Scuro Chiaro

Si sa, noi italiani abbiamo una rivalità atavica con i francesi, specialmente quando si parla di vino. Così, quando ho letto che i cugini d’Oltralpe estirperanno trentamila ettari di vigneti per fronteggiare la sovrapproduzione e il calo dei consumi, mi si è formato sulle labbra un sorrisetto compiaciuto: meno vino francese sul mercato vuol dire più possibilità per quello italiano, giusto?

Superato l’iniziale momento di patriottica soddisfazione, ho deciso di approfondire la questione e mi sono imbattuto in un interessante report uscito sulla rivista Wine Economics and Policy a proposito dei dati sulle esportazioni mondiali di vino. Quest’ultime nel 2023 sono diminuite del 6,5% in volume rispetto al 2021, mentre in termini di valore si è registrato un calo pari al 4,6% rispetto all’anno precedente. E qui ho smesso di sorridere.

Come si spiegano questi dati? Gli autori del report, Simone Mueller Loose e Rafael del Rey, se lo chiedono fin dal titolo: si tratta di sfide temporanee o strutturali? Nel primo caso il fenomeno sarebbe semplicemente dovuto al contesto geopolitico precario, al ridotto potere d’acquisto dei consumatori e alle scorte eccessive accumulate durante la pandemia, nel secondo, invece, sarebbero in atto dei cambiamenti profondi nel modo in cui il vino viene consumato. Quando ho sentito puzza di trend culturali mi sono fiondato a prendere la mia cassetta degli attrezzi del Data Humanism, ho stappato una bottiglia di Nebbiolo e mi sono subito messo al lavoro. 

In medio stat vinum

La prima, evidente tendenza che si è sviluppata negli ultimi anni rispetto al consumo di alcolici è la moderazione. Questo è il primo trend da tenere in considerazione, ma anche il più importante, perché  si tratta di un fenomeno intergenerazionale: tutti noi, dai Boomers agli Z, beviamo di meno.

Questo comportamento è dovuto a diversi fattori. Il primo – ahimè anche questo intergenerazionale – è quello economico. Viviamo, infatti, da almeno vent’anni un periodo di stagnazione economica che ha visto il susseguirsi di diverse crisi e l’impennata dell’inflazione: gli stipendi non sono cresciuti abbastanza da tenere il passo con l’aumento dei prezzi, per cui il costo della vita è diventato molto più alto rispetto al passato. In un contesto del genere, i consumatori sono stati obbligati a rivedere le proprie priorità di spesa, privilegiando l’acquisto di beni considerati essenziali, tra i quali non rientrano gli alcolici.

Se la moderazione è stata spesso una scelta obbligata, in molti altri casi – e questo è il secondo fattore – è invece diventata una decisione consapevole: siamo molto più attenti alla nostra salute e al nostro stile di vita. Questa attenzione al benessere, mentale e fisico, si è sviluppata come una reazione collettiva alle sfide globali che abbiamo affrontato: prendersi cura della propria salute e condurre una vita equilibrata sono diventati valori di riferimento, quasi un modo per esercitare un controllo sul proprio benessere, in risposta a un contesto che appare sempre più incerto e fuori dal nostro controllo.

A guidare la rivoluzione salutista è stata, in questo caso, soprattutto la Generazione Z, che ha fatto della moderazione una scelta di vita. Ma non è tutto. C’è, infatti, un terzo elemento che sta alla base di questo autocontrollo, cioè l’inclusività, altra caratteristica che i sociologi non mancano mai di ascrivere alla Gen Z. I più giovani bevono di meno anche perché sono inclusivi rispetto a chi non può bere, per motivi religiosi o di salute.

In che modo si riflette la moderazione nel calice? Come ci informa il già citato report, anche nel 2023 vini bianchi, rosati e bollicine guidano i consumi, a discapito dei vini rossi, che sono in calo ormai da anni. Queste tipologie di vino sono generalmente non solo quelle che costano meno, ma anche quelle con una minore percentuale alcolica. Moderazione economica e salutista.

Ma non si tratta solo di questo, perché la moderazione sta trainando l’ascesa dei vini dealcolati, i cosiddetti No-Low Alcol. Questi prodotti mantengono il gusto e le caratteristiche aromatiche del vino tradizionale, ma presentano un tasso alcolometrico compreso tra lo 0,5% e il 9% nel caso dei vini parzialmente dealcolati, e inferiore allo 0,5% per quelli totalmente dealcolati. Nel periodo compreso tra il 2018 e il 2023 le vendite di vini fermi dealcolati sono aumentate del 13%, mentre per i vini frizzanti si è registrata una crescita del 5,6%. A impressionare sono, però, soprattutto le stime per il futuro: si parla di una crescita del 7%-10% all’anno in tutto il mondo. Ancora una volta la moderazione trionfa.

La strada della dealcolizzazione rappresenta una possibile risposta alla crisi delle vendite, e anche un’alternativa migliore all’estirpo dei vigneti. L’Unione Europea ne ha autorizzato e regolamentato la produzione con una direttiva nel 2021, ma in Italia non si possono ancora realizzare. Proprio in questi giorni si sta risolvendo un’accesa polemica scoppiata a marzo tra i sostenitori di questa tipologia di vino e chi, come il ministro Lollobrigida, è contrario alla sua produzione e a definirla “vino”. Non entrerò nel merito, ma mi sia concesso che per stare dietro al dibattitto politico nel nostro Paese serve un vino decisamente alcolico.

Ma torniamo a noi. I dati sul successo del No-Lo significano che smetteremo tutti di bere? La risposta è, naturalmente, negativa. Semplicemente, alterneremo sempre più spesso bevande alcoliche a bevande non alcoliche, vino compreso. Si inserisce in questo contesto il Sober curious movement, che invita a sperimentare questa forma di sobrietà per un periodo di tempo, così da apprezzarne i benefici: non si tratta, cioè, di chiudere definitivamente con l’alcol, ma di esplorare le possibilità che, in termini di salute fisica e mentale, un periodo di astinenza può offrire.

Sempre in quest’ottica si stanno diffondendo, inoltre, i primi sober bar. Nati negli States, sono già arrivati anche nel Vecchio Continente e puntano a ridefinire il concetto di vita notturna: l’accento non è più posto su cosa si beve, ma sulla qualità dell’esperienza e sulla socializzazione. In questo tipo di locali vengono, infatti, serviti esclusivamente cocktail analcolici o a bassissimo contenuto di alcol, preparati però con la stessa cura dei drink tradizionali e utilizzando miscele che replicano il gusto dei più diffusi alcolici, pur non contenendo neanche una goccia di alcol. Lo scoglio più arduo da superare è stato in molti casi l’idea che l’alcol funzioni da insostituibile lubrificatore sociale, ma, a quanto pare, ci si può davvero divertire anche senza bere. Se siete scettici, a Settimo Torinese ha da poco aperto il primo sober bar del Piemonte: provare per credere.

La sfida della sostenibilità

Negli ultimi anni, si è assistito a un cambiamento significativo nel comportamento dei consumatori: oggi più che mai scegliamo brand che rispecchiano i nostri valori e principi. Questa tendenza riflette un’evoluzione del concetto di consumo per cui non è più solo il prodotto in sé a essere determinante, ma anche e soprattutto l’identità dell’azienda che lo produce. Per questo accanto alla moderazione l’altro grande trend che emerge dai dati sui consumi è la ricerca crescente da parte del consumatore di sostenibilità, tanto ambientale quanto sociale. Ancora una volta a trainare la tendenza è la nuova sensibilità di Millennial e Z, ma anche in questo caso il fenomeno sta diventando intergenerazionale.

Queste dinamiche generali si riflettono anche sul mondo del vino. Complice anche la rinnovata attenzione alla salute di cui parlavo prima, la sempre crescente domanda di vino biologico ha spinto le aziende ad agire, portando in Italia a un incremento del 125% della superficie dedicata a vigneti biologici negli ultimi dieci anni. Questo trend sembra destinato a durare: si stima, infatti, che il mercato mondiale del vino biologico crescerà del 12% l’anno tra il 2022 e il 2028. La stessa tendenza si riscontra, seppur con numeri più ridotti, anche per vini biodinamici, naturali e vegani, nonché per la viticoltura eroica. A guidare la riscoperta di questi vini sono ancora una volta Millennial e Z, per cui la sostenibilità ambientale è già diventata un valore imprescindibile.

Parlando di sostenibilità ambientale non dobbiamo poi dimenticare la questione del packaging. Anche in questo caso la richiesta da parte dei consumatori è di avere confezioni più leggere e più facilmente riciclabili. A confermarlo è il report sulle tendenze del 2023 di cui parlavo all’inizio, in cui si legge che il mercato del bag-in-box wine, seppur ancora modesto, è cresciuto anche l’anno scorso, continuando su una scia positiva che prosegue dal 2017. Sempre in quest’ottica si stanno affacciando sugli scaffali del supermercato nuovi formati di packaging, tra cui le lattine e le bottiglie in PET, potenzialmente ideali per andare incontro alla tendenza verso vini freschi, fruttati e in un formato più piccolo rispetto alla tradizionale bottiglia. Per quanto agli appassionati di vino come il sottoscritto possa far accapponare la pelle la sola idea di mettere il nettare degli dèi in delle lattine, questa potrebbe veramente essere una strategia per vincente per conquistare i palati dei più giovani. Mi ci gioco la bottiglia di Barolo Ginestra del 2016 che custodisco gelosamente.

Accanto a quella di tipo ambientale, si sta sviluppando poi una nuova attenzione anche per la sostenibilità sociale: è e sarà sempre più importante per il consumatore che anche le aziende vitivinicole siano in grado di dimostrare il loro impegno verso il benessere dei lavoratori prima ancora che dell’ambiente. Insomma, siamo tutti abbastanza stufi di vedere al telegiornale scandali di caporalato come quelli scoppiati quest’estate nelle Langhe. Se ve lo stavate chiedendo, la risposta è sì: questo cambio di sensibilità è ancora una volta merito della Gen Z. Prego, non c’è di che.

Quale futuro per il vino?

Alla Scuola Holden mi hanno insegnato che quella circolare è un’ottima struttura per un testo: l’eroe parte da un punto, supera delle sfide che lo trasformano e poi ritorna, più consapevole, nello stesso punto da cui è partito. Ritorniamo, quindi, all’estirpo dei vitigni francesi.

Ora sappiamo che la crisi dei consumi di vino riposa su cause profonde, cioè su dei mutamenti che sono avvenuti nel modo di intendere questo prodotto. Una volta che questi cambiamenti vengono compresi e analizzati, la questione fondamentale sta nel chiedersi come ci si adatterà. Una possibile strada è quella intrapresa dalla Francia ed è piuttosto logica: tagliando l’offerta, si pareggia la domanda e il mercato torna in equilibrio, giusto? Forse nell’immediato sì, ma questa soluzione ha il grande difetto di non tenere in conto le tendenze a lungo termine che abbiamo brevemente ripercorso.

Una seconda via possibile consiste nel ridefinire, sulla base dei bisogni e delle sensibilità dei consumatori di domani, il modo in cui si consuma il vino, passando da packaging innovativi fino ad arrivare ai vini dealcolati. Credo che questa rappresenti una strategia vincente, perché non rimane miope rispetto ai cambiamenti in atto nella società, ma soprattutto perché è potenzialmente in grado di avvicinare molte persone al mondo del vino. Nonostante ciò, questa strada rimane percorribile solo per i vini da tavola e non si può applicare per ovvi motivi alle grandi denominazioni del Paese. A lato non dobbiamo anche dimenticare che trasformare radicalmente la produzione comporterebbe costi non sostenibili per le piccole-medie imprese, che rappresentano poi l’eccellenza qualitativa dell’offerta italiana.

Esiste, infine, una terza strada – più lunga e tortuosa, ma anche più promettente – che passa attraverso una rivoluzione del modo in cui il vino viene raccontato. Coloro che, tra di voi, sono arrivati fino a questo punto scopriranno che finora vi ho mentito. Mi spiego meglio. I numeri e i trend che ho analizzato sono tutti veri, ma ho omesso fino a questo momento un dato fondamentale: sempre nel 2023, annus horribilis per il vino, le esportazioni di liquori italiani hanno registrato un +115% rispetto al 2017. Più in generale, il mercato globale degli spirits continua a crescere, e lo stesso vale per la birra.

Perché al vino non è accaduto lo stesso? Tenendo conto di questi dati, possiamo ipotizzare che il problema stia nella comunicazione: mentre le aziende produttrici di liquori e superalcolici si sono molto impegnate nello svecchiare la propria immagine e nel coinvolgere le nuove generazioni, quelle che producono vino non sono state altrettanto brave. Chi produce liquori ha sì creato nuovi prodotti sulla base dei cambiamenti dei consumi (su tutti, i Ready To Drink), ma è sul versante della comunicazione che si registra il vero scarto. Per converso il problema del vino sembra stare nell’aver perso buona parte del suo appeal culturale, soprattutto rispetto alle nuove generazioni.

Per questo, occorre svecchiare l’immagine del vino e raccontarne le caratteristiche in modo accessibile e non pedante. Ma questo non basta, perché, come abbiamo visto, al consumatore odierno non interessa più tanto il prodotto in sé, quanto l’esperienza che quel prodotto può offrirgli. Bisogna allora raccontare, prima ancora che le caratteristiche organolettiche, tutto ciò che un calice di vino nasconde: territorio, storia, cultura, ambiente, lavoro e valori.

In definitiva, per salvare i vigneti dovremmo permettere al vino di fare ciò che gli riesce meglio: radunare le persone attorno a un tavolo e raccontare loro una storia.

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