Scuro Chiaro

Partiamo da questo articolo, dove pare che l’emergere di un sovraccarico di gergo sui social media possa risultare opprimente per alcuni utenti più maturi. Tuttavia, questa volta, alcuni di quei “maturi” non sono solo Baby Boomer o membri della Generazione X, ma rappresentanti della Generazione Z. Il fenomeno del “sovraccarico di slang” si verifica quando termini gergali nati sui social media vengono raggruppati in frasi che, per molti, sembrano prive di senso. Ci troviamo di fronte ai primi segnali di un vero e proprio cambiamento: la Generazione Alpha sta iniziando a esercitare un’influenza significativa sul discorso online. Ma è davvero già così?

In questo contesto, si inserisce perfettamente l’ultima pubblicazione di Beatrice Cristalli, linguista esperta di linguaggio e comunicazione sui social media, Dizionario per boomer. Capire le nuove generazioni. Con il suo sguardo attento e critico, ha dedicato anni allo studio dei fenomeni linguistici emergenti sulle piattaforme digitali, e alla loro influenza sulle dinamiche sociali e culturali contemporanee. Il suo lavoro si concentra proprio sul modo in cui le nuove generazioni plasmano il linguaggio e il significato all’interno di comunità virtuali in continua evoluzione, dimostrando come lo slang non sia solo un modo per esprimere un senso di appartenenza, ma anche uno strumento di sovversione delle norme e delle aspettative sociali.

Ascoltiamo il suo racconto.

Beatrice, ripartiamo da quell’articolo e dal concetto di “sovraccarico di slang”, che sembra indicare un’accelerazione del ciclo con cui i nuovi termini nascono, si diffondono e vengono superati. È così vero anche per il contesto culturale italiano? Quali sono, secondo te, i fattori principali che stanno determinando in generale una rapidità nell’evoluzione del linguaggio sui social media? E ancora, come credi che influenzi il modo in cui le persone più giovani costruiscono la loro identità e comunicano tra loro?

Secondo me sì. Tra i fattori riconosco una dinamica peculiare: se da un lato i nuovi termini cercano di abbracciare la complessità, dall’altro rischiano di intrappolarla in “etichette” che semplificano eccessivamente. Per fare un esempio, definire qualcosa come una “red flag” in senso assoluto rischia di appiattire il contesto relazionale, impedendo una comprensione più profonda e sfaccettata di una conoscenza. Per quanto riguarda l’impatto sulle nuove generazioni, penso che il linguaggio rapido e fluido dei social network giochi un ruolo cruciale nel modo in cui costruiscono la propria identità. Permette agli/alle adolescenti sicuramente di sperimentare molte possibilità (di espressione, di pensiero ecc.), ma può aumentare una certa “iperconsapevolezza” social(e), in cui si sentono costantemente valutati o incasellati in una narrazione collettiva.

Pensiamo alle parodie Millennial contro Generazione Z, solo per fare un esempio. Questo può influenzare non solo il modo in cui comunicano, ma anche la profondità delle connessioni che riescono a stabilire. La parola del 2024 “brain rot” secondo l’Oxford University Press è un esempio efficace di questa contaminazione: non solo descrive un cervello sovraccarico di input digitali, ma rappresenta anche il modo in cui questi ultimi modellano il linguaggio e il pensiero quotidiano.

Nella tua esperienza di studio del linguaggio sui social media, hai notato differenze significative tra le modalità in cui ad esempio Millennial e Generazione Z adottano e interpretano lo slang? Ci sono fattori culturali o tecnologici che potrebbero spiegare queste differenze, e come si riflettono nella percezione delle rispettive identità generazionali?

L’aspetto più evidente, e che trovo particolarmente affascinante, è la contrapposizione tra la vocazione “content” dei Millennial e il rifiuto quasi totale, da parte della Generazione Z (e ancora di più della Alpha), di aderire a quell’estetica. I Millennial hanno abbracciato una narrazione visiva e verbale curata, mediata da filtri e post-produzione, che racconta una vita quasi idealizzata. La Generazione Z, invece, punta a smontare quel modello, condividendo spesso momenti di vulnerabilità (es. pianti). Sono contenuti che personalmente trovo un po’ “estremi” e che mi lasciano perplessa, soprattutto per come spostano sempre di più il confine tra ciò che è privato e ciò che diventa pubblico sui social. In ogni caso, noto una ribellione all’estetica perfetta, alla maschera Millennial, per abbracciare invece un’autenticità più immediata.

Piattaforme come BeReal richiedono di essere “veri” in un preciso momento, senza tempo per costruire un’immagine. Questa ricerca di essenziale si riflette anche nel linguaggio: meno parole, più immediatezza. Certo, anche se l’uso di abbreviazioni accomuna Millennial e Generazione Z, dal mio punto di vista possiamo scorgere una differenza importante nel significato culturale di queste scelte. Per i Millennial, abbreviare rispondeva a vincoli tecnici, come gli SMS a caratteri limitati; per la Generazione Z, invece, abbreviare è una precisa scelta stilistica, un atto identitario.

L’ascesa di piattaforme come TikTok ha portato alla creazione di un linguaggio visivo e sonoro che si mescola con lo slang testuale. Quanto pensi che questo intreccio tra vari livelli di comunicazione stia influenzando la struttura stessa del linguaggio digitale? Stiamo assistendo a una trasformazione più profonda del linguaggio come lo conosciamo, con il potere delle immagini e dei suoni che sfida la centralità della parola scritta? Oppure è solo una fase, una moda?

TikTok ha generato da un lato un vocabolario specifico (ritorno all’importanza della parola “brain rot” che incarna l’attitudine a parlare attraverso meme, trend e challenge: un vero incubo per chi non segue la piattaforma!), dall’altro, ha dato vita a un vero e proprio linguaggio performativo, fatto di pose ed espressioni codificate. Penso, ad esempio, alle bambine influencer (ahimè) che replicano espressioni e movenze delle colleghe più grandi – un fenomeno che, per quanto inquietante, dimostra il potere di TikTok nel plasmare modelli di comunicazione.

E poi c’è quello che io definisco il “parlare diminutivo”, diffuso soprattutto dalle influencer: magliettina, sandaletto, borsettina. È una scelta linguistica che veicola una precisa estetica e appartenenza. Ho forti dubbi che possa trasformarsi in qualcosa di più di una moda.

Oggi vediamo brand e aziende che cercano di avvicinarsi ai giovani adottando lo slang nelle loro comunicazioni. Pensi che questo sia un modo efficace per connettersi con le nuove generazioni, o c’è il rischio che questa strategia risulti forzata o addirittura alienante? In che modo i brand possono navigare queste dinamiche complesse senza sembrare – diciamocelo – ridicoli?

Personalmente, queste scelte mi lasciano perplessa. Se l’obiettivo è semplicemente far parlare di sé – anche attraverso meme o critiche – allora possiamo dire che la missione è compiuta. Ma se l’intento è costruire una connessione autentica con un pubblico più giovane, direi che il risultato spesso non è all’altezza. Mi ricorda certi professori che, dopo aver letto il mio dizionario, entrano in classe sfoderando espressioni degli Zeta pensando di essere credibili. E invece accade l’esatto contrario. Cos’è andato storto? Tutto.

Appropriarsi dello slang generazionale è un’operazione delicata, è un gioco di confini che richiede un equilibrio sottile, ma soprattutto rispetto. Non dimentichiamo che lo slang, per quanto possa sembrarci divertente e a volte strano, è un codice identitario, un modo per creare appartenenza. Usarlo senza comprenderlo davvero o “strumentalizzare” la sua funzione primaria rischia di risultare poco autentica.

E infine, torniamo al tuo bellissimo ultimo volume. Ci sono parole che non sono finite nel Dizionario per boomer. Capire le nuove generazioni ma che avresti voluto aggiungere?

Da quando il volume è andato in stampa, sono emerse tantissime espressioni nuove e interessanti, il che conferma quanto il linguaggio delle nuove generazioni sia in continua evoluzione. È anche il motivo per cui ero un po’ riluttante a “bloccare” lo slang in un dizionario: un formato che rischia di diventare statico rispetto alla fluidità di queste parole. Magari in futuro ci sarà un aggiornamento, chissà!

Nel frattempo, alcune delle parole che mi hanno colpito di più e che sono finite nella mia cartella di appunti sono: “GOAT” (vale anche per l’emoji della “capra”) acronimo di “Greatest of All Time”, usato per celebrare qualcosa o qualcuno di straordinario; “baddie”, un termine per descrivere una persona, determinata, sicura di sé, stilosa e con un atteggiamento “da boss” che non rinuncia alla femminilità; infine “thriftare”, che indica l’azione di sistemare o personalizzare un capo di seconda mano, tipicamente acquistato al mercato o in un negozio dell’usato. Questo ultimo termine penso che rispecchi una sensibilità della Generazione Z verso la sostenibilità e la creatività.

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