È straordinariamente affascinante osservare da vicino l’intima relazione che si sviluppa tra l’essere umano e i territori virtuali, plasmati dalla tecnologia che ormai permea le nostre abitazioni e i nostri luoghi di lavoro. Tra le scienze umane, esiste una disciplina relativamente recente che si occupa di questo legame: l’antropologia digitale, erede diretta dell’antropologia culturale. Questo campo di studio si focalizza sulle tracce che gli esseri umani lasciano in Rete, analizzando i comportamenti e le interazioni con i dispositivi tecnologici, strumenti che fungono da portali d’accesso e mezzi di trasporto verso il vasto mondo online. In effetti, l’iperconnessione ha ridefinito profondamente la nostra cultura, intesa come l’insieme di modelli e pratiche che scandiscono la nostra quotidianità. La tecnologia, presente sulle nostre scrivanie, nelle nostre tasche e persino al nostro polso, ha modificato il modo in cui comunichiamo, ricordiamo, dormiamo, sogniamo e prendiamo decisioni. Pensiamo, ad esempio, a piattaforme come Tripadvisor e Booking.com, che ci hanno consentito di fare scelte più ponderate grazie alla condivisione di esperienze all’interno di una community globale di viaggiatori.
L’influenza di questi strumenti non si limita però soltanto al contesto dei viaggi, ma si estende a quasi ogni ambito della nostra esistenza. Le decisioni che un tempo richiedevano tempo e riflessione possono oggi essere prese in pochi minuti, grazie a recensioni, commenti e suggerimenti che ci guidano come mai prima d’ora. In questo nuovo ecosistema digitale, la tecnologia non è solo uno strumento, ma diventa un’estensione del nostro modo di essere, una lente attraverso cui percepiamo e interpretiamo la realtà.
Il campo dell’antropologia digitale è in piena espansione, dando vita a una nuova generazione di ricercatori online impegnati a studiare come le persone utilizzano e attribuiscono significato alle tecnologie. Tra i principali protagonisti di questa disciplina si distingue Daniel Miller, professore di antropologia presso l’University College of London, considerato il pioniere dell’antropologia digitale. Nel 2012, Miller ha avviato il “Social Networking and Social Sciences Research Project“, un ambizioso progetto quinquennale che ha coinvolto nove antropologi nell’analisi dell’impatto globale dei social media in diverse parti del mondo, compresa l’Italia, con particolare attenzione al Sud del Paese. I risultati di questo progetto sono stati resi disponibili gratuitamente attraverso una serie di pubblicazioni intitolate Why We Post, tradotte anche in italiano. Questi documenti offrono una visione approfondita di come le diverse comunità globali interagiscono con i social media, evidenziando le specificità culturali locali nell’uso di queste piattaforme. Un esempio particolarmente interessante riguarda lo studio condotto sulle donne italiane e il loro rapporto con i social media circa otto anni fa.
“[…] La visibilità limitata delle figure di donne negli spazi pubblici corrisponde a una assenza di visibilità sui social media. È estremamente insolito per le donne sposate postare foto di se stesse su Facebook, che limitano alle occasioni speciali, come feste di compleanno, riunioni familiari, o eventi specifici con amiche. L’assenza di fotografie che rappresentano il loro corpo è bilanciata dall’abbondanza di immagini di oggetti domestici, memi, fotografie artistiche o foto dei loro figli. In questo caso, le trasformazioni nel corso della loro vita riproducono il modo in cui cambia la loro visibilità negli spazi offline della città. Dalle donne sposate, specie dopo che sono diventate madri, ci si aspetta che mutino il modo in cui appaiono negli spazi pubblici e che esaltino i loro ruoli di mogli e madri. Di conseguenza sui social media non mostrano apertamente immagini di se stesse, che potrebbero essere interpretate come segni di flirt.”
I risultati hanno mostrato come i social media rappresentassero non solo uno strumento per rimanere connesse e condividere momenti di vita quotidiana, ma anche un mezzo per esprimere la propria identità, partecipare a discussioni pubbliche e plasmare la propria immagine sociale. Allo stesso tempo, le piattaforme digitali evidenziavano tensioni tra tradizione e modernità, con le donne che navigavano tra le aspettative culturali e la crescente autonomia che la tecnologia consentiva loro di sviluppare. Questo studio ha aperto nuove strade di riflessione sul ruolo dei social media nel ridefinire le dinamiche di genere e la percezione sociale nelle diverse aree del mondo, offrendo uno spaccato su come le tecnologie digitali influiscano in modo diverso a seconda dei contesti culturali e sociali in cui vengono utilizzate.
Nel 2017, il professor Daniel Miller ha avviato un nuovo progetto di ricerca, The Anthropology of Smartphones and Smart Ageing, volto a esaminare l’impatto degli smartphone sul modo in cui le persone di mezza età affrontano temi legati alla salute e al benessere. Attraverso questo studio, l’obiettivo è sfruttare il potenziale dell’antropologia digitale per rendere le applicazioni mobile dedicate alla salute più sensibili ai contesti socio-culturali. Il progetto, della durata di cinque anni, è documentato in tempo reale dai ricercatori coinvolti tramite blog pubblicati sul sito dell’UCL (University College London), dove vengono condivise le osservazioni raccolte dagli undici siti di ricerca sparsi in tutto il mondo: Irlanda, Italia, Camerun, Uganda, Brasile, Cile, Trinidad, Gerusalemme Est, Singapore, Cina e Giappone. Miller e il suo team hanno l’intenzione di trasformare i dati raccolti in una serie di libri e monografie a libero accesso, rendendo i risultati fruibili sia per un pubblico di antropologi che per lettori interessati al tema, con il fine di trasformare l’evidenza empirica in narrazioni comprensibili e accessibili. Questa iniziativa vuole rendere conto di come gli smartphone stiano influenzando il nostro modo di vivere, specialmente nell’ambito del benessere e dell’invecchiamento, integrando la prospettiva antropologica con le innovazioni tecnologiche.
Uno dei principali istituti al mondo dedicati all’etnografia digitale è il Digital Ethnography Research Centre (DERC), che ha sede presso il Royal Melbourne Institute of Technology (RMIT) nello Stato di Victoria, in Australia. Il centro si concentra sulla comprensione del mondo contemporaneo, in cui le tecnologie digitali e mobili sono ormai inseparabili dagli ambienti sociali e dalle relazioni che modellano la nostra vita quotidiana. La ricerca condotta presso il DERC non ha solo fini accademici, ma si propone di comprendere meglio fenomeni di consumo di massa, come l’impatto delle piattaforme di streaming, che hanno profondamente trasformato la cultura televisiva su scala globale. Tale approccio multidisciplinare aiuta a cogliere le complesse dinamiche del nostro tempo, evidenziando come la tecnologia plasmi in modo pervasivo le esperienze umane.
Riconoscendo il valore delle tracce umane, Netflix ad esempio ha saputo combinare l’analisi dei suoi big data, riguardanti le abitudini di visualizzazione degli utenti, con veri e propri studi etnografici. Grazie a questa sinergia, la piattaforma ha scoperto un aspetto fondamentale del comportamento dei suoi spettatori: invece di sentirsi in colpa per aver passato ore davanti alla TV, le persone si divertivano a fare binge watching. Questa intuizione ha rivoluzionato la strategia di distribuzione di Netflix, portando la piattaforma a rilasciare intere stagioni di serie TV in una sola volta, anziché pubblicare nuovi episodi settimanalmente, come era la norma. Quello che oggi diamo per scontato è il risultato di una sofisticata integrazione tra i numeri e uno sguardo umano attento ai comportamenti sociali. Attraverso l’analisi combinata di dati quantitativi e qualitativi, Netflix ha compreso meglio i desideri e le aspettative del proprio pubblico, anticipando tendenze che hanno trasformato il modo in cui consumiamo contenuti multimediali. La fusione tra tecnologia avanzata e approccio antropologico ha reso la piattaforma un pioniere nel rispondere in modo personalizzato ai bisogni degli spettatori, modellando l’industria dello streaming e ridefinendo il nostro modo di vivere l’intrattenimento.
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Tratto, ispirato e ampliato da:
#Datastories. Seguire le impronte umane sul digitale (ed. Hoepli)