Scuro Chiaro

Inauguriamo una nuova rubrica su Be Unsocial, dedicata a una serie di interviste a studiosi, ricercatori e professori universitari legati alle scienze sociali. Il nostro primo ospite è Giacomo Golinelli, Communications Manager di Promemoria Group. Fin dal dottorato in Antropologia Culturale a Bologna – mentre si spostava tra Istanbul e Smirne, Barcellona e la Francia, Milano e poi Torino – Giacomo ha iniziato a studiare e sperimentare nuovi modelli e strumenti di comunicazione digitale, fino a trovare la sua meta nel mondo, ancora nascosto, degli archivi storici pubblici e privati.

L’antropologia è una disciplina relativamente giovane. Ma le sue fondamenta sono già state messe in discussione almeno due volte, dal post-colonialismo e dal post-modernismo. Per l’antropologia, l’antropologo deve essere reattivo ai cambiamenti, capace di adattarsi, avere a che fare con più punti di vista che coesistono, immergersi in una realtà molteplice di fattori, narrazioni e interazioni. Questa è una parte fondante del proprio modo di interpretare il presente. Detto banalmente: è normale.

Per l’antropologia la complessità del presente – di qualsiasi presente, ma questo è un altro discorso – è un dato di fatto, non qualcosa con cui dover fare i conti oggi, non una peculiarità e un difetto insormontabile del nostro tempo. Tutto ciò, oggi, diventa un grandissimo vantaggio per chiunque abbia studiato antropologia. 

Certo, vale anche per chi ha fatto filosofia. E anche storia. Diciamo che le discipline umanistiche hanno, in potenza e di fronte a sé, una bella possibilità di riscatto dal gioco degli schemi, della sintesi, della semplificazione forzata, dei modelli economici perfetti, dei paradigmi teorici, ecc. Ma, tra tutti questi, l’antropologo è colei o colui che per formazione ha meno paura di immergersi in un contesto e, soprattutto, più strumenti intellettuali per comprenderlo e comprendere come agiscono i suoi protagonisti. 

Che significato ha conservare la memoria al tempo del digitale?

È essenziale, almeno finché conservare comporta un processo di selezione. Che può essere giusto o sbagliato, ma almeno è una sfida al presente, uno stimolo a riflettere, anche sulle nostre azioni, su quello che facciamo, sulle produzioni culturali attuali. 

In ogni caso è essenziale perché la quantità di memorie prodotte oggi è abominevole. 

Il digitale aiuta la memoria o ci rende solo più pigri?

Forse contrapporre memoria e volontà è scorretto. La volontà di ricordare mi sembra più che mai presente, anzi, quasi un’ossessione. La memoria è sempre stata rimandata a supporti e strumenti tecnologici – fosse anche una matita, un disegno su una parete. Il digitale ha reso questa azione di consegna della memoria più rapida, facile, priva di attriti. Questo non ci ha reso pigri, ma più distratti sì, di sicuro. Ricordare è diventato un atto semplice, che richiede poca energia, zero concentrazione. Un’attività che diamo per scontata. Per questo conservare la memoria, nel senso di selezionare, riflettere, è importante. Ci mantiene presenti a noi stessi in un momento di grande confusione, di moltiplicazione degli stimoli e della loro frequenza.

Che cosa è Archivi.st? Da che premesse nasce?

Archivi.st è la matrice di un progetto sperimentale dedicato alla divulgazione del sapere critico e dell’importanza delle fonti d’archivio nato e finanziato in Promemoria Group. È quella parte di attività di ricerca più disinteressata che un’azienda come Promemoria può decidere di concedersi. Una sorta di impegno concreto per quello che oggi chiamano purpose. Oggi Archivi.st è un video esplicativo e un seriuos game online (play.archivi.st) che nelle due settimane seguenti il lancio aveva totalizzato oltre 17.000 partite.  

Occupandoci in Promemoria di archivi digitali, ci siamo resi conto di due punti critici: gli archivi sono poco utilizzati da chi cerca informazioni; c’è scarsa consapevolezza degli strumenti digitali da parte di chi li usa. Entrambi gli elementi sono punti del Digital Competence Framework promosso dall’Unione Europea. 

Archivi.st si fonda sulla necessità di spiegare ai ragazzi l’importanza di accedere alle fonti del sapere, di saperle distinguere dalle informazioni di seconda, terza – e dubbia – mano che si trovano su internet. Sulla necessità di imparare a interpretare, a verificare le informazioni: serve sapere critico, non sapere e basta. 

Faccio un esempio un po’ superficiale, che mi fa sembrare vecchio, anzi, antico, ma che mette a fuoco il punto. Sono nato negli anni ‘80 e, siccome non è una mia passione, non ho la minima idea di come siano fatte le automobili, i motori. So guidare, so usare l’auto, credo anche di conoscerle le auto, ho pure la patente per le due ruote e ogni tanto mi faccio appassionare da un gara di MotoGP. Ma non conosco lo strumento. Lo so solo usare – e neanche così bene.
Ne faccio un uso passivo, mi faccio trasportare da A a B con una certa abilità e una concentrazione limitata a non fare danni durante il percorso. 

Ho due fratelli di 18 e 19 anni, uno di 11. Per loro internet è come un’auto per me. Non hanno idea dei meccanismi, delle potenzialità, delle possibilità. Lo usano per andare dal contenuto A al contenuto B, sempre meno per creare contenuti, sempre di più per consumare contenuti creati da altri. Senza un rapporto tra visibilità e valore, se non commerciale. 

Quindi: c’è davvero una differenza tra lo zapping anni ‘90 e scrollare su Instagram? No. E di certo non è la pubblicità: su Instragram ce n’è molta di più. La tv è sembrata sorpassata per quattro o cinque anni, ora è tornata sotto forma di smartphone e internet e a tutti sembra cool

Comunque, il vero e unico problema è che internet, the internet, è entrato nelle nostre vite in una misura straordinaria, ben oltre l’automobile. Non è solo uno strumento, è un mezzo che altera le informazioni che veicola senza alcuna garanzia di provenienza o attendibilità. Azzardo: è come se fosse l’auto a fare/modificare la strada mentre la percorre. Attenzione: non serve rinunciare a internet, ma serve consapevolezza, capacità di selezione, eccetera eccetera. E sapere che passare ore su Instagram non è più cool – tantomeno più stimolante a livello intellettuale – di guardare un programma di Maria de Filippi in tv. È la stessa cosa: voyeurismo, consumo passivo e bulimico di informazioni. Comunque, ripeto: serve consapevolezza, non astinenza.

Per un filosofo come Luciano Floridi, la Storia è sinonimo di Età dell’informazione. E, sempre per Floridi, adesso ci troviamo nell’Iperstoria, in cui il benessere sociale e personale non sono solo collegati ma dipendono dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. È una prospettiva stimolante che, di nuovo, ci conduce all’importanza di saper gestire le informazioni. Di riflettere, di ragionare. Di selezionare. In pratica alla necessità di realizzare e di accedere, di rendere fruibili e utili, gli archivi. 

Quali sono i requisiti di un buon archivio storico?

Dal mio punto di vista, di chi lavora con e per gli archivi storici ma non è un archivista né uno storico, è fondamentale che gli archivi diventino e siano interpretati sempre più come strumenti accessibili. È una finalità che deve essere condivisa sia da chi lavora negli archivi, sia da chi li dovrebbe usare: ricercatori, docenti, studenti e chiunque sia in cerca di un’informazione autentica, selezionata, certificata. Conservare non può essere un obiettivo soddisfacente. 

Gli archivi hanno un ruolo importantissimo: i loro requisiti oggi sono quelli che li possono rendere uno strumento utile e accessibile.

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