Scuro Chiaro

Fino a non molto tempo fa erano piccoli mondi da ascoltare in cuffia: voci che ci accompagnavano nei viaggi in metro, durante le pulizie di casa o nelle notti insonni. I podcast erano la casa dell’intimità, dello slow content, delle storie raccontate all’orecchio e non all’occhio. Oggi, però, quel formato così “caldo” e personale sta vivendo una trasformazione che non possiamo più ignorare.

I podcast sono esplosi, lo sappiamo. Da nicchia per appassionati sono diventati un fenomeno culturale mainstream, anche in Italia. Dalla politica al true crime, dal self-help all’infotainment, ormai c’è un podcast per tutto — e soprattutto, per tutti. Ma con questa crescita è arrivato anche un cambiamento di forma (e di sostanza): sempre più spesso, i podcast si guardano.

L’abbiamo visto con Muschio Selvaggio e BSMT prima, e poi con Pulp Podcast, solo per fare qualche esempio: YouTube è diventata una delle principali piattaforme di ascolto. Il video, da semplice supporto promozionale, è diventato parte integrante dell’esperienza. Non è solo una questione di “dove” ascoltiamo, ma di come ci relazioniamo ai contenuti. Le nuove generazioni – cresciute tra TikTok e reels su Instagram – cercano esperienze multisensoriali e cross-mediali. E i creator si stanno adeguando in fretta: videocamere accese, scenografie curate, montaggi ritmati, podcast che sembrano talk show, reaction video, backstage. È la trasformazione del podcast in oggetto visivo e condivisibile, clip-friendly e virale.

In Italia, il trend è più recente ma ben visibile. Dai grandi nomi dell’intrattenimento che sbarcano su Spotify con produzioni ad alto budget, ai creator indipendenti che pubblicano su YouTube e TikTok mini-pillole tratte dai propri episodi, l’onda è partita. E non è solo un fenomeno estetico: cambiano le logiche di engagement, le metriche del successo, le aspettative del pubblico. Scopriamo nuovi podcast da una clip virale su Instagram, non più solo da una classifica su Spotify. Li ascoltiamo mentre scorriamo il feed, o li guardiamo a schermo intero come se fossero una serie.

In mezzo a tutto questo, la domanda è: cosa resta dell’intimità dell’audio? Il podcast come “luogo sicuro” dove sentirsi vicini a una voce, a una storia, a un punto di vista — sopravviverà alla spettacolarizzazione? Oppure sta semplicemente evolvendo, aprendosi a nuove forme di relazione con chi ascolta (e guarda)?

Per capire davvero dove stiamo andando, possiamo immaginare il podcasting come un viaggio in tre tappe. La prima è quella pionieristica, intorno al 2014: tempi gloriosi, in cui bastava un microfono, una buona storia e una manciata di feed RSS per costruire comunità. I contenuti si scaricavano, si ascoltavano in solitudine, spesso in momenti sospesi dal resto del mondo. Pochissima interazione, ma un senso fortissimo di connessione. In Italia, si iniziava appena a scoprire questo formato, spinti da curiosità e passaparola.

Poi, tra il 2017 e il 2020, cambia tutto (la pandemia poi ci ha messo lo zampino). Gli smartphone diventano una costante nelle nostre vite, le app di streaming si moltiplicano, e il podcasting diventa più accessibile. Non dovevamo più cercare il file giusto, bastava cliccare su “play”. È l’epoca dell’espansione, in cui anche da noi il podcast inizia ad assumere un ruolo più popolare, più quotidiano. Chora Media, ad esempio, nasce proprio nel 2020.

E poi c’è l’era attuale, quella post-pandemica. Qui le cose si complicano — e si accendono. Il podcast esce dalle cuffie e si mostra: sempre più visivo, sempre più interattivo, sempre più distribuito su mille schermi. Lo ascolti dallo smart speaker in cucina, lo guardi in auto con Apple CarPlay, lo scopri su TikTok tra una ricetta e un meme. La frontiera non è più solo cosa ascolti, ma dove e come lo incontri. YouTube è oggi la piattaforma regina del podcasting globale, con numeri da capogiro e una capacità di raccomandazione che fa impallidire le vecchie directory.

Una delle rivoluzioni silenziose di questa fase è la ricercabilità. I podcast non sono mai stati facili da trovare. Troppi feed, troppe app, troppe interfacce. E l’audio, si sa, non si sfoglia come un carosello di immagini. Ma ora le cose stanno cambiando. YouTube e Spotify investono nella scoperta intelligente, negli algoritmi che suggeriscono “quello che ti piacerà”, nei tag, nei sottotitoli, nei formati ibridi. Non è solo marketing: è la nuova grammatica dell’engagement.

Un altro motore potente? I social, tanto per cambiare. Le persone scoprono i podcast perché li vedono. Perché ne condividono un frammento. Perché una clip di 30 secondi finisce virale su Reels. L’audio, per quanto affascinante, resta difficile da far girare in un mondo costruito su immagini. Gli audiogram non bastano più. E così il formato cambia, si adatta, diventa anche visivo per poter viaggiare meglio nei canali di distribuzione che oggi contano di più.

In questo scenario, anche in Italia stiamo assistendo a un’accelerazione. I podcast si trasformano in show da vedere, con produzioni sempre più ibride, contaminazioni tra creator, brand, influencer, VIP, prof e giornalisti – da Luca Bizzarri a Selvaggia Lucarelli, da Alessandro Barbero a Cecilia Sala.

Curioso poi come, in realtà, il podcast – nella sua natura di audio – venga dato per spacciato ogni tot anni: sembra che ogni nuova ondata mediatica debba decretare la fine della precedente. Eppure, la radio è ancora viva. E i podcast sono la sua reincarnazione più agile, più libera, più personale. L’audio ha una capacità straordinaria di adattarsi, di trasformarsi senza perdere la sua essenza. La verità? Non è in pericolo. Sta solo evolvendo, ancora una volta.

Ma attenzione: evolvere non significa rimanere uguale. Il podcast che si guarda non è semplicemente un podcast con una videocamera accesa. È un’altra cosa. Non sei più solo con una voce nelle orecchie mentre lavi i piatti o fai una passeggiata. Sei spettatore di una scena, a volte di un vero e proprio spettacolo. Ti ritrovi davanti a due persone che parlano, a un tavolo illuminato, con microfoni imponenti, magari con il pubblico in studio. È contenuto, sì, ma è anche coreografia.

E qui si perde qualcosa. Una delle magie del podcasting era proprio la libertà dallo schermo – complice nel 2020 anche la cosiddetta zoom fatigue. Quel modo così speciale di abitare i contenuti mentre fai altro, con le mani occupate ma la mente aperta. L’audio lasciava spazio all’immaginazione: creava immagini interiori, mondi mentali, visioni soggettive. Come leggere un libro. Ogni ascoltatore costruiva la propria scenografia. Era un mezzo visivo, paradossalmente, ma dentro la testa.

Oggi invece ci muoviamo in un ecosistema dominato dalle immagini. Scrolliamo, zoomiamo, condividiamo. E quindi è naturale che anche i podcast si adeguino. Soprattutto ora che da esperimenti artigianali si sono trasformati in prodotti di brand, di media company, di piattaforme. L’industria porta struttura, qualità, investimenti. Forse la risposta non è scegliere tra audio o video, ma trovare nuovi modi di pensare all’audio nel video. Come farlo vivere senza perderne la forza. Come usare le immagini per sostenere, non sovrastare, la voce.

E poi c’è l’intelligenza artificiale, l’altra grande protagonista silenziosa (ma non troppo) di questa nuova era del podcasting. Sta ovunque, anche dove non ce ne accorgiamo: nei tool di editing, nei suggerimenti automatici, nella trascrizione in tempo reale, nella traduzione simultanea. Grazie all’AI, oggi produrre un podcast è più facile che mai. I software fanno pulizia audio, montano, tagliano, sottotitolano. In certi casi, creano persino la voce che ascoltiamo. Una rivoluzione tecnica che ha abbassato drasticamente le barriere d’ingresso, democratizzando la produzione e aprendo il campo a nuove voci.

Ma qui si apre un’altra questione, più sottile, più umana. Perché se è vero che l’AI permette a più persone di produrre contenuti, è altrettanto vero che rischia di erodere proprio ciò che rendeva il podcast così speciale: l’autenticità. Quella sensazione di ascoltare qualcuno che ti parla per davvero, con la sua voce imperfetta, il suo ritmo, le sue pause. Le voci generate dall’AI stanno migliorando a vista d’occhio, ma qualcosa – ancora – manca. E forse non è solo questione di tecnologia.

È quel sentire che ci fa dire “questa è una persona vera, che ha vissuto quello che racconta”. È l’intimità emotiva. E forse proprio mentre tutto diventa più generato, più artificiale, più patinato… quella connessione umana tornerà a essere un valore centrale. Non possiamo sapere con certezza se il pubblico saprà sempre distinguere tra un contenuto prodotto da una persona e uno creato da una macchina. Ma il bisogno di storie autentiche, raccontate da voci autentiche, difficilmente svanirà.

La verità, come spesso accade con l’AI, non sta in un bianco o nero. Non è “fa bene” o “fa male”. È un paesaggio sfumato, da esplorare con curiosità. E dipende molto anche dal tipo di formato. Dall’altra parte, i podcast narrativi, i documentari sonori, le serie true crime con sound design raffinato, tutti quei formati che giocano su atmosfera, scrittura, scelte artistiche, sono ancora lontani dall’essere completamente automatizzati. E forse è giusto così. Perché certe sfumature, certe emozioni, certi silenzi non si generano: si sentono.

Il punto, forse, non è difendere l’umanità contro l’AI. Ma trovare nuove strade in cui tecnologia e sensibilità possano coesistere, contaminarci senza annullarci. Restare aperti. E curiosi.

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