Il dissing è comunicazione?
Chiediamolo al latino. Lezione numero uno: la Treccani ci insegna che l’etimologia del verbo comunicare significa ‘partecipare all’altare’, ovvero rendere comune qualcosa, alla portata di tutti. Lezione numero due: si dissava già ai tempi di Catullo, quando quel romanticone prometteva ad Aurelio e Furio di fargli molto di peggio che dare mille basia. Qui per farsi le stesse risate della me al terzo anno di liceo classico.
Sicuramente, il poeta dei carmi non si era formato sulle strategie marketing stile Falsissimo, ma il suo odi et amo potrebbe essere considerato un oscuro presagio dell’effetto polarizzante dei social media e della natura conflittuale della comunicazione digitale. Più che un altare aperto a tutti, ormai sembra di stare nel pubblico di una puntata della WWE –la lotta, in realtà, non è altro che uno spettacolo delle illusioni, dove nulla è lasciato al caso. Ma, si sa, lo spettacolo deve continuare. E infatti, eccome se sta continuando.
Fedez VS Tony Effe, Adani VS Caressa, i Me Contro Te VS i DinsiemE, Sangiuliano VS Boccia: quelle due magiche lettere “VS” fanno partire il clickbaiting, noi compulsivamente aggiorniamo i profili social dei duellanti in attesa di nuove offensive e controffensive, le ricerche impennano e le visualizzazioni pure. Ovviamente, generando impressioni molto più velocemente di qualsiasi strategia marketing.
La domanda allora cambia e ne chiama altre. Possiamo dire che il dissing sta modificando la comunicazione digitale? O è questa che sta modificando la grammatica del dissing? O, ancora, siamo di fronte alla prova che il noto “Purché se ne parli”, alla fin fine, ha sempre avuto ragione?
Che nessuno moderi i tony
Per rispondere, partiamo dalle origini. La nascita del termine ‘dissing’ risale alla sottocultura rap della New York tra gli anni ’80 e ’90. Abbreviazione di ‘disrespect’ e detto anche ‘beef’, più che uno scambio randomico di insulti, è subito diventato un vero e proprio principio sacro del genere, grazie a diss track come Hit ‘Em Up. Stiamo parlando della faida più celebre e tragica di tutte: Tupac Shakur VS Notorious B.I.G. nota anche come quella tra West Coast e East Coast.
Vent’anni dopo e spostandoci di qualche fuso orario in avanti, arriviamo a quella che più di tutte ha segnato la nostra memoria a breve termine: Tony Effe VS Fedez. Perché, se pensiamo al “la Chiara dice che mi adora”, lo canticchiamo ancora? Forse, perché quello che all’apparenza è stato un dissing ortodosso, dentro ai confini del genere rap, è in realtà ben altro.
Il ring si sposta dalle Instagram Stories alle piattaforme musicali, e i profili tirati in mezzo continuano ad aumentare. Non si può, infatti, non citare il coinvolgimento di un brand come Red Bull, che esce dalla sua neutralità e fa da megafono con il progetto 64 Bars a Tony. C’è chi si inebria e passa sopra a sessismo e violenza, chi si indigna e grida alla trovata di marketing. Che, di per sé, lo è senza dubbio: il rapper di Rozzano aumenta le interazioni dei suoi post del 255% e la sua nemesi romana guadagna più di 255 mila follower, secondo i dati dell’osservatorio Arcadiacom.it. Ciliegina sulla torta, l’instant marketing che ne segue. Un esempio tra tanti:

Marketing o non marketing, Fedez e Tony Effe hanno ridefinito le regole del dissing nostrano, consacrando definitivamente la sua emancipazione dal genere rap. E lo fanno facendo rap.
Un’altra conferma arriva poco dopo, e questa volta sono i Me Contro Te i protagonisti. Coppia di creator ai tempi di Webboh con una fortissima fanbase delle fasce d’età più basse, nella faida ai DinsiemE si appropriano di un linguaggio ai loro antipodi, improvvisandosi rapper. Culmine del dissing è infatti la hit Copia Copia Copia, barre da quasi 7,5 milioni di visualizzazioni su YouTube. Toni insolitamente accesi per i paladini della Gen Alpha, con parole velenose che dimostrano come il dissing riesca anche nella missione impossibile di combinare mondi opposti senza minare l’identità della brand identity dei creator. E, anzi, aprendo loro nuovi target e nuove opportunità, come il cambio di rotta con il podcast Me Con Te, dove addirittura insegnano a dissare insieme a Shade, ghostwriter della loro track. E così, il dissing non solo diventa comunicazione. Ma vero e proprio rebranding.
Quando la rabbia fa click
Quindi, il dissing fa barre ma ha sempre meno legami con il rap. Come è possibile? Qui interviene un altro fenomeno dei social media, che con questo linguaggio condivide lo stesso albero genealogico. Si chiama rage baiting, e consiste nella pratica consapevole di alcuni creator di creare dei contenuti che susciteranno commenti e impressioni d’odio, manipolando gli utenti per moltiplicare le visualizzazioni e guadagnando numeri che, normalmente, sarebbero stati irraggiungibili. Le piattaforme premiano ciecamente questi contenuti, e il circolo vizioso continua ad alimentarsi.
A metterlo al mondo, è stata la trasformazione dei social e la conseguente riduzione della nostra soglia d’attenzione, la stessa che ci spinge a cliccare d’istinto articoli clickbaiting solo per le sembianze polarizzanti dei titoli. Si chiamano ‘hook’, e sono frasi, suoni o tagline uncino che ci fanno dire “okay voglio saperne di più”, tenendoci incollati fino alle 2 di notte a scrollare TikTok.
Ma, nel caso di rage baiting, la questione è ancora più stratificata. Secondo il Dr William Brady, studioso delle interazioni tra cervello e nuove tecnologie, la presa che ha su di noi un contenuto negativo è da individuare in un bias “incorporato nel nostro apprendimento”, che ci indica che, a quel contenuto, dobbiamo “prestare davvero attenzione”. Così, questi Capitan Uncini moderni non solo manipolano gli utenti, ma li spingono a rispondere con altrettanti contenuti negativi, premiati a loro volta dalle piattaforme.
Non sempre però è così. A volte, un hook negativo genera un risvolto positivo. Come nella campagna TikTok di Airalzh, onlus che promuove la ricerca medico-scientifica sull’Alzheimer fondata da Rihan Aluan, dottoressa in Neuroscienze Cognitive e Riabilitazione Psicologia e modella-creator che fa informazione sull’alopecia universale. Per finanziare la ricerca, l’onlus ha promosso un’attività di poster solidali contenenti frasi vere e significative di pazienti affetti da Alzheimer, con una strategia vincente. All’apparenza, Rihan dissava dei creator famosi, per poi ribaltare la narrativa invitandoli a comprare il prodotto. Creator dal calibro di Matteo Varini e Giulia Valentina, che ha anche risposto e donato.

Il risultato? Messaggi di support ed elogio, ma anche commenti di chi probabilmente non si era spinto oltre i primi cinque secondi del video e chiedeva il motivo del perché tanto odio verso il creator del cuore. Ma, soprattutto, centinaia di migliaia di visualizzazioni, più di dieci mila euro donati e richieste di collaborazione e partecipazione dalla community stessa.

Guerre false, guerre vere
Le regole del dissing le detta il marketing, ora più che mai. Ma succedeva anche ai tempi in cui l’unico medium era la tv e le adv erano ancora unskippable. A dissarsi, erano i grandi brand. Mc Donald’s VS Burger King, Coca Cola VS Pepsi, Apple VS Microsoft. Si chiama Competitive Advertising, ed è uno dei metodi più scorretti, ma anche più scaltri, per rubarsi a vicenda il dominio del proprio settore. Una pratica così borderline che in molti Stati, e anche in Unione Europea, viene regolamentata da leggi.
Ma, contrariamente a quanto avviene sui social, la rotta della competizione tra brand sembrerebbe pian piano invertirsi, portandoli quasi a strizzarsi l’occhio, nello spirito di farsi, in qualche modo, pubblicità a vicenda. Un esempio è l’instant marketing di un Burger King di New York che, per Halloween, si è letteralmente travestito da Mc Donald’s. E, rimanendo in tema, non si può non citare l’ironico botta e risposta tra i due colossi del Fast Food che si contendevano le attenzioni di mamma Chat GPT.
From enemies to almost lovers, sono i brand a portare una nuova buona pratica del dissing, che non genera hating: forse definirli lovers è esagerato, ma almeno si rispettano. E ci strappano pure qualche sorriso.
Eppure, di fronte all’utilizzo delle stesse tecniche polarizzanti di questo linguaggio per manipolare gli utenti social anche in occasioni cruciali come le elezioni americane – in cui il dialogo si riduce alla domanda ‘Trump or Kamala?’, e sono rabbia e odio a spostare gli utenti da una fazione all’altra – il buon esempio dei brand non basta. E nemmeno noi possiamo limitarci a chiedere ‘team dissing sì’ o ‘team dissing no’. Ma sicuramente, c’è bisogno di iniziare a parlarne. Da dove? Come direbbe Catullo: “nescio, sed fieri sentio et excrucior”.