Scuro Chiaro

1955, Torino. Un’ipertrofia produttiva ha invaso le fabbriche Fiat.

Poche settimane fa la casa ha lanciato un nuovo modello, la 600. Il successo è stato fulminante. Dopo un mese, la produzione è arrivata a diverse migliaia di esemplari al minuto, ed è destinata a crescere. La 600 sta penetrando in Italia in maniera capillare. Da Torino entra nelle concessionarie di tutto il paese e da qua approda sugli sterrati di campagna, tra i vicoli dei borghi e nei viali delle città.

Fino a ora l’automobile è stato appannaggio di pochissimi ricchi, un incontro raro come quello che oggi potremmo fare con un jet privato. A breve, però, i centri abitati faranno la conoscenza del traffico e delle file di macchine parcheggiate accanto al marciapiede. Fioriranno officine, concessionarie, negozi di articoli per auto. Saranno gli anni delle gite al mare in macchina e del boom dell’automobilismo sportivo. Col senno di oggi, possiamo dire che il ’55 e la 600 abbiano dato il via alla motorizzazione di massa in Italia.

Già a questo punto viene da chiederci cosa abbia permesso alla 600 di generare un baratro tale con gli altri modelli in circolazione. Ma vale la pena inoltrarsi oltre. Perché l’automobile per noi è più di un mezzo di trasporto. É stato un feticcio, ha incarnato una visione del mondo, e oggi è uno specchio dei tempi.

Poco chiaro, mi rendo conto. Sono andato troppo di fretta, come vi dicevo, per vederci meglio bisogna guardare più da vicino.

Primo agosto 1951

Primo agosto 1951, in un complesso di uffici alla periferia di Torino è riunito il consiglio di presidenza della Fiat. L’ultimo modello della fabbrica – la Fiat Topolino – ormai è obsoleto, lo scopo della sessione di oggi è stilare le linee guida per il progetto di una nuova uscita.

Attorno al tavolo sono in undici, i responsabili di ogni reparto della società più un individuo che ormai è un’istituzione: direttore centrale nel ’27, direttore generale dal ’28 al ‘38, dal 1939 il professor Vittorio Valletta è amministratore delegato della società.

Sin dalle prime battute è chiara l’opinione di Valletta sul nuovo modello: nonostante la Fiat sia uno dei più importanti produttori automobilistici del vecchio continente, il suo bacino di clienti è ancora limitato a quei pochi italiani che possono permettersi un’auto. L’unico modo per far crescere la società è vendere non più ai ricchi, ma alle migliaia di operai, contadini e impiegati per cui la motorizzazione non è ancora nemmeno un sogno. La prossima macchina ad uscire dalle fabbriche di Mirafiori dovrà rispecchiare le necessità e le possibilità degli stessi operai che la producono, ovvero dovrà essere spaziosa ed economica. Quello che oggi noi chiameremmo un’utilitaria.

A fine riunione il verbale notifica tre requisiti per la nuova Vettura 100. Quattro posti, in modo da poter trasportare una famiglia; peso non superiore ai 450 chilogrammi, per risparmiare lamiera e quindi abbassare il prezzo; almeno 85 kilometri orari di velocità massima. Scadenza: 1955.

Accanto a Valletta è seduto un uomo alto, la fronte stempiata, sbatte di frequente le palpebre e parla inclinando la testa. É Dante Giacosa, il capo-progettista del gruppo. Spetterà a  lui mettere nero su bianco il progetto della Vettura 100.

Cinquantenne, Giacosa lavora nel settore progettistico della Fiat dai suoi trenta. Negli anni si è guadagnato la fiducia di Valletta, ha esperienza, eppure, o forse proprio grazie a questo, è preoccupato. L’ultimo modello arrivava sì agli 85, ma pesava più di 500 chilogrammi e ospitava soltanto due posti. Tagliare 50 kili di massa e raddoppiare lo spazio sarebbe difficile. Farlo in quattro anni è una vera e propria impresa ingegneristica.

Fuori dal palazzo Fiat

Probabilmente sono questi i pensieri che impegnano Giacosa mentre attraversa la soglia del quartier generale. Fuori dal palazzo Fiat, l’Italia è quasi ancora un cumulo di macerie.

Il milione e mezzo di vittime della Prima guerra mondiale ha trasformato quelle dal 1870 al 1899 in generazioni di vedove, orfani, invalidi e fantasmi. Il miraggio di grandezza che il paese ha vissuto a seguire, durante il ventennio fascista, è collassato dopo aver trascinato l’Italia nella Seconda guerra mondiale. Dal ’41 al ’45 i bombardieri hanno battuto i cieli dello stivale, sorvolando le rotaie dei treni, i ponti, i centri abitati. Questa volta le vittime sono state mezzo milione.

Per soprammercato, il rocambolesco cambio di bandiera ha privato l’Italia di quel po’ di credibilità sopravvissuta ai fiaschi tra le trincee della Seconda guerra mondiale. Infine, la riconquista alleata ha attraversato quasi tutto il territorio, ed è risultata in uno stillicidio di morti e crimini di guerra.

Tutto ciò che è andato bene negli anni dal ’14 al ‘48 è stato il prodromo di una catastrofe. Alla fine della liberazione, più di metà della popolazione italiana è nata sotto il segno delle guerre, e fino ad adesso non ha vissuto altro.

Da qualche anno, però, la Storia sembra aver cambiato direzione. É quello che uno sceneggiatore chiamerebbe un turning-point, il punto di svolta. Nel ’48 il presidente del consiglio Alcide De Gasperi è riuscito ad assicurare al paese un posto nel piano Marshall. Assieme a diversi investimenti azzeccati, i fondi americani hanno fatto da defibrillatore per l’economia del paese.

Sorgono edifici, si costruiscono strade, fabbriche. Questo arricchisce sì le società edili e industriali, ma significa anche lavoro per migliaia di manovali, operai industriali, e, a lavori finiti, impiegati e dirigenti. Persone che ora riescono a permettersi case e prodotti industriali – in primis elettrodomestici –, finanziando le stesse società che gli pagano lo stipendio, e che riescono quindi a garantire salari sempre più alti.

Grazie a questo circolo virtuoso, nel ’55, a quattro anni dal consiglio di presidenza che ha dato il la al progetto 100, l’occupazione è ai massimi storici e gli stipendi si attestano su cifre inaudite. Valletta fa pressione perché la produzione non diminuisca.

– Dobbiamo pensare continuamente a creare lavoro per le nostre officine. – Dice al telefono con Giacosa. – La responsabilità è tutta nostra; tutto dipende da noi, lo ricordi. Non per gli azionisti, ma per gli operai e per noi stessi.

Nei primi mesi del ‘55 vede la luce l’ultimo prototipo della Vettura 100. Giacosa ha risolto le problematiche di stabilità in curva aggiustando assetto e sistema di sterzata. Adesso è il momento della prova del nove, il collaudo.

Ginevra ’55

A fine gennaio diverse auto vengono fatte girare nell’enorme pista sopra gli uffici di Torino. Finiti i test, Giacosa e collaboratori tirano le somme e decretano l’esito: positivo.

Come desiderato da Valletta la 600 è in grado di ospitare una famiglia di quattro persone, raggiunge gli ottantacinque, ma, soprattutto, è economica. Il prezzo di listino ammonta a 590.000 lire, a fronte di uno stipendio medio da manovale di 50.000. Nonostante risulti comunque costosa, la 600 è molto più abbordabile della Topolino, che, al momento del suo lancio, nel ’36, veniva venti volte l’introito medio mensile di un operaio specializzato.

A marzo, come ogni anno, si tiene la più importante esposizione motoristica d’Europa, il salone dell’auto di Ginevra. É qua che vengono annunciate le nuove uscite. Bisogna passare da qua per entrare nelle concessionarie europee e italiane. Alla sfilata inaugurale dell’edizione 1955, a fare da protagonista è la vettura che la Fiat si è tenuta nel ventre per quattro anni. La visione di Valletta, il frutto degli sforzi di Giacosa. La Fiat 600.

[dal Periodico Mensile – Illustrato FIAT – Anno III, n.4 30 aprile 1955]

Il biglietto

Il resto lo conosciamo. Ora, in più, sappiamo quali elementi abbiano fatto della 600 una macchina vendutissima: era cucita su misura per le classi meno abbienti, queste, pur rimanendo le meno abbienti, iniziavano a vantare una ricchezza mai vista, infine l’automobile risultava enormemente più comoda e veloce di cavalli, carri, e del quasi inesistente trasporto pubblico.

Fin qui non è poco, ma siamo ancora in superficie. Perché la 600 non è stata solo un oggetto vendutissimo. Negli stessi anni debuttano anche altri apparecchi altrettanto rivoluzionari e venduti in numeri da multinazionali, si veda il frigorifero o la lavatrice, ma nessuno di questi è presente nei film quanto la 600, non occupano lo stesso posto nella memoria e nell’immaginario del miracolo economico.

In altre parole, il successo della 600 non è stato solo commerciale, ma anche culturale.

Per darvi un’idea, ma anche nella speranza di strapparvi un sorriso, vorrei raccontarvi questo micro-aneddoto. Nel ’55, poco dopo Ginevra, Giacosa – che, per inciso, è di ritorno da una conferenza in Inghilterra sulla progettazione della 600 – trova sulla sua scrivania, tra le altre carte, un piccolo biglietto scritto a penna. Le parole sono raggruppate in blocchi e la calligrafia non gli è familiare. É verosimile immaginare, appena iniziato leggere, quale sia la reazione dell’ingegnere. Il contenuto del biglietto è il seguente:

La seicento

Sei tanto bella che mi sembri nata
Non già fra i macchinari d’officina,
Ma dalle mani d’una buona fata
Oppur nell’atelier d’una sartina.

La tua apparizione, vanne fiera,
Ebbe un successo ed un trionfo, quale,
In tutta la brillante sua carriera,
Non ebbe mai la Gina nazionale.

I macchinoni che, con pompa magna,
Tu sovrasti per prezzo e per statura,
Invitali a venir con te in montagna.

Per prima arriverai sull’aspra vetta
Sotto la guida facile e sicura
Del nostro amato professor Valletta.

L. P.

[dal Periodico Mensile – Illustrato FIAT – Anno III, n.4 30 aprile 1955]

Possiamo supporre che la Gina nazionale sia Gina Lollobrigida.

Questa poesia goliardica testimonia bene l’entusiasmo, quasi il culto, che seguirono il lancio della 600. E pure qui viene da chiedersi perché? Cosa ha decretato un attecchimento così forte non solo nell’economia, ma anche nella cultura italiana? Di cosa è fatto il cordone ombelicale che ci ha legati e ci lega ancora all’automobile?

Un feticcio

Fino al ’48 la gran parte degli italiani era abituata alla vita contadina. Dura, sfibrante, e spesso misera. Prima della Seconda guerra mondiale più del 68% dei lavoratori erano impiegati nell’agricoltura, i restanti si dividevano tra industria, 32%, e il settore dei servizi. La mezzadria, per rendere l’idea, sarebbe scomparsa solo a fine anni Sessanta.

É vero, una fiammata di industrializzazione aveva già coinvolto alcune aree del paese, ma si era trattato di zone limitate. Inoltre, il paese non era ancora disposto di strade e delle altre infrastrutture necessarie ad una vera e propria conversione industriale. Condizioni che invece si verificarono nel ’48, quando il circolo virtuoso che prima vi ho rapidamente presentato ha fatto in modo che, questa volta sì, l’Italia diventasse un paese industrializzato.

E questo significa anche tutte le comodità di un paese industrializzato.
In ordine casuale:

  1. La notte non è più pericolosa come prima, c’è la luce elettrica.
  2. Non sono più necessarie ore per lavare i vestiti, ci pensa la lavatrice;
  3. idem la lavastoviglie per posate, piatti e bicchieri.
  4. Il cibo è più abbordabile, ma è anche a portata di mano, nei supermercati, e
  5. conservarlo non è più un problema grazie al frigorifero.
  6. Il lavoro non è più quello agricolo, fisicamente sfibrante e poco redditizio. Ora è sedentario e per giunta paga meglio.

n) In auto, spostarsi non è più lungo e faticoso come prima. Addirittura, ci si può concedere di passare il proprio giorno libero – altra consuetudine estranea allo stile di vita agricolo – in qualche amena località irraggiungibile con meno di un giorno di viaggio.

Un paradiso per un paese abituato a sostentarsi di agricoltura, ma un avvenimento ancora più profondo se si considera che quel popolo è reduce dalle disfatte della prima metà del Novecento. Al netto di queste ultime, il miracolo economico sarebbe risultata sì una svolta più che gradita, ma alla loro luce assume un significato ancora più profondo, è la prova che la Storia può essere anche buona, che esiste una speranza. É una visione del mondo.

L’automobile è il simbolo più adatto a incarnare questa visione del mondo, perché, a differenza delle altre innovazioni tecnologiche, non è un’invenzione nuova. Le auto i Italia girano da almeno cinquant’anni, ma sono un bene esclusivissimo. Sono i mezzi di trasporto dei padroni, di coloro che, agli occhi dei contadini, vivono una vita mille volte più degna di essere vissuta. E ora, quel paradiso è diventato il loro paradiso, tant’è che possono permettersi il lusso dei lussi, un’automobile.

Dunque ecco la ragione del successo culturale che cercavamo. All’automobile l’Italia degli anni ’50 e ‘ 60 ha affidato il compito di incarnare tutto ciò. L’entusiasmo del boom economico, la fiducia nella Storia, l’emancipazione della vita agricola. Negli anni Sessanta la parola automobile è sinonimo di libertà, abbondanza. Un ottimismo cauto ma velato di un sentimento di ultima occasione perché – non scordiamolo – si tratta di un’epoca che dopo due guerre una più distruttiva dell’altra minaccia di compiere il proprio arco cadendo in un conflitto destinato a distruggere la Terra intera.

Un oggetto che risponde al nostro bisogno di vedere nel mondo quello che sta dentro di noi, di fare chiarezza guardandoci dall’esterno. Un feticcio, oggetto di culto talvolta a fini propiziatori, talvolta perché ci protegga da ciò di cui abbiamo paura.

[dal Periodico Mensile – Illustrato FIAT – Anno III, n.4 30 aprile 1955]

Ginevra 2024

3 marzo 2024. La conferenza di chiusura conclude ufficialmente il salone dell’automobile di Ginevra. Interrotta bruscamente l’edizione 2020 a causa della pandemia, la manifestazione è rimasta sospesa fino a quest’anno. Nelle intenzioni del comitato organizzatore quella del 2024 doveva essere l’edizione della ripartenza, ma le cose non sono andate come previsto. Pochi giorni dopo la chiusura il comitato organizzatore diffonde un comunicato stampa:

Il Consiglio del Comité permanent du Salon international de l’Automobile Foundation ha rilevato come ci siano troppe incertezze legate all’industria automobilistica e un’erosione dell’attrattiva dei principali saloni europei per correre il rischio di investire ulteriormente nel futuro.

[…]

Non potendo raggiungere il suo scopo statutario, il Consiglio della Fondazione Comité permanent du Salon international de l’automobile di Ginevra, nell’ambito delle sue competenze, chiederà formalmente all’autorità cantonale di vigilanza sulle fondazioni (ASFIP) l’autorizzazione a sciogliere la Fondazione.

In sostanza, il comitato organizzatore annuncia che il Salone non riesce più a generare abbastanza profitti per rientrare delle spese necessarie ad allestirlo, e quindi avvierà le pratiche per sciogliersi.

La manifestazione motoristica dove hanno debuttato automobili che adesso si trovano solo nei musei, dove è stata lanciata la 600, e che ha segnato la genesi della motorizzazione italiana di massa e del suo mito, chiude i battenti. Dopo centoventi anni.

Se può trattarsi di una sorpresa per gli estranei al mondo dell’automotive, gli appassionati hanno già fiutato qualcosa da anni. Nell’ambito dell’edizione 2021, poi abortita, erano emerse enormi difficoltà. Meno del trenta per cento degli espositori invitati avevano espresso interesse a partecipare, privando la manifestazione dei fondi necessari a sostenersi. Il comitato aveva provato ad accedere a finanziamenti statali, ma questi erano stati disposti a delle condizioni che il comitato ha respinto.

Nel 2024 il salone è riuscito ad aprire, ma lo spettacolo cui gli avventori si sono trovati ad assistere è stato deludente. Soltanto 29 espositori, niente a confronto dei 261 che avevano partecipato all’edizione dl centenario – nel 2005 –, o dei 250 del 2010.

Non si respira aria di cambiamento solo a Ginevra, tutto il mondo dell’automobile è nella temperie di un’enorme crisi. Negli ultimi anni molte case storiche hanno visto precipitare le vendite, e ora fanno fatica a mantenere la tenuta economica. Calano i numeri delle vetture in circolazione, soprattutto tra i giovani.

Gli imputati sono parecchi, ma tra tutti due concorrono per il primo posto. Il primo è l’impatto ambientale della macchina, il secondo è derivabile da qualche conto spannometrico. Il potere di acquisto degli italiani è in diminuzione da decenni, in compenso i costi dei metalli e della componentistica elettrica, delle risorse fossili, e dell’assicurazione sono aumentati a causa di effetti a catena dovuti in primis ai sommovimenti geopolitici degli ultimi anni.

A rinunciare alla macchina, in certi casi proprio a rifiutarla, sono soprattutto i giovani. Un sondaggio dell’Automobile Club Italiano ha attestato che nel nostro paese un solo under-25 su otto possiede un’automobile. Dal 2011 al 2021 il numero di auto-muniti al di sotto dei 25 anni è quasi dimezzato. L’età media a cui si consegue l’esame sta aumentando velocemente: tra i minori di venticinque solo il 53% ha preso la patente appena compiuta la maggiore età, mentre trent’anni fa la proporzione era di ottanta su cento.

Perché?

Qualche calcolo

Due ricercatori dell’Einaudi Institute of Finance e del National Bureau of Economic Research hanno svolto uno studio su migliaia di lavoratori in diversi paesi ad alto reddito – tra i quali l’Italia. Oggetto dell’indagine: distribuzione del reddito per età. Calcolata la media per fascia d’età, la hanno raffrontata a uno studio simile effettuato trent’anni fa, col risultato di scoprire che lo scarto tra gli stipendi degli over-55 e quelli degli under-25 è raddoppiato.

Adesso, le nozioni basilari di statistica impongono che, da solo, questo dato non basti per stabilire che i giovani percepiscano stipendi minori di allora, potrebbe darsi che il loro reddito sia rimasto stabile, e che sia aumentato quello degli ultracinquantenni. Purtroppo, assolto a questa premura appropriata e – diciamocelo – anche un po’ ottimistica, emerge che gli stipendi degli over-55 non hanno incontrato nessuna crescita.

Non rimangono dubbi, sono i giovani a percepire meno stipendio che in passato. E il gap nel reddito per età non è l’unico a raddoppiare. Tra i 18 e i 24 anni, duplica anche il costo annuo dell’assicurazione, 795 contro 391 della media nazionale; a testimoniarlo è un’indagine dell’Istituto Italiano di Vigilanza Sulle Assicurazioni.

Ciliegina sulla torta: il centro studi Fleet&Mobility ha rilevato che solo dal 2019 al 2023 il prezzo medio di un’automobile è salito del 37%, da 21000 a 28000.

Possiamo stabilire con sicurezza che gli under-25 siano sempre più poveri in una situazione in cui le spese legate all’automobile non fanno che aumentare e, talvolta, se si considera l’RC, addirittura in maniera maggiore rispetto ai più anziani. Attenzione, di per sé ciò implica, sì, che quasi nessuno tra loro possieda un’automobile, ma non che non la utilizzino. In molti guidano macchine di famiglia, o ne possiedono una intestata ai genitori, che provvedono ad assicurazione, revisioni, e riparazioni.

Tanto basta però a mettere in crisi il significato culturale dell’auto, quello che abbiamo ricevuto in eredità dal passato. L’auto di proprietà è uno strumento dell’adulto, essere auto-muniti – non solo patentati – è un requisito per essere riconosciuti come adulti ai propri occhi e a quelli degli altri. Oggi questo significato culturale è al tramonto, anche perché, in effetti, la macchina ha a che fare con l’altro grande elefante nella stanza, la crisi climatica.

Risale a qualche anno fa il conio di una serie di termini come ecoansia, o inquietudine climatica, tutti riferiti al sentimento di angoscia causato dal deterioramento del clima. Nelle persone che vanno dai 15 ai 25 anni il fenomeno è di portata tale da essere riconosciuto come urgente da diversi ordini di psicologi. Tra gli effetti insonnia, pensieri intrusivi, e attacchi di panico.

Oltre al peso di un futuro minacciato dalla catastrofe climatica, e quello di avvertire sulle spalle il compito di riequilibrare il rapporto con il creato, l’ecoansia presenta un altro elemento: il risentimento nei confronti delle vecchie generazioni, che non si stanno dimostrando all’altezza del problema.

Quest’ultima cosa sembra magari secondaria ma in realtà è la più importante, si tratta del Punto – pi maiuscola. É il riflesso di noi che ci viene restituito dalla livrea lucida dell’automobile.

Una società che, di fronte a un periodo storico molto meno gentile di quello del boom economico, reagisce lacerandosi. Da una parte le generazioni più adulte, ereditiere dell’epica dell’automobile, affezionate a un’automobile che è non solo una comodità, ma un feticcio, una visione del mondo, e uno strumento di compimento dell’età adulta. Dall’ altra le nuove generazioni, che nella macchina vedono il vessillo di chi gli ha consegnato un paese allo sfacelo e un futuro incerto e minaccioso, ma anche il manifesto di un modo di un menefreghismo spaventato, incapace di affrontare la crisi climatica.

Saluti

Requiem per l’automobile? Ancora non è detto. Mancano anni al momento in cui sapremo se la mobilità pubblica riuscirà a soppiantare quella privata, o l’elettrico assicurerà un futuro all’automobile, o se semplicemente la macchina si farà così costosa da non figurare più come una possibilità.

Quello che possiamo stabilire con certezza è che la parabola dell’auto sia arrivata a un punto di svolta e che, di nuovo, si dimostri una cartina tornasole della nostra società.

Non potendo dire altro del futuro, vi chiedo di fare ancora un’escursione nel passato. Vorrei salutarvi con un’ultima storia, perché mi sembra calzante.

É il 1970. Dante Giacosa ha dato alla 600 un seguito di modelli di successo. Nel ’57 c’è stata la Nuova 500, nel ’59 l’Autobianchi Bianchina, la 1800, la 2100 e la 2300. La Primula nel ’64. Cinque anni dopo la A-111 e -112. La Dino nel ’69.

Da un po’ di mesi però tira un’aria diversa alla Fiat, e Giacosa è troppo lucido per non rendersi conto che sta cambiando qualcosa. Racconta così nel suo libro di memorie I miei quarant’anni di progettazione alla Fiat:

Durante il periodo Valletta alla Fiat non avevo mai sentito di direttori ad alto livello che si fossero ritirati per aver raggiunto i limiti di età. Il Professore lasciò la Fiat all’età di ottantatré anni, perché morì. Lui vivo, i suoi collaboratori fedeli e devoti non avrebbero abbandonato il loro posto di lavoro se non per la stessa ragione o per motivi di salute. E io, entusiasta del mio lavoro, convinto che nessuna altra casa automobilistica avrebbe potuto offrire maggior spazio al mio estro, fedelissimo, non avevo mai pensato di poter fare eccezione. Forse anch’io avrei raggiunto ottant’anni e avrei visto incanutire i miei collaboratori.

Finito il periodoValletta se ne andarono molti dei suoi, ormai vecchi, dirigenti. Una certa ansia di rinnovamento diede nuovo impulso alla tendenza.

In un colloquio col direttore generale […] gli chiesi di accettare le mie dimissioni.

[…]

Con una sensazione di vuoto improvviso, come per il risveglio da un lungo sonno, era venuta per me l’ora di interrompere la multiforme, appassionante, intensa attività che mi aveva legato a filo doppio alla Fiat per oltre quarant’anni. […] Il mio ufficio personale […] mi sembrò come svuotato. Al mio tavolo di lavoro mi sentii solo. Fra i giovani dirigenti del gruppo Auto che occupano gli uffici del secondo piano, riservato in passato alle più alte cariche della Fiat […] mi ero sentito quasi un estraneo. Eppure non ho rinunciato a studi e progetti: posso, quando è il caso, essere di qualche aiuto ai miei collaboratori di un tempo che, navigando oggi in un mare diversamente agitato, reggono con perizia quel timone che fu mio per tanti anni.

Bibliografia

Come vuole la saggezza popolare: fidarsi è bene, ma… ergo, questo è il report dell’ACI sui numeri delle auto tra i giovani.

Qui trovate lo studio dell’Einaudi Institute of Finance e del National Bureau of Economic Research. I ricercatori sono Nicola Bianchi e Matteo Paradisi.

Qua l’indagine dell’IVASS sull’RC auto, e questo è l’articolo del centro studi Fleet&Mobility sull’aumento del costo delle auto.