Marco Magnone non è solo uno scrittore, è una sorta di cartografo dell’immaginazione, un esploratore di quei mondi sospesi tra la realtà e il possibile che solo la narrativa per ragazzi riesce a raccontare. Le sue storie, da Berlin, scritta a quattro mani con Fabio Geda, ai suoi romanzi più recenti come Noi siamo fuoco, hanno accompagnato migliaia di giovani lettori attraverso emozioni profonde, dilemmi universali e avventure mozzafiato. Non c’è da stupirsi che Marco sia diventato una delle voci più influenti e amate della letteratura per ragazzi.
Ma come si costruisce un mondo senza adulti? E come si raccontano temi complessi come l’identità, la paura e il futuro senza perdere il contatto con la leggerezza e la magia che caratterizzano l’adolescenza? Marco sembra avere un talento naturale per bilanciare queste sfide. Che sia con la sua scrittura, con il suo insegnamento alla Scuola Holden o all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, o ancora nei suoi innumerevoli incontri con studenti e lettori, il suo approccio è sempre quello di un narratore che non offre risposte preconfezionate ma pone domande che risuonano nel cuore di chi legge.
La sua passione per le storie nasce da lontano, da quando, bambino, ha scoperto che con la scrittura poteva diventare un cavaliere dello zodiaco, o almeno raccontare di esserlo. Da lì, un percorso fatto di fantasia, studio e una buona dose di ostinazione lo ha portato a lavorare nell’editoria, incontrare mentori come Fabio Geda e infine a diventare lui stesso un punto di riferimento per chi cerca di orientarsi nel complesso e affascinante universo della narrativa per ragazzi.
In un’intervista passata hai detto che il tuo primo sogno era diventare un cavaliere dello zodiaco. Se potessi tornare dal Marco di dieci anni con il tuo curriculum attuale, cosa gli diresti per convincerlo che scrivere storie è meglio che combattere armature dorate? E pensi che ti crederebbe?
Se anche provassi a convincerlo, il Marco di dieci anni, non credo mi crederebbe. Anche perché all’epoca ero convinto che scrivere storie era una cosa da vecchi, anzi, pensavo che per diventare scrittore prima dovevi essere morto. Da dove veniva quell’idea? Dai libri che leggevo, grandi classici, scritti però da gente sepolta da tempo: Agatha Christie, Arthur Conan Doyle, Jack London ecc. Il fermento che c’è oggi nella letteratura per bambini e ragazzi, all’epoca era un sogno. C’erano alcune voci fondamentali, certo, come Roberto Piumini o Bianca Pitzorno, ma niente di paragonabile alla varietà di adesso.
Se devo essere sincero però ancora adesso non sono del tutto convinto che sia meglio fare lo scrittore anziché il Cavaliere dello Zodiaco… vuoi mettere affrontare i Cavalieri d’Oro delle Dodici Case dello Zodiaco, o quelli di Asgard? Il vantaggio degli scrittori è che hai una vita meno cruenta (e ci vuole poco), ma soprattutto che ogni giorno puoi essere – diventare – quello che vuoi, senza limiti o costrizioni.
E questa sarebbe una lezione preziosissima per tutti, per ricordarci che niente è scritto per sempre, né nelle storie, né nel mondo reale. Mentre purtroppo troppo spesso incontro ragazzi che rinunciano al proprio sogno ancora prima di provarci davvero, solo perché magari non è conforme alle aspettative di chi gli sta attorno, o perché vivere una vita normale, come quella di tutti, è più sicuro. E magari sarà anche vero, ma ci siamo mai chiesti se quella vita “come quella di tutti” è anche la tua?
Stephen King dice che ciò che ci spaventa da ragazzi ci spaventa per sempre. Qual è il personaggio o il mostro che ti ha fatto più paura da piccolo?
Sono cresciuto nelle campagne vicino ad Asti, una zona di colline e boschi che per un bambino sembravano non avere fine. E da bambino nel bosco spesso ci andavo con i miei genitori e i nonni a cercare i funghi o raccogliere le castagne. Nonostante fossi abituato a quegli alberi fitti, che non facevano filtrare la luce del sole, e a tutti i rumori del sottobosco, dietro ogni tronco avevo paura di incontrare anch’io un lupo come quello di Cappuccetto Rosso. Così, al minimo scricchiolio un brivido di freddo mi risaliva lungo la schiena e, anche se non dicevo nulla, ogni volta quando uscivamo dal bosco e tornavamo al sole dei campi, ero il bambino più felice del mondo.
Anche da più grande, ci sono voluti anni per togliermi dalla testa l’idea del lupo come il Grande Cattivo per Eccellenza, che mi era entrata nella testa attraverso tutte le storie che – povero lupo – lo raccontavano sempre e solo così.
Le storie servono a porre domande, non a dare risposte. Qual è una domanda che un tuo giovane lettore ti ha fatto e che ti ha messo davvero in difficoltà?
“Perché nelle storie non ci sono più personaggi come me?” Mi sono sentito porre questa domanda da un giovane detenuto durante un incontro nel carcere minorile Ferrante Aporti di Torino.
Quel ragazzo aveva letto un mio romanzo (Barriera, scritto a quattro mani con Manlio Castagna), e per la prima volta gli era capitato di riconoscersi nelle fragilità, negli errori, nei sogni e nelle paure di uno dei protagonisti. Mentre fino a quel momento aveva pensato che, per quelli come lui – che si trovano dalla parte sbagliata delle cose – non ci fosse spazio nemmeno nelle storie.
Ed è una domanda a cui, onestamente, penso sia difficile rispondere. Credo però abbia a che fare col fatto che è più facile raccontare storie dal punto di vista di chi ce la fa, di chi vince. O anche solo di chi si redime, di chi si riscatta. È un modo per dare un senso alla nostra vita. Mentre ammettere che a volte questo senso non c’è, è difficile, e doloroso. Non ci sono consolazioni.
Scrivere per ragazzi richiede immaginazione, empatia e, probabilmente, una certa dose di caffeina. Quali sono le cose di cui non puoi fare a meno quando lavori a un nuovo romanzo?
Di sicuro la caffeina non può mancare, ma ci sono altre tre cose per me assolutamente necessarie!
La prima è una postazione tranquilla, comoda, con una bella luce, in cui possa sentirmi completamente a mio agio. E ci sono principalmente due luoghi che corrispondono a queste caratteristiche: il soggiorno di casa, davanti alla finestra, e la mia scrivania nell’ufficio di Book on a Tree, dove posso confrontare le mie idee con quelle di Pierdomenico Baccalario e degli altri scrittori e amici che ci vengono a trovare.
La seconda cosa che non può mancare è una buona colonna sonora: non so scrivere senza musica, ogni volta che scrivo scelgo con cura la playlist in modo che mi dia l’atmosfera, il ritmo della storia a cui sto lavorando o della singola scena. I miei generi preferiti in questo senso sono il rock postindustriale o l’elettronica, mentre gli artisti che sento di più i Sonic Youth, i Mogwai, Kalkbrenner, gli Apparat, ma anche i Linkin Park, gli Smiths o Billie Eilish.
L’ultimo ingrediente imprescindibile sono altri libri, che scelgo perché sento che hanno qualcosa che risuona con la storia con cui sono alle prese, e che può riguardare la voce, il genere, l’atmosfera, un personaggio. Me li tengo sulla scrivania, e prima di mettermi a scrivere ne rileggo delle parti. È il mio rituale per riscaldarmi prima di scendere in campo!
Hai scritto di virus, distopie, adolescenti senza adulti. Cosa c’è nella lista delle idee per saghe future che non hai ancora avuto il coraggio di scrivere?
Di recente con Noi siamo fuoco ho affrontato il romance, ed è stata una bella sfida perché in un genere in cui vanno per la maggiore i punti di vista femminili ho raccontato una storia con una voce maschile che non ha paura di mostrare le sue fragilità, le paure di non essere all’altezza della ragazza di cui si innamora.
Il prossimo passo potrebbe essere il fantastico. Non tanto l’hard fantasy, per cui non mi sento ancora pronto – anche perché lo confesso, non sono mai stato un grande lettore delle super saghe fantasy. Quello che mi affascina è più il realismo magico, quei mondi in apparenza molto simili al nostro, ma con un elemento magico-sovrannaturale pronto a scardinare ogni certezza. Sia dei protagonisti che dei lettori.
La narrativa per ragazzi spesso viene etichettata (ingiustamente) come più vicina a un genere o all’altro. Nei tuoi libri, pensi mai al “lettore ideale” e al suo genere? E, a tuo avviso, le storie che raccontiamo hanno davvero un genere, o sono stereotipi culturali?
Premetto una cosa: ho scritto storie distopiche e gialli, romanzi storici e d’avventura, d’amore e di guerra. Ma quello che le accomuna tutte è mettere in scena dei protagonisti alle prese con le sfide dell’adolescenza. Ecco, dovessi identificare un mio genere, credo sia proprio il coming of age, il racconto di cosa può significare crescere, declinato ogni volta in modo diverso. Quindi per ogni mio libro mi costruisco nella testa un lettore ideale diverso, accordandolo con le caratteristiche di quella determinata storia. Questo perché penso che anche nella letteratura per ragazzi – esattamente come in quella per adulti – non ci sia niente di male a parlare di gialli, fantasy, romance eccetera.
E questo nulla toglie al fatto che una buona storia resta una buona storia al di là del genere. Anzi, sono proprio le storie migliori quelle in grado di valicare i confini del genere a cui appartengono, per parlare a nuovi lettori. Di certo Harry Potter, Il Signore degli Anelli sono entrate nell’immaginario di tutti, e non sono in quello dei fan del fantasy, proprio per questo. Perché sono grandi storie, al di là delle etichette.
Ultima domanda bruciapelo: ma questa nuova Generazione Alpha è davvero migliore di tutte le altre precedenti? Di noi Millennial?
Posso essere sincero sincero? Non ne ho proprio idea!
Anche perché credo non ci sia una risposta unica, dal momento che per molti aspetti ogni generazione è sempre migliore delle precedenti, anche solo per le migliori condizioni di vita di cui può godere – almeno per quanto riguarda la parte di mondo più fortunata in cui viviamo. Però c’è anche dell’altro. Per esempio ogni nuova generazione si sente dire dalle precedenti che loro erano meglio, era migliore la musica che ascoltavano, erano più vere le relazioni. Come si spiega questa cosa? Secondo me col fatto che gli adulti – se fossero onesti – ammetterebbero di non aver davvero nostalgia del mondo com’era quando erano giovani loro. Ma di avere nostalgia della loro gioventù. Ecco perché non voglio unirmi al coro di chi critica le nuove generazioni per esempio per l’eccessivo utilizzo dei social: una vera educazione digitale sarebbe necessaria, certo, ma per tutti, visto che noi adulti non mi pare ne siamo meno dipendenti.
E poi sono convinto che ci siano bisogni, istanze, aspirazioni, che non cambiano da una generazione all’altra, quello che cambia sono semplicemente i mezzi tecnologici a disposizione per sfogarli.
Forse, un giudizio meno di parte sarà possibile tra un po’ di tempo, quando ci sarà quel minimo di prospettiva necessaria a valutare le cose nel loro complesso. Oggi penso che siamo ancora troppo vicini per esprimere un’opinione definitiva. Che poi, come narratore, è la cosa che preferisco fare: raccontare storie, lasciando agli altri il giudizio.