Scuro Chiaro

Negli ultimi anni, la figura della matrigna ha subito una significativa evoluzione nel panorama culturale, diventando un simbolo sempre più complesso e sfaccettato. Se per secoli il termine “matrigna” evocava immediatamente immagini di cattiveria e gelosia, oggi la narrativa, il cinema e persino la pubblicità stanno riscrivendo questo archetipo in chiave moderna.

Questa trasformazione riflette cambiamenti sociali profondi: l’aumento delle famiglie ricomposte, le nuove prospettive sul ruolo genitoriale e il bisogno crescente di rappresentazioni autentiche delle dinamiche familiari. La matrigna, da villain senza sfumature, è diventata un personaggio multidimensionale, carico di conflitti emotivi, aspettative sociali e identità in evoluzione. Il cambiamento è evidente sia nella letteratura contemporanea che nelle serie televisive, dove la narrazione esplora le difficoltà, le contraddizioni e le speranze che emergono nei rapporti familiari.

Parallelamente, assistiamo a un trend crescente nell’industria editoriale: romanzi e saggi che analizzano le matrigne non più come figure stereotipate, ma come donne alle prese con ruoli complessi. Per generazioni, la matrigna è stata uno dei simboli più riconoscibili della narrativa universale, incarnando l’archetipo della donna fredda e calcolatrice. Dalle fiabe classiche come Biancaneve e Cenerentola ai miti antichi, il suo ritratto è rimasto ancorato a una visione stereotipata di antagonista familiare.

Oggi la matrigna non è più soltanto un simbolo di malevolenza, ma una donna che vive tensioni familiari, affronta le proprie insicurezze e cerca di trovare un posto in una famiglia che non ha creato da zero.

Il cambiamento di questa rappresentazione riflette tendenze più ampie nel mondo della letteratura, del cinema e delle serie televisive. Opere come il film Maleficent, che trasforma la strega cattiva in una madre amorevole e incompresa, e serie televisive come Once Upon a Time, che umanizza la Regina Cattiva, dimostrano quanto il pubblico sia ormai pronto per storie meno manichee. La cultura popolare si è evoluta per esplorare i legami familiari in tutte le loro complessità, rompendo la rigida contrapposizione tra madre “buona” e matrigna “malvagia”.

Anche la letteratura ha dato il suo contributo. Saggi come Stepmonster di Wednesday Martin offrono uno sguardo realistico e sincero sulle difficoltà che le matrigne devono affrontare nella vita quotidiana, mentre romanzi come Matrigna di Teresa Ciabatti indagano le sfide interiori di una donna in bilico tra accettazione e rifiuto, tra amore e incomprensione. Questi racconti mostrano che essere matrigna oggi significa navigare in acque complesse, tra le aspettative sociali e le emozioni spesso contrastanti legate alla famiglia.

In questo contesto di riscrittura culturale, l’analisi di Silvia Cannarsa si inserisce con grande acume e sensibilità. Esperta di narrazione e autrice di articoli di approfondimento letterario, Silvia esplora il tema della matrigna da tempo, spostandola da semplice antagonista a figura simbolica della complessità familiare moderna. L’intervista di oggi sarà l’occasione per approfondire questi insight, analizzare i trend culturali emergenti e capire come il nostro modo di raccontare le matrigne rifletta un’evoluzione collettiva nelle percezioni sociali e culturali.

Silvia, grazie per essere qui con noi.
Quanto credi che il cambiamento nella rappresentazione delle matrigne rifletta trasformazioni reali nella società? Pensi che la cultura pop stia semplicemente reagendo o stia contribuendo a ridefinire il ruolo sociale della matrigna?

Ma sai, io in realtà non vedo un vero e proprio cambiamento nella rappresentazione della figura della matrigna. Non voglio dire che negli ultimi cinquant’anni non ce ne siano stati, né che non esistano storie – libri, film, serie tv, fino ai cartoni animati – in cui la figura della matrigna sia rappresentata in maniera complessa. Ce ne sono, e sicuramente sono di più di dieci anni fa.

Però, dal mio punto di vista, la nostra comunicazione e il nostro immaginario sono piú impermeabili al cambiamento di quanto vorremmo. Sto tenendo conto delle storie contemporanee in cui la matrigna è ancora rappresentata esattamente come nelle fiabe di Hans Christian Andersen, e ti assicuro che ce ne sono molte di piú di quante immagineremmo. Non voglio dire che ci sia un complotto per far sembrare che le matrigne siano delle persone orribili, ma la cosa piú affascinante è che questa rappresentazione è spesso inconsapevole, tanto che persino chi la legge non se ne rende conto. Significa che da qualche parte quello stereotipo di matrigna = cattivona continua a lavorare dentro di noi.

Libri come Stepmonster, che citavi – tra l’altro, titolo pazzesco – sono stati possibili in contesti molto diversi da quello dell’Europa occidentale del Sud, cattolica. La società e la famiglia americana sono molto più elastiche, veloci e abituate a separazioni, nuove convivenze.

Quella lettura offre comunque degli spunti di riflessione adattabili anche alla nostra cara vecchia Italia dinosaura conservatrice. Una su tutte quella sulla madre naturale: è possibile costruire un rapporto consapevole e sereno con i figli e le figlie acquisite (e con il proprio ruolo di matrigna) quando la madre naturale non approva la nuova unione? È un bel dardo infuocato, e l’autrice risponde seccamente: No, non è possibile, sul lungo periodo.

Su questo, consiglio anche una puntata (in inglese) bellissima e piena di speranza del podcast Dear Sugars.

Nonostante molti progressi, l’immaginario popolare sembra ancora legato a certi stereotipi negativi. Tu stessa sei una matrigna, e ne hai incontrate molte per intervistarle. Quali sono i più forti pregiudizi che resistono?

Prima di tutto dobbiamo ricordarci che arriviamo da centinaia di anni di fiabe, racconti e matrigne mostruose, fattucchiere impenitenti, talvolta carnivore, e  – quando va bene – dominate solo da tentazioni omicidiarie.

Dal mio punto di vista ci sono due livelli di pregiudizi: quelli che gli altri e le altre hanno verso le matrigne, e poi quelli che le matrigne hanno verso loro stesse.

Il pregiudizio peggiore a cui andare incontro è quello che, in sordina, mette zizzania durante le cene: “sotto sotto, in fin dei conti, quella non è la tua famiglia – vivi la vita di un’altra, quindi tu matrigna farai sempre e solo fatica, e finirai con odiare la prole acquisita”.

Questa è solo una versione addolcita di “Specchio, servo delle mie brame” di Biancaneve, ma porta allo stesso risultato: non puoi amare ed essere amata da figli e figlie che non siano tue.

Ma anche il pregiudizio positivo è piuttosto doloroso. È quello che immagina la famiglia allargata come un posto bellissimo, colorato, un po’ rumoroso ma sempre pieno di amore. La conseguenza è che la matrigna è un essere fatato, privo di propri desideri e volontà, se non quello di essere una matrigna perfetta – una mamma paradisiaca sostituta, sorridente, comprensiva oltre ogni limite, che sa occupare una posizione liminale senza mai imporsi.

Entrambi i pregiudizi – in effetti – portano chi viene colpita da essi a cercare da un lato di sconfessarlo (“vedi quanto amo la prole acquisita?”) o dall’altro a provare a essere all’altezza delle proprie aspettative.

Questa versione credo la vivano anche tante madri (tutte?).

Pensi che sia una questione di genere, oppure lo stesso accade anche per la parola “patrigno”?

Su questo sono meno preparata di quanto vorrei, ma credo da tanto tempo che dovrebbe diventare un prossimo approfondimento.

Ti rispondo di pancia: sí, penso sia quasi completamente una questione di genere.

Ho dei dati per dimostrarlo in questo momento? Nemmeno uno. Ho intervistato tanti patrigni quante matrigne per dire la mia? No. Peró so che è così.

Penso che i patrigni abbiano altri problemi, nell’inserimento in una famiglia d’origine, ma non i pregiudizi negativi.

Credo che, qualsiasi uomo che abbia accettato di convivere con la prole di una compagna o compagno, proietti immediatamente un’immagine positiva nell’interlocutore. “Che brav’uomo, che si è pure accollato i figli di qualcun altro”. Insomma, un semplice, autentico eroe di tutti i giorni. E magari stira pure!

In alcuni racconti contemporanei, la matrigna è rappresentata come una donna resiliente, che affronta situazioni emotivamente complesse. Se dovessi riscrivere una definizione del sostantivo “matrigna” per il 2025, quale sarebbe?

Che difficile!

Allora, per me la matrigna è un’adulta di riferimento (per figli e figlie acquisiti) nella stanza. Una prode idealista. Un’indefessa sognatrice. Una persona a cui è capitato di innamorarsi di un’altra persona che aveva già figliato, e ha deciso che aveva abbastanza pazienza.

E infine, quali evoluzioni immagini per la figura della matrigna nelle storie che verranno? C’è un aspetto che pensi sia ancora inesplorato e che meriterebbe attenzione nelle narrazioni future?

In effetti sì. Essere matrigna, soprattutto se lo si diventa prima di diventare madri, smuove una serie di riflessioni sulla propria eventuale maternità. Sul rapporto che una nascita potrà avere sugli equilibri in famiglia, su come verrà accolta, anche dalle famiglie di origine.

Penso che, per forza di cose, le matrigne entreranno sempre di più nelle storie. Esistono, esistiamo, e creiamo gli stessi identici danni dei genitori naturali, ci meritiamo più complessità!

Scherzi a parte, gli scrittori e le scrittrici del futuro ne avranno avuta una nella loro infanzia e adolescenza – molto piú di prima – e questo emergerà naturalmente dalle storie che incontreremo, senza forzature. Fino ad allora, confido che proveremo a guardare il mondo con più attenzione alle sfumature. Spoiler? Non ci riusciremo.

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