Scuro Chiaro

Oggi il nostro ospite è Davide Sisto, filosofo presso l’Università di Torino che si occupa da molti anni di tanatologia in relazione alla medicina, alla cultura digitale e al postumano. Insegna presso il Master «Death Studies & the End of Life» dell’Università di Padova, collabora con diverse Asl piemontesi ed è curatore, insieme a Marina Sozzi, del blog Si può dire morte. Affascinati dal tema, come sapete, non potevamo che averlo come ospite. Buona lettura!

Come è nato il libro La morte si fa social (ed. Bollati Boringhieri, 2018)? Come ha iniziato a interessarsi all’argomento?

La morte si fa social nasce da un’esperienza personale. Un giorno, nel novembre 2014, ricevo sullo smartphone una notifica di Facebook che mi invita a fare gli auguri di compleanno a un mio amico, morto tre mesi prima. Sei anni fa questo tipo di esperienza era piuttosto insolita, sicuramente non messa in conto. L’effetto immediato fu un enorme sgomento, che mi ha spinto ad andare sui profili social di questo amico. Superato l’impatto emotivo, ho cominciato a riflettere su come le tecnologie digitali attualmente in uso siano molto invasive all’interno del nostro rapporto con la morte.

Tenendo conto che mi occupavo già dal 2010 di tanatologia nelle mie ricerche filosofiche, è stato naturale introdursi nel mondo della cosiddetta “Digital Death” e dunque indagare e comprendere le varie modalità con cui la rivoluzione digitale sta cambiando la morte, il lutto, la memoria e l’immortalità.

C’è un aspetto o una curiosità che, prima di iniziare a scrivere, non si sarebbe mai immaginato di trovare?

Il bello della Digital Death è che ti mette di fronte in continuazione ad aspetti veramente inimmaginabili. Innanzitutto, non è scontato pensare al numero di profili di utenti deceduti all’interno di un social network come Facebook: oltre cinquanta milioni. Questa cifra apre orizzonti assai eterogenei, specie all’interno di un social network nato per creare relazioni.

Mi ha, per esempio, colpito molto il sito MyDeathSpace, che raccoglie le pagine social dei morti, per cui entrando al suo interno ci si ritrova dinanzi a milioni di storie biografiche di persone comuni, morte nelle modalità più assurde o cruente. Si tratta di una vera e propria enciclopedia dei morti che, per la prima volta nella storia dell’umanità, permette a ciascuno di noi di ricostruire – almeno, parzialmente – la vita delle persone comuni.

Proprio su questo tema ho pubblicato ora un nuovo libro, “Ricordati di me. La rivoluzione digitale tra memoria e oblio”, che studia le trasformazioni delle biografie e delle memorie personali nell’epoca dei social. Poi, mi hanno colpito in particolare tutte quelle invenzioni tecnologiche che mirano a farci sopravvivere come spettri digitali, rielaborando le nostre tracce registrate online e regalandogli una sorta di indipendenza e autonomia. Penso ai vari Luka, Eter9 ed Eterni.me, le realizzazioni concrete di quanto viene raccontato nel 2013 nell’episodio “Torna da me” di Black Mirror.

Che cosa spinge molte persone a cercare conforto su Facebook, spesso anche all’interno di community più ampie, dopo un decesso di un caro?

Innanzitutto, i social riempiono gli spazi vuoti lasciati dalla nostra società. Quando muore una persona amata, chi patisce il lutto si ritrova molto spesso isolato e non capito. Il mondo del lavoro non ha tempo di aspettare l’elaborazione del lutto, gli amici e i parenti spesso non sanno come comportarsi. Dunque, il dolente si ritrova solo e vede nella dimensione online una risorsa preziosa per condividere il proprio dolore con chi ha patito un’esperienza simile. La mancanza del contatto fisico aiuta, poi, a disinibirsi e a palesare la propria sofferenza senza troppo imbarazzo.

Mi ha colpito, a proposito, un dato. Se si digita su YouTube, in inglese, i termini appropriati per indicare – per esempio – la perdita di un genitore, si trovano oltre 230.000 video. Soprattutto di adolescenti che raccontano la loro esperienza. C’è un video di una adolescente italiana che racconta la morte di sua madre. Il video supera il milione di visualizzazioni e conta oltre diecimila commenti. Un simile supporto latita del tutto nella dimensione offline. Questo dovrebbe farci riflettere sulle trasformazioni in negativo della nostra società e sul fatto che, a volte, la Rete offre un contributo prezioso per sopperire alle mancanze dello spazio pubblico.

Per la sua esperienza e ricerca, la nostra religione cattolica incide su come reagiamo, anche in Rete, a una morte? Oppure le differenze tra chi ha fede e chi non ne ha si annullano?

Non è facile rispondere. I comportamenti sono molto variegati e spesso mescolano, in modo del tutto caotico, una profonda laicizzazione dei costumi con forme generalizzate di religiosità. In generale, direi che le differenze tra chi ha fede e chi non ne ha si annullano. L’idea che il caro estinto possa leggere i post su Facebook a lui rivolti o possa leggere un messaggio su WhatsApp (sono in tanti che scrivono su WhatsApp ai morti) ha un valore più simbolico – potremmo dire, romantico – che religioso tout court. Rispecchia, cioè, il classico statuto del morto: l’essere l’incarnazione della presenza di un assente. Religiosi e laici tendono a trattenere a sé il morto, a riprodurne l’immagine nei ricordi – materiali e immateriali. Dunque, gli strumenti digitali danno semplicemente forma a questa assenza, tramite la registrazione dei nostri dati. Poi, certo, ritorna spesso l’idea dell’angelo associata al profilo del morto sui social. Ma anche questo tipo di immagine è condivisa sia dai credenti che dai non credenti.

Nell’ultima parte del libro tocca il tema dei riti ai funerali in chiave digitale. Perché le persone sentono necessità di fare foto anche durante un momento così intimo e doloroso?

Di questo fenomeno parlo spesso con gli adolescenti, quando tengo le lezioni nelle scuole secondarie. Soprattutto, in relazione ai selfie ai funerali, poi condivisi su Instagram. In realtà, come dimostrano anche molti studi sociologici e psicologici, questo tipo di fenomeno è tutt’altro che negativo. Rappresenta un’innovativa maniera di condividere il proprio dolore, soprattutto alla luce del legame sempre più indissolubile tra online e offline.

Teniamo conto che l’idea dell’intimità della sofferenza a causa di un lutto è alquanto recente. Fino almeno al Novecento, la morte e il lutto si vivevano all’interno di una dimensione collettiva. Erano eventi del tutto sociali, condivisi con parenti e amici. E ancora oggi ci sono diverse culture non occidentali che rendono intersoggettivo il dolore per i morti e la loro presenza in società. Detto questo, il rischio di banalizzare il dolore e di assumere comportamenti superficiali è molto elevato quando si fanno i selfie ai funerali. Ma, per esperienza, posso serenamente dire che la banalizzazione e la superficialità non mancano nemmeno nella dimensione offline, durante la celebrazione dei riti funebri. Alla fine, la dimensione online rispecchia quella offline, con la sola differenza che le tracce della prima, una volta registrate, restano a tempo indeterminato. Dunque, un comportamento stupido nella dimensione offline ha più facilità di passare inosservato o di essere dimenticato in fretta.

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