Continua la nostra esplorazione sul tema della fotografia e dei comportamenti umani e digitali. Oggi ne parliamo con Enrico Ratto, giornalista ed esperto narratore di immagini che, dopo aver collaborato con diversi settimanali e mensili, nel 2014 ha fondato il magazine Maledetti Fotografi, dove ha intervistato 100 tra i maggiori fotografi italiani ed esteri – interviste poi raccolte in queste pubblicazioni. Da Antoine D’Agata a Massimo Vitali fino a Tony Thorimbert, il format della rivista è molto semplice: parole di grandi autori e nient’altro. Nessun commento, nessuna introduzione critica, nessuna recensione di mostre – come fanno in tanti. Solo domande e risposte, prendendosi il tempo giusto per indagare un mestiere non semplice, quello del fotografo, e per far scoprire ai lettori sguardi e chiavi di lettura diverse. Ecco quali riflessioni abbiamo condiviso con Enrico.
Alcuni studi ci dicono che Instagram sta facendo male alla nostra memoria, perché ci legittima a dimenticare. Ma non è sempre stata così la fotografia? Il digitale ha cambiato dei comportamenti?
Le funzioni di Instagram che cancellano una storia, un’immagine, dopo un tot di tempo, in effetti sembrano andare in direzione contraria alla ragione d’essere della fotografia: “memories”, i ricordi, che vengono prima della creatività, dell’interpretazione e di qualsiasi altra evoluzione di questo linguaggio. La fotografia è fatta per accumulare ricordi in modo sintetico. Poi le maglie si sono ampliate, la fotografia è diventata interpretazione del mondo, comunicazione verso l’altro, esplorazione per immagini di mondi che non esistono, insomma, ha risolto altri problemi. Ma l’utilizzo base di una fotografia è conservare il ricordo di un certo momento.
Ciò che affascina è che le funzioni, anche le più radicate, cambiano. Faccio un esempio personale che mi ha colpito. Qualche settimana fa, un mio cugino di undici anni, scattava foto con una piccola macchina digitale. Ho notato che questa macchina fotografica non aveva la scheda di memoria. Faceva la foto, questa appariva sullo schermo, lui la mostrava ai parenti e poi andava persa quando scattava la successiva. Allora gli ho domandato: ma perché non ci metti una scheda? Che senso ha fare foto in questo modo? Lui mi ha risposto: ma a me non mi interessa tenere le foto, intanto poi le rifaccio.
Quindi, da una parte c’è chi ci dice di stampare le fotografie per conservarle nel tempo, come il vicepresidente di Google qualche anno fa in una intervista molto condivisa, dall’altra questa necessità potrebbe già essere scomparsa, nemmeno più contemplata. Il digitale ha sicuramente cambiato il comportamento di chi fa fotografie, ma forse siamo già oltre il paradigma con cui siamo cresciuti: vivo un evento, scatto una foto, conservo un ricordo. Con l’analogico, questi ricordi erano molto limitati, tutti noi conserviamo una decina di fotografie significative della nostra vita pre-digitale. Con il digitale, i ricordi sono numericamente maggiori, ci portiamo dietro una decina di fotografie al giorno. Ma la domanda che mi pongo è: interessano ancora i ricordi? Può essere davvero un problema rinunciare alla memoria?
C’è ancora oggi diffidenza tra chi scatta con macchine professionali e chi con gli smartphone? Senti delle resistenze nel mondo dei fotografi?
Il fotografo, nel senso di fotografo professionista, segue dinamiche comuni a tutte le professioni: tra queste, la difesa dello status quo. Anche se il fotografo svolge una di quelle professioni che per sintesi possiamo definire “creative”, mantenere una zona di comfort, una forma di competizione controllata, influisce sempre. In questo caso, la zona di comfort era rappresentata dal metodo e dal flusso di lavoro.
Il fotografo raccontava un mondo che cambiava in continuazione, quando è cambiato anche il modo di raccontare, gli è mancata la terra sotto i piedi. Con gli smartphone, ma direi in modo più ampio, con la possibilità di documentare ciò che avviene nel mondo in tempi molto rapidi e con un risultato simile al professionista (quel grado di “simile” che non fa la differenza), si è rotto un equilibrio. Improvvisamente, molte più persone sono state in grado di creare un contenuto ed hanno immesso sul mercato informazioni utili ed efficaci. La barriera all’ingresso era saltata.
È chiaro che c’è stata, inizialmente, una resistenza da parte dei fotografi professionisti. Una resistenza che si è realizzata attraverso la diffusione di molte teorie, prese di posizione, distinzioni tra cosa è professionismo e cosa non lo è, tra la fotografia con la F maiuscola e minuscola. Inutile dire che il mercato è più forte di questi ragionamenti. Oggi, credo, tutti i fotografi professionisti non possono che accettare l’idea che il loro mestiere sia cambiato radicalmente nel metodo. E lo smartphone è stato un po’ il capro espiatorio di questi atteggiamenti resistenti, il parafulmine di un sistema a volte un po’ elitario.
Oggi lo smartphone è entrato a far parte della cassetta degli attrezzi del fotografo professionista che vuole competere, senza pregiudizio. Se serve, si usa. Se, invece, si vuole ottenere un risultato che lo smartphone non consente, si usa un altro mezzo. Alla fine da una parte c’è il contenuto, e quindi il pensiero, dall’altra la destinazione d’uso. In mezzo, c’è lo strumento più adatto per ottenere il risultato, i pregiudizi e le resistenze non fanno altro che spazzarti via dall’arena.
Ogni scatto è manipolabile. Ma allora tutta la fotografia è fiction? Qual è il tuo pensiero? Che cosa significa oggi fare fotografie?
Oggi viene dato per scontato, forse dieci anni fa alcuni fingevano di dimenticarlo per tentare, appunto, una difesa del territorio: la fotografia è sempre stata manipolata. In camera oscura si sono sempre manipolate le immagini ed il risultato è sempre stato ciò che voleva comunicare il fotografo, più o meno attinente con i fatti. Da qualche anno, la manipolazione è solo un po’ più semplice. Ciò che è interessante è rispondere alla seconda parte della domanda: tutta la fotografia è fiction? Forse più che la possibilità di scattare e manipolare fotografie, ha avuto una enorme diffusione la capacità di raccontare una storia.
Probabilmente, oggi, anche le persone più distanti dal mestiere della fotografia, o della scrittura, istintivamente danno vita a qualcosa che va da A a B, da C a D. Uniscono i puntini per creare una storia più o meno attinente alla realtà, più o meno “fiction”. Perfino se devi condividere una giornata sulla spiaggia, sugli sci, un aperitivo, scatti tre, quattro, cinque fotografie e, più o meno consapevolmente, le metti in sequenza, cerchi il modo per dare vita ad una storia, alla “tua” storia. È come se fosse diventato chiaro a tutti che una storia è più potente di un singolo momento senza un prima né un dopo.
La ricerca dell’istante decisivo è stato, per anni, il mantra dei professionisti. E, agli osservatori non professionisti, ha sempre fatto esclamare “wow, ma come avrà fatto?”. Forse, però, l’articolazione di una storia si sta rivelando più interessante.
Il verbo “manipolare” si porta dietro un’accezione negativa, inquina un po’ una intenzione che non sempre vuole falsificare la realtà. Governare, organizzare i fatti per renderli più efficaci, interessanti, per arricchirli di dettagli, dei “nostri” dettagli, è diventato un modus operandi diffuso anche tra chi non ne è del tutto consapevole.
Quanto si può capire di una generazione attraverso le fotografie dei più grandi? C’è qualche esempio per capire il passato o il presente che puoi farci?
Guardiamo al passato remoto, non fermiamoci al passato recente. Se guardiamo l’iconografia di altre epoche, il mondo ci sembra fatto da ricchi, nobili, religiosi, aristocratici. Ma la selezione avveniva alla fonte: solo chi poteva permetterselo, si faceva ritrarre da un pittore. Tutti gli altri, il 99,9% della popolazione, naturalmente esisteva, ma non l’abbiamo mai vista. L’abbiamo sicuramente letta, è arrivata a noi tramite la parola scritta dei romanzi, delle cronache. Ma di immagini ne abbiamo pochissime, quasi nessuna.
Improvvisamente, la fotografia, rendendo più semplice il lavoro di documentazione, ci ha mostrato tutto ciò che davvero esisteva al mondo. Inizialmente lo ha mostrato a chi non poteva vederlo – non tutti potevano andare in Egitto a vedere le piramidi – mentre oggi che tutti possono andare ovunque, ce lo ha mostrato con una forte componente di interpretazione, più autoriale, meno neutrale. Certo, non so se “mostrare” equivalga a “capire”, perché probabilmente la profonda comprensione di un’epoca avviene tramite l’incrocio di lunghi testi scritti, cronache, documenti, anche romanzi. La fotografia, da sola, a volte non ce la fa. E su questo sono d’accordo anche molti fotografi-autori contemporanei.
E infine, quali sono gli insight, le leve, che portano le persone a fotografare, secondo te?
Mi sono sempre domandato che cosa sarebbe successo se, al posto di una macchina fotografica, i produttori di smartphone avessero inserito un altro strumento, per esempio un metro, nei telefonini. Saremmo tutti qui a misurare il mondo, a condividere distanze e dimensioni delle cose, anziché la loro immagine? Perché è vero che questo strumento è stato introdotto sulla base di una richiesta latente da parte del pubblico, ma è anche vero che, trovandoselo a portata di mano, molti di noi hanno iniziato ad usarlo senza averci mai pensato prima. Il risultato è la diffusione di fotografie a cui assistiamo ora. Quindi, che cosa spinge le persone a fotografare così tanto?
Innanzitutto, banalmente, hanno sempre a disposizione lo strumento per farlo. Poi c’è un fatto di capacità di sintesi. La fotografia è quella cosa che ti permette di trasmettere nel modo più sintetico possibile il “qui ed ora”, una necessità per tutti noi: non puoi comporre una musica, non puoi scrivere una poesia, non puoi usare le parole per descrivere ciò che stai facendo “qui ed ora” e pensare che, dall’altra parte, questa cosa venga recepita in modo così preciso ed immediato.
I comportamenti umani, quelli a larghissima diffusione, sono un po’ come la corrente elettrica, seguono la via più breve. E le fotografie sono la via più breve. Ovviamente, abbiamo già detto che la fotografia è manipolabile ed, in effetti, è molto manipolata. È noto a tutti che la fotografia mostra la porzione di realtà che tu selezioni, e lascia fuori tutto il resto. Ma questi sono dettagli, sono argomenti per chi studia il fenomeno, non per chi lo vive.
La maggior parte delle persone ha necessità, o voglia, di dire all’altro che cosa sta vivendo in questo preciso momento, e lo deve dire senza ulteriori barriere, senza traduzioni, senza strumenti complessi come la parola o articolati come un ragionamento orale. Se deve scegliere tra tutti i mezzi a disposizione, lo dice tramite un’immagine. Oppure, ha necessità di trattenere un ricordo. In tutti i casi la fotografia è lo strumento che più gli permette di risolvere il problema – si tratta sempre di risolvere un problema – di sintetizzare in un colpo solo realtà, stato d’animo, punto di vista, manipolazione, livello di attenzione dell’altro e – non dimentichiamolo mai perché è un potentissimo passe-partout – estetica.