Tempo fa, abbiamo incrociato sulle nostre strade una realtà particolare. Il suo nome è Pensiero visibile ed è un’agenzia di comunicazione. È nata a Verona nel 2013, dall’idea che nella comunicazione la cultura e i contenuti siano più importanti degli strumenti, e che solo un approccio umanistico possa guidare la comprensione del mondo e del mercato in cui viviamo. Poteva non piacerci? Tra l’altro, oltre a progettare comunicazione per aziende, Pensiero visibile organizza il festival di storytelling dal vivo Storie da raccontare, arrivato alla quinta edizione.
Il nome arriva da un’espressione con la quale Magritte definiva la sua pittura, in grado di rendere l’inconscio e il pensiero visibili. A Gaia Passamonti e al suo socio Alessandro Scardino è piaciuto da subito questo concetto e, in fondo, si sentono decisamente surrealisti! All’inizio far passare questo cambio di paradigma è stato piuttosto difficile per loro, ma nel tempo è risultato efficace, tanto che sono passati da 3 a 20 persone in sei anni.
Abbiamo fatto due chiacchiere con Gaia. Questa non è un’intervista. O forse sì.
Sul sito dell’agenzia è dichiarato forte e chiaro: siete umani(sti). Che cosa portate dell’approccio analogico nel vostro lavoro sul digitale?
Soprattutto un punto di vista, che aggiunge alla progettazione un livello assolutamente qualitativo e umano appunto. Significa ricordare che i canali digitali alla fine sono utilizzati da persone, e quindi chi fa comunicazione è efficace solo se parla e si comporta da persona, e non da algoritmo.
Curiosamente da quando c’è il digitale siamo stati assaliti da una sorta di amnesia collettiva, per cui sembra che la tecnologia possa sostituire le relazioni invece di potenziarle, ma solo se già ci sono. L’approccio umanistico mette il “cliente al centro” da quasi 3000 anni, solo che a quanto pare nessuno se ne ricordava più!
Il mio sogno è che gli imprenditori comincino a cercare ispirazioni nella letteratura, invece che nei manuali di business che spiegano che bisogna leggere i classici. Poi chiaramente il fatto di privilegiare collaboratori che vengono dal mondo umanistico ci permette di avere a disposizione immaginari visivi e narrativi molto più ampi e diversificati. Uno dei nostri primi collaboratori è stato assunto perché ha saputo consigliarmi un manuale di mitologia nordica, anche se non aveva nemmeno idea di cosa fosse un’agenzia di comunicazione all’epoca!
Che cosa deve e che cosa non deve essere oggi un’agenzia di comunicazione?
Ecco appunto, questo è un tema su cui sto e stiamo riflettendo moltissimo. Credo che l’agenzia di comunicazione come la si è intesa finora non abbia più ragione d’essere nel mondo attuale, solo che, come per tante altre situazioni, ci troviamo fuori dalla carta geografica del conosciuto e dobbiamo cercare nomi nuovi da dare alle terre su cui sbarcheremo.
Personalmente mi sembra che il nostro lavoro sia soprattutto aiutare le aziende con cui collaboriamo a ritrovare il senso autentico in quello che fanno e che sono. Spesso l’hanno dimenticato e quando riemerge è un momento speciale. Poi da lì costruire la narrazione e la comunicazione viene facile, e c’è un solo modo possibile.
Fino a pochi anni fa l’agenzia cercava semplicemente la creatività fine a sé stessa per generare l’“effetto wow”. C’è ancora chi lavora così ma sinceramente credo sia fuori tempo massimo. I clienti vogliono conoscere se stessi e i pubblici con cui parlano, non pagare un’idea creativa e basta.
Da una parte c’è bisogno di autenticità e di prendere posizione, anzi mai come in questo momento storico essere autentici e prendere posizione premia anche a livello di efficacia. Dall’altra le “agenzie” – ma anche le web agency – scontano il fatto che in Italia questo è ritenuto un mestiere “tecnico”, quindi molto spesso i direttori creativi nascono come grafici e non hanno gli strumenti culturali per affrontare il nuovo scenario. Lavorare nella comunicazione richiede oggi un alto livello di responsabilità e di “accuratezza intellettuale”, oltre all’attitudine al meticciato culturale.
Quanto è integrato il metodo etnografico nel vostro lavoro? In che occasioni è stato rilevante?
L’etnografia è per noi un tassello fondamentale, la utilizziamo in tutti i progetti, come premessa all’approccio narrativo, per comprendere quali filoni narrativi e visivi “risuonano” di più ai nostri pubblici di riferimento.
Recentemente abbiamo fatto una ricerca molto interessante sulle abitudini dei ciclisti urbani, quelli che non sono necessariamente sportivi ma utilizzano la bici per andare al lavoro e muoversi in città. Tra le varie cose è emerso un filone relativo alle persone che si muovono in bici con il proprio animale domestico: c’è tutto un mondo di zainetti e cestini pensati per quest’uso di cui non sospettavamo l’esistenza! Tutto questo ci permette di creare piani editoriali, campagne e visual decisamente più strategici.
Di tanta osservazione online, che cosa avete imparato con il tempo?
Abbiamo imparato quello che sapevamo già da secoli, ovvero che gli esseri umani sono meravigliosamente imprevedibili, ben oltre qualsiasi ricerca di marketing!
Ci sono libri di riferimento che non mancano sulle vostre scrivanie?
L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell, vari volumi sull’interpretazione dei simboli, e Storie che incantano di Andrea Fontana. Poi sul mio tavolo le poesie di Michele Mari.