New York.
La città che non dorme mai.
Il sogno, la giungla, il palcoscenico del mondo. Chiunque l’abbia visitata almeno una volta sa che New York non è solo una metropoli, ma un’esperienza sensoriale: luci, odori, rumori e storie che si intrecciano a ogni angolo di strada. Ma viverci? Quella è un’altra storia.
Lo sa bene Viviana Venneri, che ha creato il progetto Dimmi di New York, un viaggio nelle voci e nei racconti di donne italiane che hanno scelto di chiamare questa città casa. Viviana ha deciso di raccogliere testimonianze di italiane che vivono a New York da più di due anni, perché – come dice lei – «capire questa folle metropoli in meno tempo è impossibile».
Il suo progetto è un mix perfetto tra esplorazione sociale e narrazione autentica, con un occhio di riguardo per le esperienze femminili, ricche di dettagli e sfumature personali. Ma non solo: Viviana porta anche le persone alla scoperta della città con i suoi tour, dove non si limita a raccontare storie, ma le fa vivere attraverso materiali cartacei, immagini e documenti che rendono l’esperienza ancora più immersiva.
Abbiamo avuto il piacere di farle qualche domanda per scoprire di più su Dimmi di New York e sulla sua visione della città che tanto affascina e spaventa. Ecco cosa ci ha raccontato.

Come nasce l’idea di Dimmi di New York? C’è stato un momento preciso in cui hai capito che volevi raccontare le storie delle donne italiane a New York?
Sì, in realtà i momenti chiave sono stati due. Il primo è nato da una telefonata con un’amica francese – artista, viaggiatrice, mente aperta – che, mentre chiacchieriamo del più e del meno, mi propone di creare due nuovi tour sulla New York degli italiani: uno sulla mafia e l’altro su Little Italy.
Little Italy ha un’indubbia rilevanza storica, ma così com’è oggi non mi rappresenta. Forse, inconsciamente, proprio per questo è un luogo che tendo a evitare. E ridurre l’italianità alla mafia? Uno stereotipo superato. Michael Corleone, Tony Soprano, Tommy DeVito sono personaggi straordinari sullo schermo, e nei miei tour mi capita di citarli parlando di cinema, ma senza dar loro più spazio del dovuto.
Così mi sono chiesta: come raccontare la comunità italiana di oggi a New York? È nato Dimmi di New York, un blog di interviste al femminile. Mi piace parlare con le donne e ascoltare le loro storie, uniche ma, per certi versi, vicine anche alla mia. Unico requisito: devono vivere qui da almeno due anni, per distinguere chi questa città la abita davvero da chi è solo di passaggio.
Come spesso accade, poi, i progetti evolvono. Il secondo momento chiave è arrivato leggendo The Intimate City di Michael Kimmelman, che racconta New York attraverso passeggiate con architetti, storici e amici che offrono prospettive diverse sulla Grande Mela. Nei miei tour mostro la mia visione della città ma, dopo questa lettura, ho sentito il bisogno di conoscere anche quella degli altri, di scoprire come vivono e interpretano New York persone che magari in certi quartieri si muovono anche meglio di me. E così oggi sono arrivata a circa cento interviste (non le ho ancora trascritte tutte sul blog) e non riesco a smettere!
New York è una città che richiede tempo per essere capita. Cosa ti ha fatto capire davvero questa città dopo quasi sei anni?
New York mi ha fatto capire perché tanti immigrati, in passato, si siano sentiti accolti qui. Sei un newyorchese dal primo giorno in cui metti piede in uno dei cinque distretti. Non succede ovunque. E poco importa chi tu sia o da dove tu venga. Con tutti gli oneri e gli onori che questo comporta. Non parli bene l’inglese? Non lo capisci? Fatti tuoi, devi impararlo in fretta. Qui non esistono scuse del tipo abbi pazienza, sono straniero, perché, in fondo, lo sono quasi tutti. E la pazienza è merce rara: si va troppo di fretta per poterne avere.
New York mi ha insegnato che le differenze possono convivere, a volte in modo caotico, altre con sorprendente armonia. E che barriere di religione, pelle, cultura possono dissolversi, come accade ogni anno nell’ultimo giovedì di novembre, durante il Thanksgiving, una festa che qui celebrano davvero tutti.
New York mi sta insegnando a non prendere le cose troppo sul personale e a evitare ogni tipo di vittimismo. È difficile, ma se qualcosa non va come vorrei, se le persone non si comportano come mi aspetto, posso rimanerci male, ma anche sdrammatizzare. Qui si ricomincia in fretta. New York non è per tutti: richiede resistenza. Ma se ce l’hai, ti tempra le spalle.
Mi ha fatto anche capire che, per la società americana, spesso ciò che non è produttivo è inutile. E questo mi ha fatto realizzare — di conseguenza — che amo gli Stati Uniti, ma che probabilmente si tratta di un amore con data di scadenza.
Infine, New York mi ha fatto capire che una città non è solo un luogo. New York ad esempio ha una personalità forte, ambiziosa, resiliente e creativa. E un’energia che puoi decidere di assorbire o di respingere, ma che mai ti lascerà indifferente.
Qual è la differenza più grande tra il vivere a New York e il semplice visitarla come turista?
Rispondo a questa domanda con un esempio concreto. I turisti che mi accompagnano nei miei tour si dividono in due gruppi: i sognatori, quelli che esclamano Ma che meraviglia vivere qui! Come sei fortunata!, e i terrorizzati, quelli che invece mi chiedono Ma come fai a vivere in questo caos? Io non ci riuscirei mai.
La differenza tra i primi, i sognatori, e chi a New York ci vive davvero è che dalla nuvoletta si cade in fretta. Dopo qualche anno, la visione idilliaca della città svanisce e si fanno i conti con la realtà. New York è cara, caotica, veloce, spesso cinica e stancante. Eppure, per molti residenti, resterà sempre New York or Nowhere.
La differenza tra i terrorizzati e i newyorkesi invece è che questi ultimi evitano certe zone come la peste – proprio quei luoghi dove i turisti, sognatori o terrorizzati che siano, fanno tappa fissa. Times Square, alcuni tratti della Fifth Avenue, il lato sud di Central Park con le carrozze dei cavalli o Bryant Park sotto Natale, sono off-limits per chi vive qui. I terrorizzati non sanno che a New York esistono quartieri tranquillissimi, come alcune zone di Brooklyn e del Queens. E persino Manhattan, se ci si sposta abbastanza a nord, a Inwood o Yorkville, può sorprendere per la calma e il silenzio che non ci aspetterebbe di trovare.
Nel tuo progetto dai molta importanza ai dettagli e alle emozioni. C’è un racconto che ti ha particolarmente colpito o emozionato?
Sono tantissimi. C’è chi mi ha parlato del suo arrivo qui da bambina e di come, crescendo, da adolescente, abbia rifiutato la propria italianità per il desiderio di integrarsi e sentirsi come tutti altri. Una volta adulta, mi ha emozionato invece percepire tutta la sua gratitudine nei confronti della sua famiglia, che le ha trasmesso l’amore e l’orgoglio per le sue radici.
C’è chi mi ha raccontato della paura e del dolore di non poter tornare in Italia durante il Covid, un’esperienza che anche io ho vissuto e che mi ha toccata profondamente.
C’è chi ha perso un genitore da lontano, chi ha provato sensi di colpa per essere distante dai propri cari e non aver potuto celebrare momenti importanti.
Chi mi ha descritto la solitudine che si può provare in questa città.
E chi, mentre si faceva intervistare da me, aveva appena ricevuto la notizia che avrebbe dovuto lasciare New York per trasferirsi altrove e me lo raccontava con le lacrime agli occhi.
Oltre alle interviste, organizzi anche tour in città. Cosa rende i tuoi tour speciali rispetto alle classiche visite turistiche?
Chi ha fatto almeno un tour con me lo sa: ho una vera fissa per Hamilton di Lin-Manuel Miranda. L’ho visto tre volte (and counting, come si direbbe in inglese).
Non appena Broadway ha riaperto dopo la fase più dura e pesante del Covid, sono corsa a teatro. Sarà stata l’emozione di tornare a condividere qualcosa con altre persone, fuori dalle mura di casa, ma quella sera in sala si percepiva un’energia speciale, diversa dal solito. Alcuni spettatori si sono alzati in piedi e hanno cantato a squarciagola ogni brano, parola per parola. Tra di loro c’era chi si era persino vestito con abiti d’epoca, perché Hamilton parla della Guerra d’Indipendenza Americana. E io ho pensato: solo qui può succedere una cosa del genere. Solo a New York.
Ma quante volte mi è capitato di pensarlo, può succedere solo a New York, in questi anni? La verità? Tantissime.
Ed è così perché solo qui esistono i newyorchesi, che sono il vero capolavoro di questa città. Sgangherati, nevrotici, folli, ma unici.
Così nei miei tour ho deciso di dare spazio alle loro storie. Racconto di artisti, cantanti, musicisti, pittori, poeti, medici, librai, impresari, baristi e via dicendo – più o meno famosi – che hanno reso grande questa città.
E a quel punto, a un turista europeo non importa più se la storia di New York non è antica come quella di Roma o se i palazzi del Lower East Side non sono così eleganti come quelli di Parigi. Le persone si lasciano catturare dai racconti, e si fanno trasportare. E accompagnano quel che dico anche guardando i grandi quaderni che porto sempre con me. Pieni di foto, citazioni, mappe e disegni.
Dal tuo osservatorio privilegiato da abitante della Grande Mela, ci sono dei trend che stanno facendo capolino in città?
Se me l’avessi chiesto sei anni fa, ti avrei travolto con un elenco infinito di dettagli. All’epoca anche entrare da Trader Joe’s mi sembrava un’esperienza antropologica, un osservatorio sociale in miniatura. Ora i miei occhi si sono abituati alle lenti di New York, e faccio più fatica a isolare i veri trend: ne sono parte anch’io, mio malgrado.
Una cosa, però, mi colpisce ancora. Qui si parla con estrema naturalezza di temi che in Italia restano tabù (anche se, paradossalmente, però, in certi ambienti il politically correct è così rigido che ci si ritrova a pesare ogni parola). Prendi ad esempio il congelamento degli ovuli: qui è normale pensare che si tratti di una possibilità che molte donne dovrebbero considerare.
E poi ci sono i “figli” non umani. Ho visto un bar chiudere i battenti per lasciare spazio a una clinica dentistica per animali a quattro zampe e a una panetteria per cani dietro casa. Non stupisce, visto che è perfettamente normale passeggiare con il proprio cucciolo in un passeggino o portarlo in giro in un marsupio.
E ancora: a New York tra i giovani va di moda fare le code. Per qualsiasi cosa. Fuori da negozi di vestiti che magari fanno sample sale, ma non solo. Poco fa camminavo con mia figlia per lasciarla a casa di un’amica. E c’era una fila di ragazzi sui vent’anni fuori da un negozio, generalmente vuoto, che proseguiva oltre l’isolato. Mi hanno spiegato che c’era un toy, una bambolina, che avevano messo in vendita eccezionalmente nel weekend. E quindi erano tutti lì per comprarla. Ma l’ho visto fare per tutto. Un modello di cappellino con visiera nuovo. Il caffè offerto per una settimana da un bar che ha appena aperto in zona. E sono file di ore. C’è chi si porta anche la sedia da casa. Ma generalmente non è cool e lo fanno i più anziani.
Ma l’aspetto che più mi sorprende è l’uso dello spazio pubblico. Dopo il Covid, New York ha vissuto l’esplosione del pickleball. Ogni pezzo di cemento libero può trasformarsi in un campo da gioco nel giro di pochi minuti. La gente si porta tutto da casa: rete, racchette, palline. E così il weekend prende forma, tra partite improvvisate e un’informalità tutta newyorkese.