Margot Delìperi non si accontenta di osservare il mondo del lavoro: lo scuote, lo riformula e lo rende un luogo più giusto, stimolante e appagante. Con oltre 18 anni di esperienza in aziende corporate, multinazionali e agenzie di comunicazione, ha affinato un talento unico: saper leggere le persone e i contesti per trasformare il malessere professionale in una carriera che accenda davvero scintille.
Il suo approccio unisce formazione, comunicazione e inclusione, con l’obiettivo di aiutare individui e organizzazioni a ritrovare valore, direzione e autenticità. È la mente dietro Scintille di Carriera, un percorso pensato per chi non si accontenta di un lavoro senza senso e desidera riprendersi il potere di scegliere. Oltre a questo, offre consulenze su leadership, personal branding, comunicazione e digital marketing, sempre con uno sguardo attento all’empowerment e all’uso consapevole delle parole. E ha una bellissima newsletter.
BUNS è uno spazio di idee e conversazioni che mettono in discussione lo status quo, e Margot incarna perfettamente questo spirito. Parleremo qui con lei di come possiamo ripensare il lavoro per renderlo più equo e motivante, di leadership autentica e di come il linguaggio possa diventare un potente strumento di inclusione e cambiamento.
Margot non dà risposte preconfezionate, ma strumenti concreti per chi sente di meritare di più. E oggi, vogliamo scoprire con lei come possiamo costruire un mondo (e un futuro) in cui sia bello stare – non solo dalle 9 alle 18, ma sempre.
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Margot, un piacere averti qui. Andiamo al sodo. Viviamo in un’epoca in cui il lavoro occupa gran parte della nostra identità. Ma se diciamo a qualcuno “Ciao, sono Tizio e passo 8 ore al giorno a fissare un Excel con la sensazione che la mia anima stia evaporando”, sembra tutto normale. Invece, se diciamo “Io lavoro poco perché voglio vivere”, ci guardano come eretici. Da dove nasce questa narrazione tossica del lavoro come unica misura di successo?
Ciao Alice, il piacere è reciproco, e vado al sodo anch’io! Ci sono almeno tre aspetti che si intrecciano a livello socio-economico e culturale e che sono importanti per costruire insieme una risposta: linearità, visibilità, senso.
Ci stiamo accorgendo che è finito il tempo della granitica linearità, quel tempo in cui esisteva un percorso prevedibile, sicuro e non questionabile: studi, trovi un lavoro, fai carriera, vai in pensione. Che questa traiettoria si sia frammentata è ormai più che visibile, eppure continuiamo a misurare il successo con parametri lineari – ore lavorate, gerarchie, presenza in ufficio, stipendio – che però non trovano più corrispondenza in quello che viviamo ogni giorno.
In secondo luogo, abbiamo dato troppa attenzione agli elementi visibili della produttività. Ce ne accorgiamo perché il fare è diventato più importante dell’essere, come mostravi tu nella tua domanda. Celebriamo il fatto di essere sempre impegnati – la chiamano “hustle culture” – e diamo poca o nulla visibilità – e quindi importanza – al tempo interiore dedicato alla riflessione, all’ozio, agli affetti, o a qualsiasi altra cosa non-lavorativa.
Infine, cresce la ricerca di senso, che attraversa in modo trasversale più generazioni. Le persone evolvono e sempre di più si chiedono se c’è e dov’è il senso ulteriore di quello che fanno. E non sempre la risposta che lo status quo restituisce è abbastanza convincente per mantenerlo.
C’è chi chiude il computer alle 18 con la precisione di un orologio atomico e chi invece sta pianificando la sua fuga dal mondo corporate con la stessa strategia di un colpo alla Casa di Carta. Tu che aiuti le persone a reinventarsi, cosa hai capito su questo grande esodo dal “posto fisso”? È davvero una moda o un bisogno profondo?
Da quello che ascolto nelle sessioni, c’è un bisogno profondo di allineamento tra valori personali e vita professionale. È un bisogno che cresce pian piano, in silenzio, fino a rivelarsi in tutta la sua intensità quando ci accorgiamo che la posta in gioco è troppo alta per essere ignorata, e spesso ha a che fare con salute, relazioni e benessere.
C’è chi se ne rende conto perché ha manifestazioni psico-somatiche apparentemente inspiegabili, chi si ritrova sull’orlo di una separazione, e anche chi si accorge di non avere più le energie per giocare con i figli o fare le attività che amava.
Oggi ci dicono che dobbiamo vendere noi stessi come un prodotto di lusso su Instagram e LinkedIn, ma la verità è che non tutti ci sentiamo ‘brandizzabili’. Come si costruisce un personal branding autentico senza sentirsi dei piazzisti di sé stessi?
È un’ottima domanda, che mi sono fatta spesso anch’io arrivando da una lunga esperienza di marketing. Mi piace dire che il mio approccio al personal branding è di tipo relazionale: per mostrarlo in azione, condivido tre domande che possono essere utili a chi non si riconosce nella modalità “piazzista”, sa che è importante comunicare il proprio valore ma non sa da che parte iniziare.
1. Chi sono le persone con cui potrei costruire delle relazioni reciprocamente nutrienti? Andando più nello specifico: che valori hanno, a cosa si interessano, che visione del mondo hanno? E io, con la mia professionalità, come mi inserisco nel loro contesto?
2. Come vorrei che si sentissero le persone quando si relazionano con me?
Ad esesempio: sollevate, alleggerite, informate, rassicurate, divertite… Questa è una domanda a cui sono molto legata, arriva dal mio maestro Iabicus per la comunicazioe, ma è così bella che la si può applicare in ogni occasione di relazione perché fa cambiare la postura con cui ci poniamo.
3. Per cosa vorrei che si ricordassero di me? Ad esempio, perché sono la commercialista che rende facili le tasse, perché creo corsi di formazione che sono davvero trasformativi, perché connetto brand e persone
Con le risposte a queste domande avremo la base su cui costruire o affinare il nostro personal branding in modo autentico, cioè che ci assomiglia e che ci fa riconoscere e apprezzare per le persone che siamo.
Oggi tutti parlano di work-life balance come fosse il Sacro Graal. Ma diciamolo: a volte, dopo 10 minuti di ‘vita’ ci ritroviamo già a controllare le mail. Tu che lavori con persone che vogliono cambiare il proprio rapporto con il lavoro, esiste davvero il work-life balance o è solo un altro mito che ci vendiamo per sopravvivere?
Come dico spesso, la vita è rotonda.
Ce la raccontiamo pensando di riuscire a inscatolare i vari ambiti, vita, lavoro, relazioni ma è più un’illusione che una possibilità concreta. Quello su cui lavoro con le persone è l’integrazione consapevole tra i vari ambiti, per riuscire a costruire una relazione più intenzionale con entrambi. Il punto non è tanto controllare le mail dopo 10 minuti di “vita”, ma farlo in modo automatico, senza sapere se è un’azione consapevole, un’ansia, o un’abitudine. La differenza sta nella consapevolezza e nell’agentività che mettiamo nelle nostre scelte.
Quando sei in burnout non lo sai, pensi solo che sei tu il problema e che devi sforzarti di più. Quali sono i campanelli d’allarme che spesso ignoriamo? E come possiamo imparare a dire STOP prima di arrivare al punto di rottura?
Grazie per questa domanda molto difficile ma molto necessaria. Il burnout si insinua anche perché spesso nel nostro dialogo interiore dipingiamo le nostre difficoltà come fallimenti personali e rafforziamo questa convinzione cercando conferme delle nostre presunte incapacità.
I campanelli d’allarme sono sia fisici che comportamentali. Sul piano fisico, sono frequenti i disturbi del sonno, una certa stanchezza che non trova sollievo neanche con il riposo, dermatiti, emicranie e problemi alla digestione. A livello comportamentale, si alternano indifferenza crescente – come se non riuscissimo a “sentire” più nulla – e reazioni sproporzionate rispetto alla portata delle situazioni.
Con queste condizioni, di solito poi peggiorano anche le nostre relazioni, sia con noi stessi che con le altre persone.
Ci trattiamo male, evitiamo le occasioni di incontro con chi ci potrebbe fare da specchio e ci chiudiamo nel nostro guscio pensando così di riuscire a proteggerci.
Per riuscire a fermarci prima del punto di rottura, suggerisco due esercizi di consapevolezza. Il primo, affinare l’attenzione ai segnali che ci manda il nostro corpo, che spesso sono molto chiari. Siamo noi a sfocarli dicendoci che è “solo stress” o “solo un periodo”. Il secondo: fare attenzione alle variazioni rispetto alle nostre modalità standard di funzionamento, a come stiamo oggi, confrontato a quando stiamo bene.
Ultima domanda, la più importante: se dovessi descrivere il tuo lavoro con una canzone, quale sceglieresti? (Accettiamo anche trash pop, sigle di cartoni animati e canzoni da karaoke!)
You’ll never walk alone, nella versione della band inglese Gerry & The Pacemakers.
È diventata famosa per essere l’inno del Liverpool F.C. e a ogni ascolto la sua melodia fa una magia: quella di ricordarci che quando abbiamo una speranza e una scintilla nel cuore, e delle persone accanto che tifano per noi, non cammineremo mai solə.