In questi ultimi tempi, l’attenzione verso un linguaggio più inclusivo è aumentata portando a una maggiore sorveglianza di personaggi pubblici e brand. Un esempio di qualche mese fa è il caso della modella di Gucci Armine Harutyunyan, sovraesposta al giudizio mediatico tra chi sosteneva che fosse vittima di bodyshaming e chi invece rivendicava la “libertà” di poter dire che è brutta. Un interessante riepilogo sulla questione lo ha fatto RivistaStudio.
La lotta alle disuguaglianze passa anche dal linguaggio e nell’epoca dei social, l’attenzione al passo falso è molto alta. Storicamente l’attenzione a come esprimersi per evitare di offendere alcuni gruppi e minoranze sentiti come discriminati, si è diffusa con il politically correct. Questo termine però ha sempre portato con sé un’accezione negativa: mancanza di libertà d’espressione e tentativo di controllo autoritario. Non è un caso che proprio dalla politica partano le più ardenti crociate contro il politically correct e che molti personaggi ‒ da Trump a ad altri più vicini a casa nostra ‒ lo utilizzino come slogan fondante delle loro campagne.
Ricostruendone la storia, Giulia Siviero in un articolo per Il Post, spiega come nel tempo si sia passati a un rovesciamento dei significati.
«[…] l’operazione di rovesciamento è stata così puntuale e costante nel tempo (pur avendo avuto un’evoluzione, ma ci arriviamo) che anche nella percezione comune, il significato stesso dell’espressione “politicamente corretto” sembra essere stato compromesso: essere “politicamente corretti” – che di per sé indica qualcosa di positivo: di corretto – è diventato negativo, mentre essere “politicamente scorretti” – che si per sé indica qualche cosa di negativo: di scorretto – è diventato indicatore di sincerità e coraggio».
Se, dunque, l’espressione politically correct suscita antipatia a molti, oggi si sta risvegliando una più compiuta coscienza linguistica. In Italia, al momento, una delle questioni più dibattute è quella dell’uso sessista della lingua, argomento in realtà non nuovo, ma affrontato già dagli anni Ottanta da studiose come Alma Sabatini. Le reazioni si dividono e vanno dalla difesa di una svolta in senso inclusivo della lingua, a un rifiuto totale di qualsiasi evoluzione. Un esempio sono le discussioni intorno ai femminili professionali come architetta, ingegnera ecc. e l’uso dell’asterisco egualitario quando ci si rivolge a una platea mista: es. Car* tutt*. La reazione è nella stragrande maggioranza di fastidio, e leggere i commenti che appaiono sotto un articolo sull’argomento, rende l’idea.
Chi si occupa di cultura e chi si rivolge a un pubblico vasto, si interessa a nuove soluzioni linguistiche come lo schwa [Ə]. Di recente se n’è parlato molto, soprattutto attraverso la sociolinguista Vera Gheno che ha iniziato a usarlo come alternativa all’asterisco quando bisognava rivolgersi a gruppi misti. La proposta dello schwa però ‒ come precisa la stessa sociolinguista in un’intervista ‒ era già stata fatta qualche anno fa. L’uso dello schwa per ovviare al maschile generico quando ci si rivolge a un gruppo misto, sta prendendo sempre più piede e, ad esempio, la casa editrice Effequ ha deciso di utilizzarlo nei sui Saggi Pop.
Ma il dibattito su un linguaggio più inclusivo non si limita solo all’Italia. Tra America e Regno Unito se n’è parlato molto specie per quanto riguarda i diritti delle comunità trans e non binarie. Di recente esponenti del mondo letterario tra cui Stephen King e Margaret Atwood hanno dichiarato la loro visione in una lettera aperta:
«Vogliamo fare la nostra parte per contribuire a plasmare la curva della storia verso la giustizia e l’equità. A tal fine, diciamo: le persone non binarie sono non binarie, le donne trans sono donne, gli uomini trans sono uomini, i diritti trans sono diritti umani. I tuoi pronomi sono importanti. Sei importante. Sei amato».
La tensione sul linguaggio sessista, razzista e offensivo è molto alta e ormai brand e personaggi pubblici lo hanno ben chiaro. Evitare l’epic fail e schierarsi è diventato fondamentale; il rischio è quello di cadere nel pinkwashing o nel rainbow washing, pratiche che poi finiscono per generare l’effetto opposto.
Altro fenomeno attualissimo è quello dell’hate speech, in cui la difesa di chi viene calpestato attraverso le parole, diviene motivo per calpestare.Ormai è chiaro che la coscienza collettiva sul linguaggio sta cambiando e che sarà sempre più importante prenderne coscienza. Sembra che ci si muova tra due estremità traballanti: il pericolo di un uso vuoto del politicamente corretto – che genera poi il fastidio di chi lo vede come un modo per limitare la libertà di espressione – e il bisogno di analizzare nuove proposte per un linguaggio che davvero comunichi un cambiamento verso l’inclusione. Il margine d’errore è sempre alto, ma forse evitare l’estremizzazione e l’atteggiamento da censori può sensibilizzare senza fare irrigidire.