piattaforme social degli influencer adulti di skin-care e make-up, ne imitano i comportamenti – accodandosi al fast make up che il de-influencing disincentiva.
Sephora e Drunk Elephant, riconosciuto il trend, ne hanno approfittato per lanciare linee di skin-care per bambini. Tuttavia, come osserva Vanity Fair, questa tendenza è «sfuggita di mano a genitori e marchi cosmetici, perché gli stessi brand assoldano influencer della tenera età di sei anni». Vlog d’acquisto, dopo unboxing, dopo #grwm, alcune bambine sono diventate influencer gestite dai genitori-manager: “stolen childhoods”.
Non è de-influencing tutto ciò che luccica
Se è vero che gli italiani sono più interessati a contenuti che offrono un valore reale, dalle risate ai consigli, è vero anche che Alessia Lanza, Yasmin Barbieri ed Emily Pallini continuano a macinare numeri su tutti i social facendo lip-sync – nonostante anche i loro hater siano cresciuti a vista d’occhio.
Come la protagonista di The Substance, la moderna Dorian Gray, anche il de-influencing ha un lato nascosto e mimetico. «Ciò che è iniziato come un onesto movimento dal basso nei confronti del nostro consumismo collettivo», dice un articolo su Dazed, «è stato cooptato dagli influencer per promuovere ancora più prodotti». Ciò che alcuni influencer fanno è sconsigliare alcuni prodotti per poi suggerirne altri: «la maggior parte dei “deinfluencer” […] sono in realtà lupi travestiti da pecore». Per influenzare deinfluenzando esistono, però, anche tecniche di più raffinate.
Esperance, nell’Australia occidentale, è una delle località più turistiche del pianeta. Per attrarre ancora più visitatori, nel 2023 è stata lanciata una campagna che interseca il de-influencing e la maggiore ricerca di viaggi unici e originali e di disconnessione: Esperance. The Unfluencers. In poche parole, riassume Campaign: «se non ti va di essere un influencer, allora deinfluenza per influenzare». Da veneziano posso dire anche io, come l’articolo, che «c’è da essere scettici circa la sincerità del messaggio».
Che futuro per l’influencer marketing nel 2025?
Heidegger, oltre a commentare i Ferragnez, parla di “epoca delle immagini del mondo” per definire la modernità. Vattimo, scrivendo dei media, sostiene che oggi per noi la realtà è il contaminarsi reciproco di questa molteplicità di immagini. Con le metafisiche celebrità social indebolite, il nuovo paradigma dell’influencer marketing è determinato dalla pluralità dei piccoli creator, dalle loro nicchie, dal loro pubblico fidelizzato.
Se mi sono spiegato male, potete chiedere a Edoardo Prati, se non è a Che tempo che fa. Potreste rivolgervi anche a turbopaolo, ma non so quanto possa aiutarvi l’imitazione di Spotify quando cerca di proporre nuova musica – però fa molto ridere. Entrambi, comunque, riflettono i nuovi interessi di moltissimi utenti social. Non più, come si diceva, le giornate perfette delle celebrities, ma cultura (51%), informazione (36%) e contenuti ironici (26%).
In alternativa, comprate un social, chiedete ai vostri ingegneri di boostare del 100% i vostri post cambiando algoritmo e spreaddate fake news come se non ci fosse un domani. E, già che ci siete, bannate Erich Fromm. Come osa tracciare i vostri spostamenti in jet! “😡😡” – cit. Heidegger.