Un’era di restyling e rivoluzioni visive
Negli ultimi anni il mondo dei brand sembra essere entrato in un’era di trasformazione continua. È come se ogni grande azienda avesse sentito l’irresistibile bisogno di rifarsi il look, abbandonando pezzi di storia per abbracciare un futuro più minimalista, pulito e spesso un po’ anonimo. Uno dei casi più clamorosi (e recenti)? Jaguar. Il marchio britannico, sinonimo di lusso e tradizione, ha detto addio al suo iconico giaguaro Leaper – che evocava eleganza e velocità – per un design minimalista che molti hanno paragonato a un’astronave di Dune.
L’intenzione di Jaguar è chiara: posizionarsi come brand all’avanguardia, pronto a dominare il mercato delle auto elettriche e a “rompere gli schemi”. Ma il pubblico non l’ha presa bene. Il commento sarcastico di Elon Musk su X, «Vendete ancora auto?», è solo la punta dell’iceberg: gli appassionati di motori e i nostalgici del design classico si sono scatenati, accusando Jaguar di aver perso la sua anima. E questo è solo uno dei tanti esempi che raccontano il tumultuoso viaggio del rebranding negli ultimi mesi.
Non solo Jaguar: questo 2024, in particolare, è stato un anno di rebrand per tutti i gusti (e tutti i mal di pancia). KitKat ha optato per un ritorno alle origini con un logo dal sapore retrò, mentre giganti come PayPal hanno puntato su linee più semplici, accodandosi alla tendenza del “less is more”. Ma se i loghi cambiano faccia, i nomi non sono da meno. La Campbell Soup Company ha deciso di abbandonare la parola “soup” per diventare semplicemente The Campbell’s Company, un nome più inclusivo che rappresenta l’intera gamma dei suoi prodotti. La reazione? Divisa: chi applaude la modernità, chi invece si sente privato di un simbolo che era parte della cultura pop americana.
Cambiare il nome o il logo di un brand non significa solo aggiornare un’immagine, ma anche mettere mano a un patrimonio emotivo condiviso da milioni di persone. E ogni cambiamento tocca corde profonde.
Perché ci arrabbiamo per i cambiamenti nei brand?
I motivi per cui reagiamo così visceralmente ai cambiamenti nei brand non sono solo sentimentali, ma anche psicologici. Quando un nome o un logo familiare viene modificato, non perdiamo solo un’immagine, ma anche una parte della nostra esperienza personale legata a quel marchio. Pensiamo a Dunkin’ Donuts: quel “Donuts” evocava colazioni in compagnia, il profumo delle ciambelle calde, un’idea di comfort. Eliminandolo, il marchio ha rischiato di apparire più freddo, meno personale.
Ma c’è di più: i nomi dei marchi non sono mai solo parole. Ogni lettera, ogni suffisso o prefisso, contribuisce a creare un’immagine nella nostra mente. Guardando alla lingua inglese, prendiamo il suffisso “-s”: sembra un dettaglio insignificante, ma può trasformare completamente la percezione di un brand.
Un nome al plurale come “Starbucks” ci fa sentire parte di una comunità globale, un gruppo di amanti del caffè che condividono un’esperienza comune. È il concetto di entitativity: l’idea che l’unione faccia la forza, che il plurale rappresenti qualcosa di più grande della somma delle sue parti. Al contrario, un nome al singolare come “Apple” trasmette individualità e unicità, qualità ideali per un marchio che vuole essere visto come esclusivo e innovativo.
Al contempo, per i marchi di lusso o di nicchia, il singolare è spesso una scelta più strategica. Il motivo? I consumatori premium vogliono sentirsi speciali, non parte di una folla. Un nome singolare trasmette esclusività, raffinatezza, quell’aura di “unico nel suo genere” che giustifica un prezzo più alto.
Minimalismo: evoluzione o appiattimento?
E poi c’è il tema del minimalismo, che sembra dominare ogni nuovo progetto di branding. Loghi più semplici, colori neutri, font geometrici: l’obiettivo è rendere tutto pulito, moderno, essenziale. Ma a quale prezzo? Il caso di Jaguar è emblematico. Se da un lato un design minimalista può sembrare futuristico, dall’altro rischia di alienare chi si identifica con la storia e i valori tradizionali di un marchio.
Questo vale anche per Campbell’s. Abbandonare “soup” non è stato solo un modo per aggiornarsi, ma anche per rendere il brand più generico. La domanda è: possiamo davvero affezionarci a un marchio che perde i dettagli che lo rendevano unico? La risposta non è così semplice. Da un lato, i brand devono evolversi per rimanere rilevanti. Dall’altro, ogni cambiamento può essere percepito come una rottura, una perdita.
Nostalgia vs innovazione: l’eterno dilemma
Alla fine, ogni azienda si trova di fronte a un dilemma eterno: come bilanciare innovazione e tradizione? Cambiare è rischioso – si rischia di perdere i clienti più fedeli – ma non cambiare lo è altrettanto. Viviamo in un mondo in cui i consumatori sono bombardati da informazioni, loghi e messaggi pubblicitari. Distinguersi è fondamentale, ma farlo senza sacrificare il legame emotivo che le persone hanno con un brand è una sfida enorme.
E forse è proprio questo il punto. Quando un brand cambia nome o logo, non stiamo reagendo solo a un’estetica diversa. Stiamo reagendo alla sensazione che qualcosa di familiare, di rassicurante, sia stato strappato via. In un’epoca di cambiamenti incessanti, i marchi che amiamo sono punti di riferimento. E quando loro cambiano, ci sembra di perdere un pezzetto di stabilità in un mondo già troppo caotico.