Scuro Chiaro

Parlare di surf mi riporta indietro ai pomeriggi d’estate passati a vedere Patrick Swayze che scappava, onda dopo onda, inseguito da un giovanissimo Keanu Reeves in Point Break. Il surf è sempre stato, per noi italiani, un’attività poco conosciuta, se non grazie a qualche film d’oltreoceano ambientato sulle coste californiane. Se dobbiamo attribuire la nascita del surf alle Hawaii, è stata la California a fornire la tecnologia, dalle tavole più leggere alle mute per i climi freddi, che ha permesso al surf di diffondersi in tutto il mondo. Per molto tempo i surfisti, ancora di più degli skater, sono stati considerati outsider, membri di comunità impenetrabili, fatte di propri slang, usi e costumi.

Mai come oggi sembra essere cambiato il destino e la consapevolezza di questo sport, non solo per noi italiani. Qualche anno fa William Finnegan, vincitore del premio Pulitzer, ha regalato al mondo la sua generazionale ode al surf grazie allo splendido romanzo Giorni Selvaggi. Quest’anno, il surf farà il suo debutto ai giochi olimpici di Tokyo.

La mania del surf si sta espandendo come un’onda inarrestabile, influenzando i settori più vari, soprattutto quello turistico. Sempre più Millennial e Gen Z, soprattutto donne, scelgono destinazioni di viaggio dove poter provare l’emozione della tavola da surf. Le coste dell’Algarve e dell’Alentejo in Portogallo pullulano di spiagge dedicate ai surf camp. Dal weekend alle due settimane, ci si può iscrivere singolarmente o in compagnia di qualcuno. Quando si vuole. Spesso si possono combinare al surf anche sessioni di yoga al mattino e pernottamento.

Per tutte quelle città sprovviste di onde naturali, la società Wavegarden sta iniziando a costruire in giro per il mondo degli ambiziosi surf park che producono fino a 1.000 tubi l’ora (il più grande al mondo sarà in Corea del Sud). Alloggi dedicati a ritiri surfistici come il Pegasus Lodges e il Soul and Surf vendono online outfit specialistici per i ritiri surfistici, mentre i feed e le stories dei nostri amici di Instagram si riempiono di foto con le prime softboard e mute fashioniste.

Come mai le nuove generazioni si stanno appassionando a questo sport?

Diventare familiari con un surf break richiede moltissime capacità, molte delle quali si allenano fuori dall’acqua. Bisogna imparare a leggere le maree, le previsioni del vento, l’altezza e la direzione delle onde. Conoscenze in movimento che vanno, per ogni singola onda, anticipate e improvvisate.

Nelle società occidentali, i Millennial spendono parte del loro tempo offline alla disperata ricerca di bilanciare diverse attività, tra cui lavoro e famiglia, circondati quotidianamente da colleghi, partner, amici o figli. Nel frattempo, nel mondo online, pianificano, correggono e condividono il quotidiano, spesso ideale più che reale. Per antitesi, il surf li pone davanti ad istinto, ascolto (delle onde), equilibrio e anche solitudine, quella provata davanti all’orizzonte del mare. Sfida la pazienza, ed è una disciplina che regala poche e rare soddisfazioni. Ci vogliono anni per imparare a padroneggiare un’onda, sempre considerando che ogni onda non è mai uguale a quella precedente. Chilometri e chilometri distanti dalle esigenze della vita moderna, sintonizzarsi con la natura e padroneggiare un’abilità fisicamente impegnativa, si sta rivelando benefico per la mente, il corpo e l’anima.

Secondo Peter Neushul, ricercatore all’Università di Santa Barbara, indipendentemente dal livello di esperienza, il ricordo dell’onda surfata è qualcosa di unico che rimarrà sempre dentro di noi. Ecco che allora il surf diventa un vero e proprio retreat, sostenibile e detox, a contatto con l’acqua, nomade.

Per Haidi Geismar, docente alla UCL Anthropology di Londra, anche l’antropologia può imparare dal surf. Il surf non richiede di applicare conoscenze pre-acquisite ma dipende da come noi singolarmente, come essere umani, affrontiamo ogni singola onda, ciascuna diversa dall’altra, nel corso della vita. Praticare surf può insegnare a diventare umani? Si, e lo stesso vale per la ricerca antropologica, che grazie a dimensione olistica, osservazione diretta e universalità cerca, come sostiene l’antropologo Clifford Geertz, di “ampliare il discorso sugli esseri umani”.

E se i new-born surfer si allenano in Portogallo o in Marocco, ecco che i professionisti, scappano dalle folle verso climi più freddi, quasi gelidi, per sfidare l’oceano a temperature estreme. Chris Burkard, famoso fotografo di viaggio e outdoor Americano, ha raccontato questa avventura nel suo documentario “Under an Arctic Sky”, dove riprende i suoi amici fare surf tra le creste dei ghiacciai del Circolo Polare Artico. E voi? Siete pronti a sfidare voi stessi per restare il più a lungo possibile sulla cresta dell’onda?

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