Scuro Chiaro

Quella che segue è una storia amara, profonda e complicata, come i più esemplari libri noir. Persone e fatti, però, non sono frutto di fantasia, e qualora qualcosa non fosse riferito a cose o fatti realmente accaduti, me ne scuso.

Il 5 ottobre 1970 nelle edicole di tutto l’occidente un coro di titoli di giornale strilla una notizia del giorno precedente: è morta la regina del blues. Voce sguaiata ma virtuosissima, un passato doloroso, la dipendenza dall’eroina: Janis Joplin è la cantante che ha firmato Maybe, Piece Of My Heart, Cry Baby. Il 4 ottobre 1970 non aveva ancora compiuto i 28 anni.

Non è la prima a morire giovane nel giro di pochissimi mesi e non sarà l’ultima. Da meno di trenta giorni è venuto a mancare Jimi Hendrix, Brian Jones è spirato neanche un anno fa, e Jim Morrison poco prima. Per ironia della sorte questi quattro hanno trovato la morte tutti alla stessa età. A fargli compagnia nel club dei 27, un gruppo di artisti tutti morti ventisettenni da fine anni ’60 a oggi, arriveranno anche Amy Winehouse, Kurt Cobain, Jean-Michel Basquiat; ma se aprissimo la cerchia a tutte le celebrità morte prima dei trenta dovremmo aggiungere ben più di un posto a tavola.

Solo un pessimo investigatore mancherebbe di notare che da quel periodo – fine anni Sessanta inizio Settanta – la morte precoce è un’ospite ricorrente di molte hall of fame. Queste storie possono non stupirci, il travaglio dell’artista è un cliché sin dal diciannovesimo secolo. Ma, proprio come nei polizieschi più classici, anche in questa storia compare qualcuno che non ha attribuito al caso questa sequenza di morti.

Il Secolo Breve

É il 1991, sono passati vent’anni dall’ultimo giorno di Janis Joplin. In mezzo ai boschi e agli stagni del quartiere Hampstead, a Londra, c’è una casa che esibisce un largo repertorio di libri, dischi, e ricordi da Russia e Italia. Non si tratta di un arredamento così insolito da queste parti, abitate da professori universitari, artisti e intellettuali; ma l’uomo cui appartiene questa casa, lui sì, si è distinto, e si distinguerà ancora.

Si tratta di Erik John Ernest Hobsbawm. Venuto al mondo nel 1917 da genitori austriaci, ha perso il padre nel ’29 e di lì a poco è seguita la madre. Così si è trovato costretto a trasferirsi da una zia di Londra. Possiamo dire che non gli sia andata poi così male considerato che per lui, ebreo, l’Austria degli anni Trenta non avrebbe offerto grandi prospettive.

Dopo la laurea a Cambridge si è guadagnato un posto nel partito comunista inglese, che non ha mai abbandonato nonostante la consapevolezza di essere spiato per questioni di sicurezza nazionale.

Hobsbawm è già acclamato come uno degli storici più autorevoli del Novecento, ma in questo momento ha in mano la penna che scriverà le prime parole del suo saggio più brillante. Il Secolo Breve. L’intento è raccontare e analizzare le vicende storiche che hanno attraversato il mondo dal 1914 a ora, in un arco temporale che coincide quasi perfettamente con quello della sua vita.

Giunto alla soglia degli ottant’anni, Hobsbawm sta ripercorrendo gli eventi che sono stati lo sfondo della sua esistenza. Nonostante abbia già dato alle stampe ben più di un libro, ha un timore: riuscirà a essere imparziale? Nella prefazione mette le mai avanti, e scrive: Nessuno può scrivere la storia del ventesimo secolo allo stesso modo in cui scriverebbe la storia di qualunque altra epoca, se non altro perché non si può raccontare l’età della propria vita allo stesso modo in cui si può (e si deve) scrivere la storia di periodi conosciuti solo dall’esterno […] L’arco della mia vita coincide quasi interamente con il periodo di cui tratta questo libro […] vale a dire ho accumulato opinioni e pregiudizi che derivano dalla mia condizione di contemporaneo più che da quella di studioso.

Nel libro dedica anche un capitolo agli anni Sessanta e, en passant, accenna anche alla questione che ci interessa parlando di una figura che, per l’eco suscitata, non ha forse precedenti dopo l’età del romanticismo nel Ottocento: l’eroe la cui esistenza finiva al termine della giovinezza.

[…] Ciò che rese simboliche quelle morti fu che la gioventù, che quegli idoli rappresentavano, era fuggevole per definizione.

[…] Buddy Holly, Janis Joplin, Brian Jones dei Rolling Stones, Bob Marley, Jimi Hendrix e una serie di altre divinità popolari caddero vittime di uno stile di vita che era fatto apposta per una morte precoce.

Per spiegarci quest’ultima affermazione, da qui in poi nominata La Farse per ragioni di comodità, è necessario fare un passo indietro e poi andare ancora più indietro e poi ancora… ma procedere così, a ritroso, sarebbe poco pratico, me ne rendo conto. Cominciamo dal principio.

Una primavera anomala

Siamo in marzo, da poco è iniziata una primavera che è destinata a diventare, almeno in senso figurato, una tra le più calde in cui la Francia si sia mai imbattuta. L’anno infatti è di quelli che la Storia ricorda come simboli, ideali, personaggi. É il 1968.

Il caldo è soffocante soprattutto tra le migliaia di studenti che affollano la succursale della Sorbona, l’università di Parigi. Si tratta di un parallelepipedo di metallo e cemento in zona Nanterre, estrema periferia della città; nulla a che vedere con l’edificio gotico-rinascimentale in pieno centro storico che ospita la sede primaria dell’ateneo.

Per secoli – dal 1253 – la vecchia Sorbona è bastata e avanzata per ospitare le poche decine di ricchissimi che potevano permettersi un’istruzione universitaria. A metà anni cinquanta, però, il boom economico ha iniziato a gonfiare le tasche dei francesi, permettendo a milioni di famiglie di investire in una formazione universitaria in grado di assicurare ai propri figli un futuro migliore del loro presente. Il numero di iscrizioni è lievitato a velocità tale che già a inizio anni Sessanta pareva ridicolo svolgere lezioni ed esami nella sede storica, bellissima ma piuttosto piccola.

Dunque ecco sorgere il polo di Nanterre. A frequentare il nuovo palazzo sono soprattutto giovani borghesi, altri appartengono al ceto medio e c’è addirittura, novità delle novità, qualche  figlio della classe operaia. Provengono da contesti diversi ma si comprendono piuttosto bene, condividono un sentimento: sono insoddisfatti. Non solo – e non tanto – del palazzo di Nanterre, ma dei professori, dei genitori, dei parenti, i politici e tutto Il Sistema. La società adulta pretende di dirgli come vestire; quali tagli di capelli portare e quali no; che vita fare; con chi, quanto e dove fare sesso; di sposarsi e non consumare droghe. Di adeguarsi a un ordine di cose, appunto a un Sistema, creato per soddisfare la fame del capitalismo e non per permettergli di vivere felci.

Oggi ci viene facile comprendere che quelle regole – il matrimonio, la morale sessuale ecc. ecc. – erano figlie di un’epoca che non conosceva ancora la tecnologia quasi mistica che aveva sconvolto l’umanità negli anni Sessanta. Avevano avuto significato in un mondo che i diciottenni degli anni Sessanta erano la prima generazione a non aver conosciuto.

Del Sistemafa parte – e che parte – anche l’ordine politico che ha regolato il mondo fino a quel momento. I ragazzi ripudiano l’adesione del loro paese al blocco capitalista, ma non si riconoscono neppure nell’altro lato della cortina di ferro, corrotto e non più fedele ai propri ideali.

Gli idoli di queste masse sono i nuovi rivoluzionari comunisti del terzo mondo: ovviamente Mao Tse Tung, comunista cinese nonché leader di uno dei primi rami del partito apertamente ostili all’URSS, ma ancora di più ammirano un tale Ernesto Guevara. Salito alla ribalta col nome di battaglia di Che, Guevara era – è morto pochi mesi fa, nel ’67 – un guerrigliero poco più che trentenne. Sotto l’egida di Fidel Castro, un avvocato molto attivo in politica, ha rovesciato il dittatore di Cuba per instaurare una rivoluzione comunista.

Si respira quest’aria tra i corridoi di Nanterre. I tempi devono ancora maturare perché i leader mondiali ne possano avvertire l’odore, ma quello che forse avrebbe già dovuto dimostrare un fiuto migliore è il presidente della repubblica francese, Charles De Gaulle.

Un uomo di guerra

I giovani ce l’hanno soprattutto con lui. Nato nel 1890, De Gaulle è entrato nell’esercito Francese nel 1912, durante la prima guerra Mondiale è stato tenetene e croce al valor militare. Era generale di brigata allorché, nel ’40, i tedeschi hanno invaso parte della Francia. Si è opposto strenuamente all’armistizio, ma ha fallito. La repubblica di Vichy lo ha condannato a morte e lui è scappato nel Regno Unito. Qui si è appoggiato alle frequenze di Radio Londra per diffondere su tutta la Francia incitazioni ad insorgere contro gli invasori e la repubblica collaborazionista. Sono stati tre anni, fino al ’44, quando è sbarcato ad Algeri e ha fondato il Comitato di Liberazione, che gli alleati hanno messo alla guida della Francia liberata.

De Gaulle è un uomo forte come quelli che emergono nei momenti più disperati, ma secondo gli studenti ha fatto il suo tempo. A detta dei sorboniani – e su questo hanno probabilmente hanno ragione – il generale è un uomo di guerra e non di pace. Gli rimproverano l’appoggio agli statunitensi in Vietnam, e di aver represso le ribellioni per l’indipendenza dell’Algeria, comportamenti in cui vedono colonialismo e oppressione da parte di un paese che vorrebbero modello di libertà.

De Gaulle, dal canto suo, non valuta positivamente l’incremento della popolazione studentesca. A suo parere, invece che formare schiere di studenti, bisognerebbe concentrare le risorse per assicurare a pochi una preparazione di eccellenza, che si rifletterebbe in una classe dirigente molto preparata. È in questo spirito che viene varato il piano Fouchet, una riforma che dovrebbe inserire un esame di ingresso per la Sorbona.

Carnevale

La prima tessera del domino cade il 4 maggio. A Nanterre si sta manifestando contro la riforma studentesca e la guerra in Vietnam, la polizia si oppone e arresta diversi manifestanti. Per tutta risposta gli studenti si organizzano: in 300 bloccano gli ingressi del palazzo e si danno il cambio in un presidio per mantenere l’occupazione dell’università. L’ amministrazione è spiazzata. Non riesce a elaborare reazione migliore di quella che farà deflagrare ulteriormente gli eventi, chiudere l’università fino a quando l’occupazione non sarà rientrata.

Gli studenti si risentono, desiderano un’università che accolga la critica, che insegni a mettere in discussine il mondo e non a piegare la testa al Sistema. Portano la manifestazione fino al quartiere latino, occupano la sede storica e il teatro Odeon. Sulla facciata del teatro viene issato uno striscione: “l’Odeon è aperto”. Per giorni sui palchi delle varie sale si tengono confronti che vedono dialogare i personaggi più vari, casalinghe e manager industriali, studenti, operai, conduttori televisivi. Nel frattempo alla Sorbona è iniziata quella che Edgar Morin chiamerà una comune studentesca.

Per qualche giorno l’ateneo diventa l’incarnazione del paradiso che i ragazzi del ’68 hanno visto nei loro sogni. Un posto in per l’individuo vige la libertà di fare tutto ciò che non limiti le libertà altrui.Imperativo vivere il momento, godere del presente, del piacere della rivoluzione – nonché della droga. I muri dell’università fioriscono della forma di comunicazione che il marketing ha insegnato ai ragazzi: i motti.

Consumate di più, vivrete di meno.

Abbasso i professori.

Non fidarti mai di nessuno che abbia più di 35 anni.

Solo l’individuo deve esistere.

Abbasso i professori.

Ma soprattutto quello che diverrà l’icona del maggio francese: proibito proibire.

Pochi giorni dopo il tumulto interesserà anche gli operai. La fabbrica della Renault vede gli stessi eventi che hanno interessato prima Nanterre e poi la Sorbona e l’Odeon. Ancora pochi giorni e scioperi, manifestazioni, e occupazioni invadono tutto il paese. La Francia è paralizzata.

De Gaulle, dal canto suo, schernisce pubblicamente queste manifestazioni. A suo avviso si tratta di un Charnevalier, una carnevalata, ma per risolvere la questione e far tornare il paese alla normalità indice un referendum: i francesi sono chiamati a esprimersi sulla sua presidenza, se vincerà il No il generale darà le dimissioni.

Il referendum conferma la presidenza, ma gli eventi del maggio francese hanno avuto effetti che vanno ben oltre un referendum e la stesa Francia. Qualcosa di grosso sta cambiando. É inizia una stagione di ribellione, goduria e indisciplinatezza che prenderà il nome di Lunga Estate Dell’Amore. Un periodo storico che culminerà in un concerto che è tutt’oggi il biglietto da visita della cultura hippie: Woodstock 1968.

Ed è qua, sul palco di Woodstock, che viene annunciata, tra le altre, l’esibizione di una ragazza texana la cui voce negli ultimi anni ha conquistato una moltitudine di cuori e orecchie. Un’icone. La regina del blues.

Maiale storpio

1943, la sorte fa a Janis Lyn Joplin il regalo di venire al mondo in un’anonima cittadina che in seguito descriverà come la mia prigione natale. Il posto non ha molto da offrire oltre a diversi impianti di estrazione del petrolio e un nucleo piuttosto attivo del Ku Klux Klan. Tanto basta, però, per assicurare un’infanzia complicata a una bambina innamorata della musica nera di Otis Redding e Aretha Franklin, e, in seguito, un’adolescenza infernale a una ragazza di opinioni molto chiare riguardo ai diritti civili.

Non è tutto. Oltre che – per così dire – nordista, Janis è in carne e soffre di acne. Questo gli vale il consueto patrimonio di prese in giro e umiliazioni, elargite con creatività dal gregge della gioventù texana: è oggetto di lanci di monetine, soprannominata maiale storpio, e infine eletta uomo più brutto delle sue scuole superiori.

Janis si è appena diplomata quando la vita decide di farsi perdonare e le dà l’occasione di  trasferirsi a Beaumont per frequentare l’università. Non c’è bisogno di farselo ripetere: a soli vent’anni Janis va via di casa. Mentre porta avanti gli studi insegue il sogno di diventare cantante blues: esibisce la sua voce ruvida – roca ma dolcissima – nei locali notturni della zona, e proprio in uno di questi fa le due conoscenze più importanti della sua vita: l’eroina e Chet Helms.

La prima è il demone con cui stringe un patto mortale. Il secondo la presenta ai Big Brother & The Holding Company, un gruppo nato da poco e ancora alla ricerca di una voce femminile. L’incontro è un successo e presto le nozze vengono suggellate dall’invito al Monterey Pop Festival.

Bob Dylan, Simon & Garfunkel, Jimi Henrix. Più di 200 mila persone accorrono nella cittadina di Monterey per quello che, più che un festival, è una preghiera dinnanzi all’olimpo della musica pop. Celebrazione del rock n’ roll, degli acidi, della libertà sessuale e di costumi che inebrieranno gli anni a venire e si manifesteranno nel palazzo di Nanterre, alla Sorbona, all’Odeon, e da qua sbarcheranno nelle tende degli hippie a Woodstock, e poi tra i giovani di tutta l’Europa, prima, e di tutto l’occidente poi.

Un gruppo qualsiasi probabilmente non reggerebbe la tensione di esibirsi su questo palco, o,  anche ammesso ci riesca, la sua performance verrebbe inesorabilmente adombrata dal confronto con quel pantheon. Ma i Big Brother sono tutt’altro che una band mediocre e Janis Joplin non è una cantante come tutte.

L’esibizione è un successo. A incoronare la band ci pensa la Columbia Records, che rileva immediatamente il loro contratto. Da qua inizia la storia di un successo. Janis Joplin riempirà concerti in tutti gli Stati Uniti, canterà per la folla di Woodstock, venderà milioni di vinili, ispirerà milioni di giovani col suo groove ruvido ma dolcissimo, e diventerà transustanziazione della lunga estate dell’amore.

Il demone

Il successo di Janis Joplin è una storia di riscatto e, non c’è dubbio, di soddisfazione e felicità. Ma per una persona ipersensibile come lei questo ha il suo prezzo.

Se dietro al microfono sente colmarsi la voragine di apprezzamento che le viene dal passato, a riflettori spenti la attende uno spettro di solitudine, angoscia e inadeguatezza: sul palco faccio l’amore con ventimila persone, ma quando torno a casa sono sola. E poi ci sono l’amore infranto con David Nilhaus, la moltitudine di relazioni che intraprende per pochi mesi, il senso di colpa nei confronti dei genitori, ai quali poco prima di morire scriverà scusandosi di non essere ciò che avrebbero meritato. E l’eroina.

L’eroina.

Il suo psichiatra racconterà di aver trascorso ore nel tentativo vano di convincere la regina del blues che smettere con il buco non avrebbe estinto le sue capacità musicali. Più volte Janis  chiede al suo manager e amico John Cooke di tenerla lontano dalla siringa. Si disintossica e ricade, si disintossica e ricade, si disintossica e ricade. Si disintossica, e ricade. Nel ’69 lei e la sua migliore amica arrivano al punto di decidere di non sentirsi più perché le due, entrambe tossicodipendenti, mettono a repentaglio l’una la sobrietà dell’altra.

Janis trascorre la sua esistenza scappando da un demone con cui si è legata a doppio filo. Non ci riesce.

É a Los Angeles per alcune registrazioni quando Cooke prova a chiamare la sua camera d’albergo. Non riceve risposta e, racconterà in seguito, sapevo già cosa fosse successo. La trova pochi minuti più tardi, accasciata esanime tra il letto e il comodino.

Era il 1970. Janis Joplin non aveva ancora compiuto i 28 anni e la sua era ormai la terza morte precoce a sconvolgere il rock in poco più di un anno.

Il club dei 27

Meno di un mese prima è morto Jimi Hendrix. Un coacervo di sostanze ha fatto sì che il chitarrista non si rendesse conto di star annegando nel proprio vomito. Finiva così un’esistenza dalle tinte simili a quelle della regina del blues.

Venuto al mondo – lo stesso anno di Janis Joplin – in una famiglia poco accogliente, Hendrix passa un’infanzia segnata dalla povertà e dai costanti litigi tra i genitori, lui alcolista e lei sofferente a causa di una malattia terminale. Al momento della morte di Lucille Hendrix, Jimi ha quindici anni. Il padre affitta una macchina e si avvia al funerale assieme ai figli, ma si perdono per le strade di Detroit e quando arrivano alla chiesa i portali sono già chiusi. Quest’amarezza rimarrà vividissima nella memoria di Hendrix, sfocerà in un odio ancora più viscerale nei confronti del padre e in una delle canzoni più belle che abbia scritto: Little Wing.

Seguiranno altra povertà, arresti, e, anche per lui, le droghe: marijuana, tranquillanti ma soprattutto acidi, a cui in seguito attribuirà gran parte della propria ispirazione. E poi il successo. Deflagrante, storico, mistico. Ma qualcosa non va, come racconterà il fratello minore: quando iniziò ad esibirsi a New York e prendeva cento dollari a settimana, era felice e tranquillo. Quando diventò famoso e iniziò a guadagnare molto di più, fu subito circondato da tante persone, tutte interessate a spremerlo […] Questa situazione lo deprimeva.

Quando i necrologi hanno annunciato la morte di Jimi Hendrix il mondo della musica vestiva ancora a lutto per Brian Jones. Il fondatore dei Rolling Stones era spirato poco più di un anno prima, dopo una vita raminga e la cacciata dalla band, a cui teneva più di chiunque e qualsiasi cosa nella propria vita. Il chitarrista Ry Cooder, chiamato come suo sostituto, racconterà che le poche volte che Jones si presentava a registrazione se ne stava in un angolo a piangere.

Quella di Joplin non è la prima stella sulla volta del rock a spegnersi in maniera precoce e inaspettata ma non sarà nemmeno l’ultima. Pochi mesi dopo toccherà al frontman dei Doors Jim Morrison. Curiosamente, tutti e quattro spirano esattamente alla stessa età: 27 anni.

A completare la compagnia del club dei 27 arriveranno Jean-Michell Basquiat – l’unico membro a non provenire dalla musica – Kurt Cobain e, nel 2011, Amy Winehouse.

Cold Case

E dunque eccoci arrivati al 1991. Di nuovo a Hampstead, osserviamo Erik Hobsbawm dal buco dalla serratura del suo studio. Proprio in questo momento sta redigendo il capitolo sui moti del ’68.

Al tempo Erik Hobsbawm aveva cinquantun anni, ricopriva già alcuni incarichi all’università di Stanford e si accingeva a diventare professore ordinario. Non c’è dubbio che, nonostante la sua fede comunista, rientrasse nella lista nera dei matusa per cui i moti giovanili nutrivano tanto disprezzo. La sua prospettiva racconta questa storia dal punto di vista opposto.

Hobsbawm dedica un capitolo tutto sommato poco lusinghiero ai cambiamenti di quel periodo. Ne mette in risalto l’immaturità, la superficialità, e si sofferma su quanto l’individualismo di cui si facevano campioni abbia disintegrato le comunità umane e le possibilità di trovarvi al felicita. Non possiamo soffermarci su questo aspetti, ma almeno in parte è impossibile dargli torto.

Ed ecco, ora, balenargli in mente il ricordo di quell’ecatombe all’olimpo della musica, soffermarsi a pensare in che modo esprimere il concetto, e scrivere La Frase.

Buddy Holly, Janis Joplin, Brian Jones dei Rolling Stones, Bob Marley, Jimi Hendrix e una serie di altre divinità popolari caddero vittime di uno stile di vita che era fatto apposta per una morte precoce.

Dopo essere entrati nel merito della vicenda queste parole assumono un significato, se non diverso, almeno chiaro. Abbiamo raccolto tutte le prove e gli indizi che si potesse. É il momento di provare a chiudere questo cold case.

Conclusioni

Se Che Guevara avesse raggiunto la vecchiaia, forse il suo ricordo sarebbe rimasto chiuso in una nicchia della Storia, noto agli studiosi ma sconosciuto tra le masse. Magari sarebbe divenuto il simbolo della disfatta di alcuni degli ideali del ’68 e di un certo senso di inesorabilità e rassegnazione.

Invece l’8 ottobre del 1967, mentre era in Bolivia per supportare le forze rivoluzionarie del paese, venne costretto in un canalone dall’esercito. Fu accerchiato e infine si arrese. L’indomani venne sorteggiato un soldato che – più o meno volentieri a seconda delle versioni – caricò una pistola ed eseguì la condanna a morte di Ernesto Guevara.

I giovani sessantottini vedevano virtù solo nella giovinezza, decadenza e asservimento nelle età più mature; peccato che loro stessi fossero ben consapevoli che il tempo li avrebbe traghettati all’adultità. Guevara, invece, sarebbe stato giovane per sempre. Diventava il simbolo di tutto ciò che sarebbe avvenuto negli anni della contestazione. In una certa misura – e questa è la prima conclusione da mettere nero su bianco nel nostro rapporto finale – lo stesso vale per Janis Joplin, Brian Jones, Jimi Hendrix e Jim Morrison. La loro memoria è vivida grazie, anche, alla loro morte precoce.

Rimane da sciogliere l’ultimo nodo. Fu lo stile di vita inaugurato nel ’68 il responsabile – in qualche modo – della sequenza di morti che sconvolse la musica americana tra il 1969 e il ‘70?

Alla luce del caso che vi ho raccontato come esemplare emerge che c’è un elemento – probabilmente l’unico – che farebbe propendere in questo senso: la droga.

I moti del ’68 portarono grande apertura all’uso delle droghe come strumento di scoperta, di ispirazione e di piacere. Marijuana ma non solo, anche droghe ben più pesanti come acidi, anfetamine ed eroina. Nel momento in cui scoppiò la lunga estate dell’amore non esisteva ancora consapevolezza sui rischi di queste sostanze, la tossicodipendenza era ancora coperta dal tabù e non esistevano strumenti per trattarla. Negli anni settanta, non a caso, l’epidemia di eroina e il fenomeno della tossicodipendenza assumeranno dimensioni drammatiche.

Le star di cui vi ho raccontato facevano tutte largo uso di sostanze. Come abbiamo saputo Janis Joplin morì di overdose come Jimi Hendrix e Jean-Michelle Basquiat. Quanto agli altri: Brian Jones, Jim Morrison e Amy Winehouse morirono in circostanze meno chiare, intossicazioni di vario genere hanno probabilmente avuto un ruolo in tutti e tre i casi, ma in nessuno sono state l’elemento decisivo; si può dire solo con grande approssimazione che siano morti a causa della droga.

Kurt Cobain poi, anche lui orgogliosamente affine alle sostanze più svariate – in particolar modo eroina –, si suicidò, e Buddy Holly, un altro citato nel La Frase, morì a causa in un incidente aereo. Quindi solo di tre tra questi sette si può dire che siano morti a causa delle droghe. Anche se a ben vedere e lapalissiano che le droghe abbiamo solo reso ancor più pericolosa una situazione emotiva già di grande sofferenza.

La tesi dello storico inizia a scricchiolare. Forse, potessimo evocarne lo spirito dall’aldilà, Hobsbawm ci risponderebbe che la situazione di difficoltà, prostrazione, a volte addirittura di disperazione che sfociò nel suicidio o in un uso massiccio di droghe, quello sì, era frutto di uno stile di vita. Si tratta di un dubbio che non è possibile scegliere, dovremmo entrare in profondità negli animi di queste persone più di quanto sia possibile dopo la loro morte. Proprio per questo però è fuori luogo la certezza di Hobsbawm.

Anche l’ultimo bastione delLa Frase cade se si pensa che una delle celebrità che cita come vittime di quel modo di esistere è Bob Marley. Purtroppo non abbiamo il tempo di soffermarci sulla vita del cantante giamaicano, basti sapere che era un convinto rastafariano, e che morì per un tumore che rifiutò di curare proprio in ottemperanza alla propria fede.

Il Rapporto

Ci sono altre due conclusioni che possiamo (e dobbiamo) annotare nel nostro rapporto finale prima di chiudere l’indagine. La prima è che a ragione veduta la Famosa Frase risulta tanto approssimativa da essere scorretta. Da scrivente, lo trovo bellissimo e consolatorio. Consolatorio perché testimonia che ogni tanto anche ai più grandi geni può scappare qualche leggerezza – seppur minima, si tratta pur sempre di una frase su settecento pagine –, bellissimo perché dimostra che anche le tesi hanno un’anima, e che spesso raccontano di chi le ha formulate tanto quanto del loro oggetto.

La seconda è che questa vicenda è una storia nella storia – o meglio, nella Storia. Quel maggio a Parigi è cambiato qualcosa di grosso. Qualcosa di enorme. Forse nelle insoddisfazioni, nei desideri e nei motti dei giovani sessantottini avete scorto qualcosa del modo che abbiamo oggi di vivere, e di come concepiamo il nostro stare in società.

Se non è stato così, mea culpa, perdonatemi. In questo caso però non c’è più nulla che io possa fare se non incoraggiarvi a cercarli voi stessi. Aguzzate lo sguardo e vi prometto che  accorgerete che quei cortei e quell’epoca sono ancora vivi e vegeti.

É tutto. Non mi resta che salutarvi. Un abbraccio, ciao.

Se volete approfondire

Volete conoscere meglio la vita di Janis Joplin questa è la sua biografia, ma anche questo documentario non la racconta male.

Se volete approfondire la storia dei moti della contestazione Maggio ’68. La breccia. di Edgar Morin è un classico. Altrimenti è disponibile online questa puntata di Passato e Presente, programma Rai condotto da Paolo Mieli con la partecipazione dell’allora rettore della Sorbona.

Nel caso vi interessi Il Secolo Breve. 1914-1991. Lo potete trovare qui.

Consigli di lettura

Iscriviti alla nostra newsletter, qui!