Che cosa è lo stile Quarcore? Con che vestiti ci ha tenuto compagnia durante la quarantena primaverile? Quali sono le sue caratteristiche? E che insight possiamo raccogliere dal 2020?
A darci le giuste risposte e ad accompagnarci alla scoperta di cosa significano oggi più in generale estetiche e sottoculture, Irene Francalanci, digital researcher e creatrice del catalogo Submarker. Quando il suo istruttore di scuola guida le diceva che forse era più portata per studiare lei gli dava ragione. In effetti, con una laurea in storia dell’arte e un diploma in digital storytelling in tasca, oggi Irene studia i comportamenti delle persone online, concentrandosi sulle estetiche e le relazioni.
In attesa del prossimo Dpcm, buona lettura.
Hai dato vita a un catalogo di estetiche contemporanee, Submarker. Una volta c’erano i paninari, i truzzi, gli yuppies, i metallari… Qual è il ruolo del digitale oggi in queste dinamiche?
Oggi, e con oggi intendo ormai dai primi anni 2000, il digitale è un aspetto imprescindibile per parlare di sottoculture: è il territorio che abitano o addirittura in cui nascono, a volte è proprio dal digitale che le estetiche e sottoculture più nuove prendono spunto per definirsi, darsi un nome, e, inoltre, ne detta le regole di appartenenza, o meglio di non appartenenza. Mi spiego con qualche esempio. Partendo dal primo punto, la sottocultura Emo è stata la prima a nascere, morire e rinascere sulla Rete e grazie alla Rete, più precisamente grazie ai social. Piattaforme come MySpace, che dalla sua apertura nel 2003 è diventato letteralmente lo spazio personale della community, Bebo e Facebook, ancora agli albori al tempo, hanno contribuito infatti a trasformare il genere musicale Emo nato alla fine degli anni ’80 in moda giovanile dei primi anni 2000. La sottocultura Emo è stata quindi la prima ad avere una visibilità inaspettata grazie al digitale e questo ha fatto però sì che alcuni pattern diventassero subito mainstream, penso ai fiocchi, alle calze a righe, alle felpe e ai jeans skinny, decretandone di fatto la morte già nel 2008. Esattamente un anno fa, poi, è stato di nuovo un social ad annunciarne la rinascita: TikTok, dove a gennaio 2019 l’hashtag #emocringe ha spopolato.
Per le sottoculture nate dopo gli anni ’10, il digitale invece diventa fondamentale anche per le definizioni. Un esempio sono VSCO Girl e VSCO Boy, caratterizzati da un’estetica acqua e sapone e un look da spiaggia, che devono il loro nome all’app di editing fotografico VSCO Cam, con filtri ad hoc per regalare alle foto postate sui social un’atmosfera da perenne tramonto estivo.
Infine, Internet ha modificato anche il modo con cui oggi si può far parte di una sottocultura. Gli albori di questo ultimo punto già si vedevano con gli Emo dove la sovraesposizione causata dal digitale ha fatto sì che l’estetica diventasse subito riconoscibile da molti e venisse fatta propria anche da chi non apparteneva alla community. Far parte di una sottocultura oggi è infatti un qualcosa che avviene soprattutto online, dove si può essere chiunque e quindi è possibile adottare una particolare estetica anche solo per il tempo di un post. C’è una totale fluidità e libertà di appartenere a più gruppi contemporaneamente o aderirvi solo in parte, mischiare gli stili e creare qualcosa di nuovo. Questa situazione però contribuisce a rendere le sottoculture meno visibili, o meglio non immediatamente riconoscibili.
Il primo monografico del tuo progetto è dedicato all’estetica Quarcore? Ci racconti qualcosa in più?
Con Quarcore si intende una nuova estetica che si è sviluppata durante i mesi di lockdown. Il termine ha una data di nascita ben precisa, evento raro quando si cerca di risalire all’origine di una moda, che si colloca in un periodo ancora più raro. Compare, infatti, per la prima volta il 13 aprile 2020, in un’intervista di Samuel Hine ai fondatori del brand 032c per la rivista GQ. È un gioco di parole che deriva da quarantine, quarantena, e normcore, espressione che dal 2014 indica lo stile “normale” appunto, fatto di jeans né attillati né larghi e t-shirt a girocollo. Quarcore descrive l’abbigliamento minimale, da casa, ma che è pensato per essere visto da uno schermo, del resto non ci vestivamo per uscire a inizio 2020.
È di nuovo il digitale, dunque, a farla da padrona e per l’estetica Quarcore, forse ancora di più, perché è nata e si è sviluppata esclusivamente online, anche se qualcosa ci siamo portati dietro una volta spenta la webcam e usciti di casa.
Nel monografico di Submarker l’abbigliamento Quarcore è suddiviso e si adatta infatti ai luoghi digitali che abbiamo abitato da marzo a maggio 2020: Zoom, il nostro ufficio, dove gli outfit sono ibridi e la parola d’ordine è half-dressed, business sopra e comodo sotto; YouTube, la palestra, con i capi sportivi; Netflix dove ci rilassavamo e solo qui l’abbigliamento era realmente intimo; Instagram, la piazza, il luogo degli incontri e degli outfit performativi, pensati per essere notati dagli altri.
Lo stile Quarcore, infine, è figlio di un tempo speciale, che probabilmente non avevamo messo in conto di vivere, come io, nel mio piccolo non avevo pensato di dedicare un numero del catalogo a questa estetica, che infatti è raccontata nel numero zero, non nel primo, a indicare da una parte il suo fare da pilota, ma dall’altra la natura totalmente inaspettata dell’argomento a partire dal calendario editoriale.
Un nuovo lockdown è nell’aria, purtroppo. Rispolvereremo ancora una volta il Quarcore? Qualsiasi tuta sgualcita o felpa brutta del nostro armadio può entrare a far parte di questa estetica?
Non basta tirar fuori dall’armadio una vecchia felpa bucata e dei pantaloni comodi e sgualciti per definirsi Quarcore, perché la cura nella scelta dell’outfit e l’attenzione ai brand sono rimasti, come anche le occasioni per le quali ci vestiamo, sebbene filtrate da uno schermo. Jian Deleon in una guida allo stile normcore del 2014 pubblicata sempre su GQ affermava: l’unica clausola che serve affinché tutta questa storia del normcore funzioni, è che tu sia una persona alla moda già da prima. In caso contrario sei solo, beh, normale. E lo stesso si può dire per l’estetica Quarcore, altrimenti staremmo solo parlando di abbigliamento per stare in casa.
Detto questo, credo che in vista di un secondo lockdown lo stile Quarcore subirà delle modifiche. C’è un nuovo termine che è entrato nel linguaggio comune per descrivere questa seconda ondata di Covid, per il quale l’OMS ha anche dato delle nuove disposizioni ai governi ed è la stanchezza da pandemia (pandemic fatigue). È una sensazione che provoca scoramento, stress e può trasformarsi in rabbia e disobbedienza, come hanno dimostrato anche le proteste dei giorni passati, una condizione di impotenza che potrebbe trasformare ancora una volta il nostro aspetto e il nostro modo di vestire, che se già nei primi mesi del 2020 era minimale e comodo, ma con qualche accorgimento, adesso potrebbe diventare totalmente da casa, sciatto. Del resto, anche Camus ne La peste, romanzo profetico per i tempi che stiamo vivendo, scriveva: la conseguenza più grave dello sfinimento che pian piano prendeva tutti coloro che continuavano la lotta contro il flagello non era tanto questa indifferenza agli eventi esterni e alle emozioni altrui, quanto la trascuratezza cui si lasciavano andare.
Ci sono pattern, tendenze e ricorrenze legate al Quarcore?
A differenza delle altre ricerche etnografiche su estetiche e sottoculture che ho fatto seguendo principalmente gli hashtag di riferimento sui social, l’hashtag #quarcore non raccoglie molti contenuti postati dagli utenti. Esistono, però, dei profili Instagram che hanno raccontato gli outfit del lockdown di marzo, come Working from home fits. È a partire da questi account basati sugli user generated content che ho iniziato a catalogare gli elementi ricorrenti nell’estetica Quarcore: come i bike shorts (i ciclisti) o quelli da cheerleader, le bralette in lana, gli slip dress in seta. Per le scarpe Crocs, ciabatte in spugna, Birkenstock fino ad arrivare ai mocassini Princetown di Gucci, insomma tutto ciò che non ha stringhe.
Nonostante la situazione straordinaria in cui è nato, però, questo stile non viene dal nulla, fin dal nome si rifà a qualcosa che già c’era, normcore. Alcuni dettagli, poi, come i tessuti tecnici o le stampe camo si avvicinano alla sottocultura prepper, un movimento di persone che vivono preparandosi attivamente a eventuali catastrofi, il collegamento non poteva essere più azzeccato. Ci sono poi t-shirt, leggings, tute tie dye, una tecnica che consiste nel tingere tessuti con colori e pigmenti diversi per ottenere risultati casuali e imprevedibili. L’effetto dato da questa colorazione ai capi è quel tipico “scolorito” da casa, ma il tie dye è stato anche una tendenza dell’autunno inverno 2020. Questa fantasia potrebbe essere l’emblema dello stile Quarcore: il giusto mix tra abbigliamento usato per stare in casa, ma di tendenza.
Altri pattern, infine, erano già comparsi nello streetwear, ma anche nell’alta moda: come i ciclisti, i pantaloncini sportivi attillati, abbinati a giacche camicie o felpe oversize (come Lady D insegna) e l’asciugamano indossato al posto dei pantaloni, già visto nella collezione S/S20 del designer francese Ludovic de Saint Sernin.
Accade spesso che le estetiche e le sottoculture prendano spunto da ciò che esiste già e contaminino a loro volta ciò che viene dopo, e questo è avvenuto anche per lo stile Quarcore. Basta guardare le collezioni presentate alle settimane della moda S/S21 di settembre, dove nelle passerelle, spesso solo digitali, sono comparsi i ciclisti (ancora), leggings, tute e completi in felpa, ciabatte in gomma e sandali tipo Birkenstock accompagnati da calzini in lana o spugna; dei tacchi alti pochissime tracce.
Il 2020, con la pandemia che ha stravolto la vita di tutti quanti, è stato tosto. Come leggi la campagna Diesel Unforgettable Denim?
Con la campagna Unforgettable Denim Diesel, ci invita, attraverso una frase scelta da noi e stampata sull’etichetta in pelle dei jeans, a celebrare tutte le esperienze che non abbiamo potuto fare nel 2020, facendoci allo stesso tempo ricordare, in modo forse più intimo e silenzioso, quelle con cui le abbiamo sostituite.
Sono molti gli insight che ritrovo. C’è per esempio il concetto dei jeans concepiti come indumento della memoria per eccellenza, per il fatto che, come è noto, non andrebbero lavati. Il denim, infatti, registra le nostre azioni. Quando si stropiccia, perché ci sediamo o mettiamo qualcosa in tasca, crea delle schiariture date dalle pieghe, dei piccoli difetti che lo rendono unico e personale, mentre il lavaggio lo fa scolorire in modo uniforme. Non avendo potuto imprimere in modo naturale sui nostri pantaloni le esperienze del 2020, Diesel ci offre quindi un’alternativa.
I jeans poi sono stati esclusi dal nostro abbigliamento da lockdown perché troppo scomodi, ma l’Unforgettable Denim ha comunque qualcosa in comune con lo stile Quarcore. Tra gli outfit performativi pensati per Instagram, infatti, ho notato molte t-shirt con scritte stampate di ogni tipo. Le ho interpretate come un modo per comunicare ancora di più e stabilire una connessione con gli altri attraverso ogni mezzo a nostra disposizione, non solo la foto o la caption del post, e anche i jeans Diesel vanno in questa direzione.
Nella personalizzazione ritrovo invece, con i dovuti distinguo, il concetto punk del do it yourself (anche se la parte di do è delegata), un fai da te che dall’autoproduzione di dischi e fanzine si è esteso all’abbigliamento della sottocultura. E infatti il periodo di lockdown e quello immediatamente successivo ha visto anche un incremento del fai da te nei lavori domestici che vanno dal giardinaggio al cucito, aspetto che si colloca sia in un’ottica di risparmio economico, sia di maggiore sicurezza personale.
Il mercato del denim, infine, tessuto scomodo per eccellenza e non adatto a un lungo periodo in casa, ha subito un duro colpo e causa della pandemia e mentre alcuni brand specializzati sui jeans stanno provando a diversificare la loro produzione, Diesel prova a ripensare la funzione di questi pantaloni: da protagonisti in periodo pre-Covid della nostra quotidianità, diventano oggi uno strumento per raccontarla. Già a luglio, poi, il brand aveva collaborato con l’azienda svedese Polygiene allo sviluppo di un trattamento per il denim antivirale al 99%, affidando di fatto al tessuto ancora una volta un nuovo compito per la nostra nuova normalità.