Secondo David Mamet, noi tutti viviamo la nostra vita come fossimo i protagonisti di un testo teatrale, o di un film. Per dirla con le sue parole, drammatizziamo: attribuiamo un senso, metaforico o letterale, anche a ciò che senso non ha. Le coincidenze, per esempio. Incontriamo una persona dopo anni, per caso: se è tanto che non la vediamo, un motivo ci sarà; eppure, sul momento, prevale lo stupore: è come se il mondo ci stesse dicendo che dobbiamo riallacciare i contatti con lei. E infatti, inevitabilmente, uno dei due strapperà all’altro la promessa di rivedersi, come se quell’accidentale ritrovarsi nello stesso spazio e tempo non possa esaurirsi lì.
Siamo così ostinati, nella nostra ricerca di senso, che finiamo per esercitarla anche sugli eventi più meccanici dell’esistenza, come il succedersi delle stagioni, o il mutare del tempo: la primavera è un simbolo di rinascita, e lo è anche un arcobaleno al termine di un temporale. Non sono fenomeni atmosferici: sono di più. Manifestazioni di una volontà. Il mondo ci parla, e noi rispondiamo, come fossimo personaggi di una commedia, o, se ci va male, di una tragedia. A volte si rivolge a noi provocando un incontro; altre, regalandoci un arcobaleno; altre ancora, ci minaccia con un virus.
Non so se Mamet abbia ragione, però una cosa la so: da quando questa vicenda ha avuto inizio, mi sento come un attore su un palco teatrale, o un set cinematografico. Lo so che è un’esperienza vera, reale, ma è anche dannatamente simbolica, trascendente. Davanti alla peste, diventiamo tutti Edipo. Il flagello non può essere solo un fenomeno meccanico: è troppo crudele; dietro, ci viene da pensare, c’è sicuramente altro. È una manifestazione divina. Veniamo puniti per qualcosa, e messi alla prova. E allora, proprio come nella tragedia di Sofocle, la nostra indagine procede lungo due direttive: da una parte, combattere il nemico (ecco, lo abbiamo anche umanizzato, ha una volontà e una strategia); dall’altra, capire cosa la natura vuole da noi. Quale errore abbiamo commesso. Consciamente, o inconsciamente, costruiamo la nostra drammaturgia: la nostra, personale, struttura in tre atti.
Incidente scatenante
Perché una storia cominci, c’è bisogno di una scossa. L’equilibrio, qualunque esso sia, deve rompersi. Può essere minima, giusto un’oscillazione, oppure intensa come un terremoto, ma un effetto ce l’ha, e questo effetto nell’immediato può risultare tanto benevolo, quanto malevolo. Romeo e Giulietta ha inizio con uno sguardo che trasforma due solitudini in una coppia; La notte dei morti viventi con l’improvvisa comparsa di uno zombie, che poi è solo il primo di un esercito. Se applichiamo la struttura in tre atti alla nostra esperienza recente, non ci sono dubbi: la scossa coincide con l’apparizione del virus.
In una drammaturgia, la rottura dell’equilibrio iniziale si chiama incidente scatenante: è l’unico momento, in tutta la storia, in cui il protagonista è legittimato a essere passivo. Qualcosa gli accade: il mondo – con gentilezza, amore, odio o magari violenza – altera la sua vita. Per definire l’esatto incidente scatenante di questa vicenda, è necessario deciderne il protagonista. Se, per esempio, lo identificassimo con l’umanità intera, dovremmo dire che tutto ha inizio in Cina a fine 2019, quando per la prima volta la malattia è entrata nel corpo di un essere umano, ma questa cosa la sapevano in pochi, pochissimi. Potremmo allora spostare l’evento più in là, al 7 gennaio, quando i cinesi hanno diffuso la notizia. Questo modo di ragionare va bene per una ricostruzione storica, ma non per la costruzione di una storia: se vogliamo delineare la nostra personale drammaturgia del virus, dobbiamo partire da quando il virus è entrato nelle nostre vite.
Ognuno di noi avrà la sua data. Burioni chiedeva la quarantena già il 25 gennaio, quando ancora l’Italia non risultava toccata dal virus. Qualcun altro avrà iniziato a preoccuparsi qualche giorno dopo, quando a Roma sono stati identificati i primi contagiati, una coppia di cinesi. Per molti, la data fatale è il 21 febbraio, quando si è avuta notizia del primo caso italiano. Per altri ancora, che continuano a girare per strada a dispetto dei continui decreti, quel momento forse non è ancora arrivato. Ma sono un’esigua minoranza. La maggior parte di noi, una data ce l’ha, e non è impressa nella testa, ma nella pancia. La mia, per quello che vale, è il 17 febbraio. Potrei anche dire l’orario: mezzanotte circa.
Mi trovavo a Bologna, per lavoro; ero arrivato in serata, avevo cenato con un amico e poi ero tornato nell’airbnb in cui avrei trascorso la notte. All’improvviso, dalla stanza accanto alla mia, ho sentito un uomo tossire, con insistenza. Era con qualcun altro, forse la moglie. Non era chiaro cosa dicessero, parlavano sussurrando, ma i colpi di tosse, quelli sì, li sentivo. Sono andati avanti parecchio, e più l’uomo tossiva, più cercavo di intuire se fosse cinese o italiano, giovane o vecchio, ma era inutile: la parete, sottile, lasciava passare solo quello che poteva spaventarmi, e nulla di ciò che avrebbe potuto rassicurarmi. Subito dopo, mi sono scoperto a ricostruire i miei movimenti nell’airbnb: quali oggetti avevo toccato? Avevo stretto la mano alla signora che mi aveva accolto? Sì, l’avevo fatto. E lei, aveva stretto la mano all’ospite che tossiva? Il virus era arrivato a Bologna? Poche ore prima, durante la cena, ero seduto di fronte a un tavolo di turisti, di varie nazionalità, che bevevano, mangiavano e se la spassavano: e se fossero stati un campione dei tanto famigerati asintomatici? Ecco, è in quel momento che il virus mi è entrato nella testa. Stavo vivendo il mio incidente scatenante. La mia personale drammaturgia aveva avuto inizio.
Primo punto di svolta
Ogni storia, e ogni protagonista, hanno i propri tempi. Quando il mondo ci provoca, di solito rispondiamo, ma come lo facciamo, e quando, può variare moltissimo. Le variabili in gioco sono infinite: la situazione e il luogo in cui ci troviamo, il nostro temperamento, l’educazione che abbiamo ricevuto, e altro, tanto altro. Di ritorno da quel viaggio, ho iniziato ad adottare delle cautele: nel mio piccolo, ho evitato di stringere mani e abbracciare persone; nelle quotidiane passeggiate, ho scelto le vie meno frequentate, per aumentare la distanza dagli altri; ho drasticamente ridotto le visite a bar e ristoranti. La mia compagna non capiva: pensava fossi paranoico; fondamentalmente, boicottava i miei comportamenti.
Ogni coppia si basa sul compromesso, e poi, lo ammetto, io stesso mi interrogavo sull’opportunità di essere così cauto: gli scienziati davano messaggi contrastanti; i politici andavano a fare aperitivi all’aperto; la gente partiva per le vacanze. Il famoso video su Milano-che-non-si-ferma ha fatto il resto, e così, anche se viviamo a Torino, tra fine febbraio e inizio marzo siamo gradualmente tornati a frequentare bar, strade affollate e riunioni di lavoro. Poi, l’8 marzo, Asti è stata dichiarata zona rossa, e Asti è la città in cui vive la famiglia della mia compagna. Lì, anche lei ha capito. Ha avuto il suo incidente scatenante. In un attimo si è annullata la distanza, temporale ed emotiva, che si era creata fra di noi. Ma la verità è che io stesso avevo titubato: se fossi stato sicuro al 100% della mia analisi della situazione, sarei rimasto a casa no matter what, come direbbero gli americani. Il mio incidente scatenante era arrivato prima, ma la risposta è stata lenta; il suo è arrivato dopo, ma la reazione è stata immediata. Ogni personaggio ha i suoi tempi.
Il giorno dopo, il 9 marzo, lo sguardo della mia compagna è stato lo stesso che si è disegnato sul volto di molti italiani. Conte ha dichiarato l’intera nazione zona rossa, e in quel momento una cosa è apparsa chiara a tutti: l’Italia aveva deciso di reagire. La sorte di ognuno di noi era diventata, per decreto, un destino comune. In drammaturgia, questo momento si chiama primo punto di svolta: è il momento in cui il protagonista, reagendo all’incidente scatenante, elabora un proposito; da passivo che era, si trasforma in attivo. E poiché questa è una storia collettiva, il mio proposito, e quello della mia compagna, e del governo, e dell’Italia intera, si sono ritrovati a coincidere: come comunità, ci siamo proposti di sconfiggere la malattia, o perlomeno domarla; difendere corpi fragili; salvare vite. È stato un atto conscio, e nel compierlo, abbiamo posto una domanda, personale e collettiva: ci riusciremo?
In drammaturgia, quando il protagonista si pone un obiettivo di lunga durata, si conclude il primo atto. La risposta alla sua domanda arriverà solo alla fine della storia, nel terzo atto. Il secondo, come sa bene ogni sceneggiatore, provetto o esperto che sia, è sempre il più difficile.
Midpoint
Il secondo atto racconta i tentativi, in parte riusciti e in parte falliti, di avvicinarsi all’obiettivo. Se dovessi sintetizzarlo in un’immagine, direi che ha l’andamento del mare che fa avanti e indietro sul bagnasciuga: avanza, copre la sabbia e poi si ritira, e di nuovo, e di nuovo. Noi siamo sdraiati sulla spiaggia, l’acqua vuole raggiungere i nostri piedi, e quasi ce la fa, ma mai davvero. Com’è intuibile, per definizione il secondo atto non può darci la risposta definitiva sul destino del personaggio: è un momento di passaggio, lungo ma necessario. È l’allenamento di Rocky in vista dello scontro con Apollo Creed; la congiura di Iago nei confronti di Otello; l’indagine di Jessica Fletcher prima che l’assassino sia scoperto. Proprio perché il suo movimento è prevedibile, dai tempi della tragedia greca ci si ingegna per movimentarlo, e una delle tecniche è spezzarlo in due, sottoporlo a un cambio di passo. Gli story editor americani questo momento lo chiamano midpoint.
Il midpoint è semplice da capire, meno da elaborare, quando scrivi una storia. Banalizzando, se le cose finora sono andate bene, da adesso in poi andranno male, o viceversa. Se voglio diventare ricco, e per metà film accumulo soldi, nel midpoint faccio un investimento sbagliato; se sono innamorato di una ragazza, e per metà spettacolo teatrale mi ignora, nel midpoint si accorge di me. Se indosso la lente del drammaturgo e osservo l’andamento del virus in Italia, due cose mi appaiono chiare: la prima è che siamo in pieno secondo atto; la seconda, è che ancora non abbiamo raggiunto il midpoint. Le cose, è evidente, finora sono andate male; raggiungeremo il midpoint quando, per la prima volta, andranno bene.
Tradotto nel linguaggio dei virologi, il cambio di passo avverrà solo quando avremo ufficialmente raggiunto il picco. In quel momento, la questione sarà tutt’altro che risolta: dovremo comunque aspettare il terzo atto per sapere come va a finire, ma i numeri, e il nostro umore, cambieranno. I contagiati, e via via anche i morti, diminuiranno, mentre i guariti aumenteranno. I decreti del governo, o del Presidente del Consiglio, anziché essere più stringenti, andranno lentamente nella direzione opposta. I posti letti nelle terapie intensive torneranno a essere adeguati al numero dei pazienti. La paura lascerà il posto alla speranza. Ma come in un vero secondo atto, di una vera drammaturgia, al momento siamo persi: siamo personaggi che intravedono un’oasi nel deserto, ma ancora non l’hanno raggiunta. Soprattutto, siamo personaggi coscienti che l’oasi non è il punto di approdo, ma solo una tappa.
Secondo punto di svolta
La vita e la drammaturgia si assomigliano, ma non coincidono. Ognuna delle due ha necessità che l’altra non comprende. L’uso del tempo, per dirne una. In un buon film, spettacolo teatrale o serie tv, puoi avere scene lente, ma non noiose; qualunque cosa accada ai personaggi, dev’essere significativa per il loro percorso: altrimenti, perché prendersi la briga di scriverla, farla interpretare a degli attori, e presentarla a un pubblico? Nella vita, invece, spesso abbiamo momenti morti, pigri, inutili. E poi, le coincidenze: nella nostra esistenza sono continue; in drammaturgia, invece, il più delle volte sono indice di cattiva scrittura: si forza una situazione per avere due personaggi in uno stesso luogo in un certo momento, ma il modo in cui ci si arriva è pretestuoso. Faccio questa premessa per chiarire, se mai ce ne fosse bisogno, di non avere né gli strumenti di uno scienziato, né il suo approccio: sto descrivendo la nostra esperienza come fossimo i protagonisti di una sceneggiatura, e se veramente fosse così, allora, a malincuore, dovrei dire che dopo il midpoint le cose per un po’ andrebbero bene, ma poi, immancabilmente, precipiterebbero.
Chi scrive una storia ha molteplici frecce nella sua faretra: può lavorare sullo spazio e sul tempo della narrazione; sulle relazioni fra i personaggi; su ciò che accade nella loro mente conscia e nel loro inconscio. Sono tutte armi utili, necessarie potrei dire, ma la più potente – e già Aristotele se n’era accorto – è l’errore. Ciò che definisce la natura di un personaggio, più e meglio dei suoi pensieri e parole, è ciò che non capisce: le sue mancanze; i suoi difetti. Gli sbagli che fa. È lì che si annida la nostra vera essenza. La debolezza di Otello è la gelosia: ascolta Iago, è vero, ma lo fa perché vuole essere geloso; non ascoltare Giocasta è quella di Edipo: lei lo implora di abbandonare l’indagine, ma lui è cieco e sordo a ogni suggerimento; ha bisogno di capire, qualunque sia la verità, anche se intuisce che può essere tremenda. A un certo punto della storia, pressoché inevitabilmente, i personaggi boicottano sé stessi. E nel farlo, di sé stessi rivelano qualcosa. In drammaturgia, si chiama secondo punto di svolta, e segna la conclusione del secondo atto.
Mi auguro che, ancora una volta, la distanza fra arte e vita ci protegga. Spero che ciò che è necessario nelle storie non lo sia nella realtà. Eppure, non posso fare a meno di notare come in questa faccenda ci siano molteplici elementi che si candidano a svolgere il ruolo dell’errore fatale: la debolezza che, dopo un periodo relativamente positivo, ci riporterebbe indietro di giorni, se non di settimane, nella lotta al virus. In una drammaturgia, il secondo punto di svolta non è un episodio improvviso; al contrario, è un errore che arriva da lontano: il risultato di uno o più passi falsi compiuti nel tempo, magari silenziosamente, perché distratti da altro. E allora, se indosso le lenti dello scrittore, mi scopro preoccupato.
Mi preoccupa sapere che un gran numero di medici e infermieri si ammala, e talvolta muore, perché non dispone di sufficienti mascherine, o perché non è sottoposto per tempo a tampone: se mollano loro, cadiamo tutti. Mi preoccupa leggere che, verosimilmente, i contagiati individuati siano in proporzione di uno a dieci; a un certo punto, le misure si allenteranno, torneremo in strada, ma se continuiamo a non sapere se siamo infetti, come faremo a proteggere noi stessi e gli altri? Mi preoccupa la consapevolezza che una parte della popolazione abbia dato prova di irresponsabilità: studenti che scappano dal nord infettando i genitori, al sud; imprenditori che, pur di fatturare, mettono a rischio la salute dei propri impiegati; cittadini che, nonostante tutto, affollano i mercati; sindaci, si potrebbe aggiungere, che quei mercati ostinatamente li tengono aperti, finché non gli è esplicitamente proibito. Uno qualunque di questi fattori – ma ce ne sarebbero altri – potrebbe farci compiere un significativo passo indietro. E ognuno ci direbbe qualcosa sulle nostre debolezze, tutte vecchi vizi nazionali: la tendenza a mandare i soldati al fronte con le scarpe rotte; l’incapacità di programmare; l’allergia alle regole.
Climax ed epifania
Climax è una parola greca: significa scala, e infatti, gradino dopo gradino, identifica la vetta del percorso di un personaggio all’interno di una drammaturgia. Il climax è il momento in cui il protagonista scopre se ha raggiunto o meno l’obiettivo che si era posto inizialmente. Le opzioni, in ogni storia, sono solo due: ce la fa, o non ce la fa. Tertium non datur. Tradotto: sconfiggiamo il virus, oppure no. La mente dice che ce la faremo: il precedente della Cina è confortante; certo, le modalità della loro reazione non sono paragonabili a quelle in atto in Italia, e allora è ragionevole pensare che il nostro cammino sarà più lungo, ma non ci sono motivi per pensare che non imiteremo il suo tragitto. Nelle aree in cui è stata anticipatamente creata la zona rossa, i numeri sono drasticamente diminuiti. Il cuore non ha dubbi: al netto dei nostri difetti, siamo un popolo forte. E resiliente, per usare una parola ormai ampiamente abusata.
Finisce qui la storia? Non esattamente. I passaggi descritti riguardano quella che, in termini narrativi, definiamo trama: la successione degli eventi. Uno o più personaggi affrontano una sfida, e dopo piccoli e grandi passi avanti (o indietro), infine ottengono ciò che vogliono, oppure no. Insomma, i fatti. Ma ciò che davvero interessa, in una drammaturgia, è altro: i sentimenti. Il modo in cui i protagonisti affrontano la sfida, e cosa, nella loro avventura – o disavventura – scoprono di sé. Sono diversi i termini per identificare questa scoperta, puramente interiore: io l’ho battezzata epifania, perché – se scritta bene – è una vera e propria rivelazione. Un miracolo laico, potrei dire. Non è una mia intuizione: questa definizione l’ho rubata a James Joyce, uno scrittore che molto ha riflettuto sul legame fra vita e arte. E allora, quando questa faccenda sarà conclusa, cosa avremo scoperto di noi come popolo, come italiani? E cosa avrà compreso, ognuno di noi, di sé stesso?
In un bellissimo articolo, David Grossman afferma che ciascuno di noi, dopo questa esperienza, sarà diverso. E che più d’uno, questa novità, questa diversità, la indagherà e la farà vivere, magari mutando in maniera significativa la propria esistenza. Auspica, Grossman, che torneremo più umani. Suggerisce, implicitamente, che saremo migliori. È un pensiero bellissimo, confortante, di uno scrittore – e uomo – con un cuore grandissimo, che tanto ha visto e vissuto. Voglio credere che abbia ragione, ma la drammaturgia mi dice che il suo potrebbe rivelarsi un pensiero ottimista. Se anche è vero che ogni personaggio di una storia ha un’epifania, è falso che tutti ne risultino cambiati. È un automatismo che va bene per i film di Walt Disney, che si propongono di intrattenere, emozionare, e anche trasmettere valori positivi. Tutto legittimo. Ma nelle storie per adulti, solo talvolta ciò accade.
Un autore che ne è ben cosciente, tanto da averci costruito sopra una carriera, è Martin Scorsese. I suoi personaggi, prima che il film finisca, qualcosa la capiscono – di sé, degli altri, della realtà – ma spesso si guardano bene dal trarne le conseguenze. In Mean Streets, il giovane scapestrato interpretato da De Niro sa che i debiti si pagano, ma la sua natura autodistruttiva prende il sopravvento, portandolo alla morte. Al termine della sua epopea criminale, il Ray Liotta di Quei bravi ragazzi comprende che vivere da gangster significa essere dominato dalla paura, eppure lui, quando la perde, quella vita la rimpiange; nel finale, accetta di vivere sotto protezione della polizia, e allora deve fare la fila nei negozi, come tutti gli altri; diventa uno stronzo qualunque, per citare le sue parole. Ha capito che il crimine non paga, ma il suo spirito non è cambiato.
Ecco, secondo me, questa faccenda dell’epifania è il vero punto di contatto fra vita e arte: è qui che ci riveliamo uguali ai personaggi delle storie, ed è qui che le storie possono dirci qualcosa di come conduciamo le nostre esistenze. Tutti noi, ritengo, scopriremo qualcosa: di essere più coraggiosi, o timorosi, di quello che pensavamo; di essere egoisti, o disposti al sacrificio; di vivere con la persona giusta, o, purtroppo, con quella sbagliata; di stare bene con noi stessi, o di odiarci; di amare il silenzio, o non poterlo sopportare. Lo capiremo, su questo ho pochi dubbi. Poi, cosa ce ne faremo di questa consapevolezza, è tutt’altra faccenda. Fra noi, qualcuno lascerà che l’epifania conduca a una diversità, a un cambiamento. Magari per il meglio, come si augura Grossman. E qualcun altro, come ci ha insegnato Scorsese – e Sofocle, Eschilo ed Euripide – rimarrà invece vittima della propria natura. Capirà, ma resterà, tragicamente, uguale a sé stesso.