Decifrare il presente per immaginare il futuro: questo è il cuore del lavoro di Ornella Messina, strategic planner e trend forecaster con un occhio allenato a riconoscere i segnali culturali che muovono il mondo. Nata in Puglia e adottata da Milano, Ornella ha costruito la sua carriera nel mondo delle agenzie creative, lavorando con brand, team creativi, media e PR per trasformare insight e trend in strategie di comunicazione solide e rilevanti. Ma attenzione: qui non si parla di semplice trendwatching. Il suo approccio è olistico e profondo, unisce dati e creatività, analisi qualitativa e quantitativa, per aiutare i brand a inserirsi in conversazioni culturali in modo autentico e non forzato. In un’epoca in cui il marketing sembra ossessionato dal “cavalcare i trend”, Ornella ci ricorda che il punto non è rincorrere il cambiamento, ma attraversarlo consapevolmente, diventandone parte attiva.
Moda, arte, cinema, musica, social: tutto è parte di un flusso culturale in continua trasformazione, e il suo lavoro consiste nel capire come e dove i brand possano posizionarsi senza sembrare degli ospiti indesiderati a una festa. Perché se la cultura è un dialogo in movimento, la comunicazione efficace è saper dire la cosa giusta al momento giusto, con il giusto tono e nel giusto contesto.
Per BUNS Ornella è la guida perfetta per navigare il rapporto tra cultura, branding e strategia. Con lei parleremo di come si crea una strategia culturale efficace, di quali sono gli errori più comuni che i brand fanno nel cercare di essere “rilevanti” e di come il marketing possa smettere di sembrare una pubblicità in autoplay su YouTube e iniziare a diventare una parte significativa del panorama culturale. Perché oggi più che mai, chi comunica senza comprendere il contesto non sta davvero comunicando, sta solo facendo rumore.

Benvenuta su BUNS, Ornella.
Sei partita dalla Puglia e sei arrivata a Milano, due mondi che comunicano in modi molto diversi. C’è qualcosa del tuo background che ha influenzato il tuo modo di interpretare la cultura? E Milano è davvero la città che detta i trend o è solo più brava a farlo credere?
Vivendo e lavorando a Milano mi sono resa conto di quanto fosse chill la “voce” della Puglia. La Puglia mi ha insegnato un approccio alla comunicazione molto più rilassato, un ‘mo vediamo’ che si traduce in un problem solving che non corre, che si prende il suo tempo ma che – straordinariamente – funziona. È un modo di essere che privilegia una lentezza – però ingegnosa – che pian piano porta ai suoi risultati.
Invece, a Milano, i risultati devono essere immediati, e lo stesso vale per i trend: ne nascono tanti, ma muoiono altrettanto velocemente. È un ciclo continuo in cui spesso si cerca il contro-trend, che però, paradossalmente, segue lo stesso destino: cresce, esplode, va in hype e poi invecchia nel giro di pochissimo.
Questa velocità crea un ambiente estremamente stimolante, ma solo una volta acquisita la giusta prospettiva, senza farsi risucchiare dal turbinio della FOMO. È qui che si coglie il vero valore di Milano: non tanto come città che detta i trend, ma come un amplificatore straordinario. Assorbe, rilancia, e poi passa oltre, lasciando dietro di sé tracce di ciò che ha davvero lasciato il segno.
Personalmente mi piacerebbe vedere un cambio di prospettiva nel trend-setting, abbandonando per un attimo la visione Milanocentrica per dare più spazio al local.
La provincia, spesso sottovalutata, è in realtà una fonte inesauribile di inspirazione, con dinamiche culturali fresche e meno sovraesposte, che meritano di essere osservate e valorizzate a prescindere, non solo quando “conviene” ai brand.
Viviamo in un’epoca in cui i brand vogliono disperatamente essere cool, ma la cultura non è un menu da cui scegliere il trend del giorno. Secondo te, la relazione tra cultura e marketing è più una simbiosi o un tentativo (spesso maldestro) dei brand di infilarsi in conversazioni che non li riguardano?
Sono assolutamente d’accordo: è una simbiosi forzata. Il marketing insegue la cultura, e la cultura, volente o nolente, si nutre anche del marketing. Se ci fermassimo a una visione puramente capitalista, questo equilibrio potrebbe sembrare sostenibile. Ma il problema è che il marketing, nel suo bisogno incessante di attingere a nuovi territori, finisce per spremere e, di conseguenza, snaturare anche quelle nicchie culturali che erano rimaste – giustamente – inesplorate.
Sappiamo bene che il ciclo di vita dei trend è ormai velocissimo, e se ci pensiamo, paradossalmente, la cosa peggiore che possa capitare a un ristorantino di quartiere è finire in hype su TikTok. Non sempre ciò che ha valore resiste, perché l’iperesposizione porta inevitabilmente alla saturazione, alla noia e, spesso, al rigetto.
Oggi tutti parlano di trend forecasting, ma al tempo stesso vediamo una ribellione ai trend stessi: brand che vogliono essere unbranded, persone che rifiutano le mode e tornano all’essenziale. Siamo in una fase di disintossicazione culturale o è solo un altro trend mascherato?
Credo che anche il rifiuto non sia tanto un trend a sé, quanto una fase inevitabile del ciclo stesso dei trend. Allo stesso tempo, noto un bisogno crescente di “silenzio” per riappropriarsi della propria identità, non solo distinguendosi dalla massa, ma anche difendendosi dall’incessante bombardamento di stimoli a cui siamo tutti esposti. E lo stesso vale per i brand: ricordiamo che si comportano come le persone, con un tono di voce, una visione delle cose e una personalità ben definite. Per emergere, devono necessariamente dire qualcosa di diverso (o non dire nulla, che spesso ha la stessa funzione), altrimenti finiscono per perdersi nel rumore di fondo.
Siamo sommersi dai dati: analytics, insights, AI che ci dicono cosa dovrebbe funzionare. Ma alla fine, la cultura non è sempre razionale. Nel tuo lavoro, quanto conta l’analisi dei dati e quanto invece è pura intuizione e sensibilità umana?
La mia piccola battaglia è questa: se un dato è già nero su bianco in un report di ricerca, significa che siamo già in ritardo.
Per mantenere un punto di vista, se non innovativo, quantomeno fresco, trovo essenziale lasciare spazio all’intuizione, all’analisi qualitativa, ai piccoli indizi e ai segnali deboli – quelli che ancora sfuggono alle metriche ma stanno già raccontando qualcosa di importante e possono condurci lontano. Bisogna saper leggere la stanza prima che qualcuno entri e dica qualcosa.
Ultima domanda per te. Spesso si pensa che solo i giganti del mercato possano permettersi una strategia culturale ben fatta. Ma è davvero così? Anche un piccolo brand o un freelance possono inserirsi nei discorsi culturali e diventare rilevanti?
Collegandomi a quanto detto prima, credo che i brand più piccoli, più radicati in una community e meno mediati dall’infinito flusso di processi e approvazioni, abbiano anzi un vantaggio unico nel poter avviare conversazioni autentiche e rilevanti con le persone. Anche se magari non hanno la stessa forza nei CRM dei grandi nomi, sono proprio quei segnali deboli – spesso scartati perché “non supportati da forti data point” – a fare la differenza. Paradossalmente, è proprio grazie a questi segnali che i clienti percepiscono che il brand li ha davvero compresi. Basta avere la lungimiranza di coglierli.