Ereditare il dolore
Il 22 aprile 2021, per la prima volta nella mia vita, ho avuto un attacco di panico. A causarlo, un incendio. Quel giorno è iniziato un viaggio lungo, e doppio: nel profondo della mia psiche, dove albergano le mie emozioni più nascoste, e nel cuore dell’Europa, dove affonda le sue radici il ramo materno della mia famiglia. Un viaggio che non si è ancora concluso, anche se, lungo il percorso, ha trovato un nome: trauma intergenerazionale. Ma andiamo con ordine.
All’epoca, la mia compagna era incinta. La scadenza era appena passata, eppure nostra figlia non aveva alcuna intenzione di uscire dal pancione, e così, sotto consiglio del ginecologo, ogni pomeriggio facevamo una passeggiata per tenere il corpo in movimento. Lungo la via del ritorno, girato un angolo, abbiamo notato del fumo alzarsi dalla via in cui abitavamo. Arrivati lì davanti, abbiamo visto il tetto della nostra casa in fiamme, gente in strada, e una squadra di vigili del fuoco scendere da un camion. In quel momento, il mio corpo si è paralizzato. La vista mi si è annebbiata; i suoni e le voci hanno perso intensità; la pelle mi si è come stirata sul viso. Tutto ciò che riuscivo a sentire era il fuoco dentro di me, nel mio stomaco: un fuoco freddo, eppure intenso, crepitante. Potevo anche visualizzarlo: era azzurro, e dal mio ombelico si espandeva per tutto il corpo, in ogni direzione, polverizzando le ossa, i nervi, i muscoli. Un fuoco che mi annientava, letteralmente.
All’inizio, con la volontà, ho cercato di oppormi. Poi ho cessato di combattere, e anche se la paura è rimasta, a suo modo è stato liberatorio. Di colpo mi sono sentito leggero, ed è allora che è successo: davanti ai miei occhi – o nella mia testa? – è comparso un palazzo enorme, avvolto dalle fiamme, con una torre sulla cui cima c’era una cupola a cipolla. Come avviene talvolta nei film, quando una scena va in dissolvenza e un’altra guadagna il primo piano, mi sono trovato catapultato in un’altra realtà: una piazza di un’altra latitudine, in un’altra epoca. Non ero più a Torino, nel 2021, ma da qualche parte nel nord Europa, e a inizio Novecento. La mia era una visione incongrua, impossibile, che rapidamente, così com’era arrivata, è scomparsa, riportandomi alla realtà: la mia compagna che mi stringe la mano; il corpo che ricomincia a muoversi; il respiro che torna regolare.
Nel frattempo era arrivata un’ambulanza, e con mia sorpresa, era lì per me. L’incendio era stato domato, e si era rivelato meno grave del previsto: era solo scoppiata una canna fumaria; gli unici danni, avremmo poi scoperto, riguardavano le pareti annerite di una mansarda. I medici che mi hanno visitato hanno certificato che il mio era un attacco di panico. Lo hanno riportato nel referto, che ancora conservo, e su quel foglio hanno scritto anche qualcos’altro, a cui nell’immediato non ho dato peso: mi hanno attribuito la nazionalità polacca. Era un banale errore, dovuto alla fretta probabilmente: sono nato in Polonia, ma ho da sempre cittadinanza italiana. Avevano mal interpretato i dati sulla mia carta d’identità. Eppure, simbolicamente, ci avevano visto giusto: ancora non potevo saperlo, ma per risalire all’origine del mio male è proprio la mia identità polacca che avrei dovuto investigare.
A quell’attacco di panico ne sono seguiti altri, accompagnati da una moltitudine di sintomi: incubi notturni, pianti immotivati, stati d’ansia, insonnia o all’opposto improvvisa sonnolenza, al limite della narcolessia. Superando il mio naturale riserbo, ho deciso di andare in terapia: avrei raccontato tutto di me, alla ricerca di indizi sulle reali cause del mio malessere. Lo dovevo a mia figlia, che nel frattempo era nata, alla mia compagna, che aveva bisogno del mio supporto, e senza dubbio anche a me stesso. Ero disorientato; non sapevo più chi ero.
Insieme alla psicologa ho esaminato tutte le opzioni: la paura di diventare padre; i riflessi della pandemia; la memoria di un incidente stradale in cui ho rischiato la vita; l’onda lunga di un trauma infantile. Tutto giocava un ruolo, ma niente giustificava il mio attacco di panico in quel giorno di aprile. Non solo: lungo il percorso ho realizzato con stupore che molti dei sintomi che pativo, e che adesso riconoscevo, si erano manifestati in me fin da quando ero appena un bambino. Alcuni miei comportamenti, timori, e incubi ricorrenti, mi accompagnano dacché ho ricordi. Come se il mio corpo reagisse, da sempre, a uno stimolo antico, forse addirittura innato. Ma davvero può accadere una cosa del genere? Si può effettivamente nascere con un dolore impresso nel corpo, nelle ossa, nella mente? Sembra impossibile, eppure, da un certo punto in poi, la domanda a cui io e la dottoressa abbiamo cercato di rispondere è diventata proprio questa.
Epigenetica e trauma intergenerazionale
Un topino entra in una stanza in cui c’è un intenso profumo di ciliegie. All’improvviso, riceve una piccola scossa elettrica. E poi un’altra, e un’altra e un’altra ancora. Le due esperienze, da un certo momento in poi, s’intrecciano indissolubilmente; per il roditore, quello sarà per sempre il profumo di un trauma. Il topino diventa papà e un giorno suo figlio entra in quella stanza. Non riceve alcuna scossa, però nell’aria c’è sempre quel profumo, e allora – d’istinto – scappa via; niente e nessuno gli ha fatto del male, eppure si è sentito in pericolo. E lo stesso accadrà a suo figlio, il nipote del topino con cui la storia è iniziata. Questo non è un racconto di fantasia, ma la descrizione di un esperimento condotto da due neurobiologi dell’Emory University di Atlanta, Kerry Ressler e Brian Dias, pubblicato nel 2013. Un esperimento concluso con una scoperta sorprendente: le memorie traumatiche si possono ereditare. Ma c’è di più.
Un’altra ricerca, realizzata dalla psichiatra e neuroscienziata Rachel Yehuda al Mount Sinai Hospital di New York, ha svelato che un singolo trauma può essere trasmesso da una generazione all’altra, e in particolare dalle madri ai figli. Con il suo team, Yehuda ha studiato per diverso tempo un gruppo di donne incinta che l’11 settembre 2001 sono sopravvissute al crollo delle torri del World Trade Center. Alcune di loro hanno sviluppato il disturbo da stress post-traumatico, una forma di disagio mentale che ha almeno una ricaduta sul nostro fisico: un basso livello di cortisolo nel sangue, un ormone associato allo stress. Lo stesso parametro – il cortisolo basso – è stato riscontrato nei figli di quelle donne; su tutti, i neonati che all’epoca degli attentati erano nel terzo trimestre di gestazione. In precedenza Yehuda aveva condotto studi analoghi su alcuni sopravvissuti all’Olocausto e sui loro figli, identificando la medesima costante. È così emerso che i traumi psicologici lasciano tracce dirette sia nel fisico di chi li patisce, sia in quello dei discendenti, che loro malgrado risulteranno più esposti al disturbo da stress post traumatico.
Fin qui la biologia. Ma poi c’è la psiche, irrazionale, spesso insondabile, e ad esplorarla dal punto di vista intergenerazionale – fra gli altri – c’è proprio un’allieva di Yehuda, la psicanalista e docente della New York University Galit Atlas. Nel suo splendido libro L’eredità emotiva (Una terapeuta, i suoi pazienti e il retaggio del trauma), Atlas racconta le vite di alcuni suoi pazienti che soffrono gli effetti di traumi patiti dai loro genitori o nonni.
Persone claustrofobiche, tormentate da terribili incubi o dall’idea di morire, che invece di esplorare la loro storia personale si ritrovano a indagare quelle dei loro nonni e genitori; pazienti che vengono a capo dei propri malesseri scoprendo di suicidi, morti premature e fughe avvenute decenni prima, talvolta quando non erano ancora nati. Un’eredità analoga a quella studiata da Yehuda, ma osservata a livello dell’inconscio.
Questo significa che gli eventi della nostra vita possono modificare il nostro DNA? Non proprio, ma ci andiamo vicini. L’ambito in cui lavorano questi scienziati prende il nome di epigenetica: per dirla con Marcus Pembrey, un genetista dell’University College London, stiamo parlando di cambiamenti nella nostra attività genetica che non modificano il nostro corredo genetico. Il nostro DNA rimane lo stesso dalla nascita alla morte, eppure ci sono esperienze – spesso terribili – che possono cambiare significativamente il modo in cui rispondiamo a determinati stimoli, e i nostri figli e nipoti possono ricevere in eredità una predisposizione ai nuovi comportamenti che abbiamo acquisito. E se siamo noi quei nipoti, e quei figli, potremmo ritrovarci un giorno – senza sapere perché – terrorizzati nell’entrare in una stanza che profuma di ciliegie, o paralizzati alla vista di un incendio.
Il trend del trauma intergenerazionale
Qualche giorno fa ero seduto sul divano a guardare una serie Netflix di cui avevo letto delle buone recensioni; s’intitola Un uomo vero, ha un cast di prim’ordine (Jeff Daniels, Diane Lane, Lucy Liu) e racconta di un immobiliarista di Atlanta che affronta un momento difficile della sua carriera.
Una delle trame secondarie riguarda il marito della sua segretaria, un afroamericano che finisce in carcere per un battibecco con un poliziotto bianco che degenera. A un certo punto, non sapendo come scagionarlo, la moglie dice all’avvocato che ha sentito parlare di una nuova teoria, secondo la quale le paure si ereditano; forse suo marito ha un trauma innato che riguarda i poliziotti, e magari possono anche ottenere una diagnosi e usarla in tribunale. La storia poi prende un’altra piega, ma questo non è rilevante; colpisce, piuttosto, che l’argomento del trauma intergenerazionale negli States sia noto a sufficienza per poter entrare in una serie TV mainstream. Fra l’altro, lo studio a cui allude la serie esiste davvero: è un libro scritto dalla ricercatrice Joy Angela Degruy, ed è intitolato Post-Traumatic Slave Syndrome: America’s Legacy of Enduring Injury and Healing.
Questo è un esempio recente, ma ce ne sono altri, molto più significativi. Everything Everywhere All at Once, il film che ha dominato l’edizione 2023 degli Oscar vincendo ben sette statuette (fra cui quelle per miglior film e sceneggiatura), per ammissione dei registi nasce come uno studio sul trauma intergenerazionale.
La trama è troppo complicata per essere riassunta: è un pastiche che mescola sci-fi, dramma, arti marziali e commedia, con personaggi che abitano più dimensioni parallele di un vero e proprio multiverso, ognuna caratterizzata da un diverso destino. Ciò che vale la pena evidenziare è che al centro della storia c’è un’immigrata cinese in America che ha un rapporto conflittuale sia con il padre (pienamente cinese), sia con la figlia (pienamente americana); una doppia tensione che le rende la vita impossibile, fin quando non riconosce che l’incapacità di amare dei suoi genitori, che tanto l’ha fatta soffrire, è il modello che lei stessa replica nella relazione con la figlia. Una distanza emotiva che affonda le sue radici nel trauma dell’immigrazione, mai davvero affrontato, e nelle aspettative – attese o disattese – che ha sollevato.
Ma il film per eccellenza sull’argomento è un altro, di qualche anno prima, e parla, ancora una volta, di gente che abbandona la propria terra: si tratta di Encanto, della Disney.
La famiglia Madrigal vive in una grande casa che è, insieme, un luogo fisico di protezione e identità, e una metafora dei loro legami. La casa è stata costruita dalla nonna Alma quando sono emigrati in Colombia, ed è il simbolo di una nuova vita: se sono arrivati fin lì, in una terra rigogliosa e sicura, è stato grazie a una candela magica, che li ha protetti durante una fuga rocambolesca. Ciò che Alma preferisce non ricordare è che la candela simboleggia anche altro: il sacrificio di suo marito, morto proprio per permettere a lei e ai loro tre figli – allora bambini – di sfuggire all’assalto di un gruppo di uomini malvagi. Il silenzio imposto da Alma negli anni consuma la famiglia, e anche la casa, suo correlativo oggettivo.
La nipote Mirabel, rappresentante della terza generazione, prova a rompere il muro di gomma, ma la resistenza dei familiari è fortissima. Il rimosso è rimosso, e tale deve rimanere: è questa la filosofia di vita a cui si sono votati; tuttavia, alla lunga il dolore e la memoria reclamano il loro posto nella mitologia familiare, pena la morte della famiglia stessa. Le dinamiche al centro di questo film e di Everything Everywhere All at Once sono analoghe, ed entrambe ricalcano quella descritta da Atlas nel suo modello di ereditarietà del trauma: in moltissimi casi – si pensi alle famiglie toccate dalla Shoah – i nonni patiscono e tacciono, i figli non domandano, e i nipoti manifestano i sintomi, almeno finché non iniziano a indagare.
Encanto è uno dei film preferiti di mia figlia. A lei, con tutta probabilità, piacciono i ritmi sudamericani delle canzoni, i colori – caldi e avvolgenti – dell’animazione, e il fatto che ci sia una protagonista femminile. A un certo punto, su mia spinta, io e la mia compagna abbiamo deciso di toglierlo dalla sua routine, questo come altri cartoni della Disney; abbiamo valutato che fosse troppo piccola per apprezzarli davvero, e le immagini troppo forti da digerire fino in fondo. Devo però confessare che da quando lo abbiamo rimosso ho vissuto un sentimento contraddittorio. Da una parte, mi sono sentito rassicurato: il potenziale pericolo era stato disinnescato. Dall’altra, non ho potuto fare a meno di provare disagio: dentro di me, in qualche angolo del mio subconscio, sapevo che qualcosa non tornava. Forse quel cartone animato non minacciava lei, ma me. Per quanto possa sembrare improbabile, Mirabel ero io, e la casa che si andava disintegrando era quella dentro di me. Come lei, avrei dovuto iniziare a domandare, ed è quello che ho fatto.
Si può guarire dal trauma intergenerazionale?
L’attacco di panico che ha dato inizio al mio racconto, sulle prime, mi ha destabilizzato. Mi ha tolto certezze; ha spezzato l’immagine che avevo di me. Tutto ciò che ne è conseguito, invece, mi ha avvicinato alla mia vera identità. Per quanto incredibile, ho scoperto che l’immagine che ho visualizzato quel giorno potrebbe corrispondere a un evento reale, avvenuto quasi 90 anni fa in una cittadina polacca all’epoca tedesca (o meglio, prussiana): Beuthen, oggi ribattezzata Bytom. Il ramo materno della mia famiglia proviene da lì, e proprio in quella città, il 9 novembre 1938, è stato bruciato un enorme edificio al centro di una piazza, con due torri dalle cupole a cipolla: una sinagoga. Non si trattò di un incidente, ma di un atto deliberato: la famigerata Notte dei cristalli nazista.
Non so cosa è successo quella notte in quella piazza, ma le ricerche di Rachel Yehuda, Kerry Ressler e Brian Dias, gli studi di Galit Atlas, il lavoro con la mia psicologa – e, per quello che vale, il mio istinto – nel tempo mi hanno convinto che quell’incendio abbia avuto un impatto traumatico su un membro della mia famiglia, e che gli echi di quel dolore siano giunti fino a me. L’aspetto sorprendente, in tutto questo, è che per oltre 40 anni ho lasciato che una parte delle mie radici rimanesse avvolta nel mistero: sebbene sia nato in Slesia, e mia madre sia polacca, non ho mai imparato la lingua, conosciuto i nomi dei miei avi (eccetto i nonni), o chiesto dove vivessero e cosa facessero. Ho messo fra parentesi un pezzo, enorme, della mia identità. Ho lasciato che il silenzio imposto dalle generazioni precedenti inghiottisse anche me, finché il mio corpo non si è ribellato. Il suo grido di dolore, paradossalmente, ha dato inizio alla mia guarigione.
Lo scorso anno mia nonna avrebbe compiuto 100 anni. Per l’occasione ho fatto un viaggio con mia madre nei luoghi che hanno segnato le loro vite, e insieme siamo andati alla ricerca di informazioni sui nostri antenati. Abbiamo visto alcune delle case in cui hanno vissuto; trovato i loro certificati di nascita o matrimonio in degli archivi; scoperto che hanno cambiato nome e nazionalità senza muoversi da casa, perché la Slesia è da sempre una terra contesa fra polacchi e tedeschi. Siamo stati anche nella piazza dove è stata bruciata la sinagoga. In quel viaggio, inaspettata, mi è inoltre arrivata la proposta di girare un documentario su questa storia. Tutte queste emozioni, per diverso tempo, mi hanno lasciato sopraffatto. Per lavoro mi occupo della scrittura di film e serie TV, ma di fiction. Non ho mai preso in mano una videocamera, men che meno per occuparmi della vita vera. L’idea mi intimorisce, eppure, dopo averci pensato a lungo, mi sono arreso all’evidenza: questa storia chiede di essere raccontata, ed è su di me che ricade questa responsabilità.
Quando l’ho detto alla mia terapeuta, mi ha ascoltato in silenzio (è una di quelle che parla poco), ma già dalla seduta successiva, con garbo sabaudo, ha iniziato a seminare l’idea che il nostro percorso fosse terminato. In effetti, ho dovuto ammettere a me stesso che da quando ho iniziato la mia ricerca genealogica, e ricevuto la diagnosi di trauma intergenerazionale, i miei sintomi – dopo un iniziale peggioramento – sono via via evaporati, fino a scomparire quasi del tutto. Credo che la prassi, in questi casi, sia che il paziente licenzi il medico, e non viceversa, e così è stato. La scorsa primavera ho comunicato alla dottoressa che non sentivo l’esigenza di ulteriori sedute. Subito dopo, lo confesso, mi sono sentito un po’ perso. Le ho chiesto: “E ora che succede?”. E lei ha risposto: “Ora c’è solo una cosa che può fare: parlare di questa storia”. Per la dottoressa è indifferente se scrivo un documentario, un film di finzione, un libro o un articolo (questo articolo, per esempio); per quanto la riguarda, posso anche limitarmi a riempire le pagine del mio diario. L’importante è che non ritorni nel silenzio. “Storytelling is healing” potrei dire, rubando le parole alla protagonista della serie TV The OA, altro magnifico lavoro sul trauma, in questo caso investigato nei suoi effetti immediati.
Ma davvero si può guarire dal trauma intergenerazionale? Da un punto di vista scientifico, ci sono delle ricerche che vanno in questa direzione; ad esempio, quella condotta da Isabelle Mansuy dell’Università di Zurigo, ancora una volta condotta sui topi e incentrata sull’ormone dello stress. La dottoressa Yehuda ha osservato che la terapia cognitivo-comportamentale ha ottenuto dei risultati paragonabili nei veterani di guerra affetti da disturbo da stress post-traumatico, e Dias e Ressler sono riusciti a riconciliare i loro topini con il profumo di ciliegie, sanando la ferita che gli avevano inferto ai fini del loro primo esperimento. E come hanno raccontato al Los Angeles Times Galit Atlas, la psicologa Mariel Buqué e la studiosa di Historical Trauma Ramona Beltran, esistono delle pratiche che permettono di dare sollievo al corpo e alla mente sofferenti, e tutte hanno un comune presupposto: la rottura del silenzio.
Il cinema, il teatro e la letteratura sono pieni di storie in cui una verità taciuta consuma dall’interno un nucleo familiare, e da molto prima che il concetto stesso di trauma intergenerazionale venisse formalizzato. Nel 2001 Sebald ha pubblicato il capolavoro di una vita, Austerlitz, la storia di un uomo che scopre solo da adulto, e per una serie di coincidenze (fortuite? frutto dell’attività del subconscio?), di essere stato uno dei bambini ebrei fatti fuggire dai genitori, nella Cecoslovacchia occupata dai nazisti, verso il Regno Unito, con i famosi treni della speranza.
Un esule tormentato da memorie e incubi incomprensibili, che solo nell’ultima parte della sua vita risale alla propria identità. Se si cercano su internet elenchi di film sul trauma intergenerazionale, quasi sempre compare Il padrino – Parte II, che mette a confronto i comportamenti, simili e ripetuti, degli uomini di tre generazioni di una famiglia criminale italo-americana. E un discorso simile può essere fatto per l’opera teatrale a cui questo film è ispirata, il Re Lear di Shakespeare, scritta secoli fa.
In un’intervista per un podcast, Galit Atlas ha raccontato di un convegno a cui ha preso parte; in quell’occasione, ha iniziato il suo intervento chiedendo quante persone, nel pubblico, ritenessero di soffrire di trauma intergenerazionale: in risposta, si erano alzate solo poche mani. Dopo aver esposto i contenuti delle sue ricerche, ha posto di nuovo la domanda, e stavolta ad alzare la mano sono stati quasi tutti. È un fatto che molti di questi studi riguardano gruppi di persone molto specifici, le cui esistenze sono state segnate da traumi collettivi (carestie, persecuzioni, attentati), ma non è forse vero che tutte le famiglie hanno dei segreti e dei dolori nascosti? La mia di sicuro. E la vostra?